26 agosto 2025

Francia, l’azzardo di Bayrou. La fiducia appesa ai socialisti

 Politica Dimissioni mascherate? Le Pen e Mélenchon l’8 settembre voteranno contro. Ps decisivo

 di Anna Maria Merlo *

François Bayrou gioca d’anticipo rispetto alla protesta “Blocchiamo tutto” che inizia il 10 settembre. Il primo ministro ha annunciato ieri che l’Assemblea Nazionale è convocata in seduta straordinaria l’8 settembre e quel giorno, dopo un discorso di politica generale, chiederà la fiducia (art.49.1). Di fronte alla contestazione della finanziaria che si prepara con 44 miliardi tra tagli alla spesa e aumenti di tasse, Bayrou, il primo ministro più impopolare della V Repubblica, cerca di uscire dalla confusione con una mossa a sorpresa in due tappe: prima “chiarire” la situazione, per il primo ministro la Francia con 3.300 miliardi di debito pubblico è «in pericolo» di fronte alla «maledizione del sovra-indebitamento», con una «dipendenza diventata cronica» che richiede una «traiettoria di 4 anni» per invertire la deriva che porterà quest’anno il paese ad avere come prima spesa il servizio del debito (66 miliardi, 75 nel 2026). In seguito, il primo ministro propone di aprire la discussione in parlamento e tra le parti sociali per i contenuti della finanziaria, tutti «emendabili», a cominciare dalla misura più contestata finora, due giorni festivi annullati per portare 4 miliardi nelle casse dello stato.

BAYROU KAMIKAZE del governo, che si “autoscioglie”, come ha reagito Mathilde Panot, capogruppo della France Insoumise? Una «dimissione mascherata» come dicono i Verdi? Molto probabilmente questa sarà la conclusione (vincere la “fiducia” è più difficile che parare la “censura”). Ma Bayrou punta tutto in un gioco d’azzardo che si rivolge alla popolazione al di là dei partiti e spera possa riuscire a salvare il governo, che era comunque minacciato da una “censura” che Lfi aveva previsto di presentare il 23 settembre.

Ieri, La France Insoumise e il Pcf hanno subito reagito affermando che non voteranno la fiducia al governo. Anche il Rassemblement National voterà contro, Marine Le Pen ha tolto in serata ogni ambiguità: chiede lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale e un nuovo voto anticipato per ottenere la maggioranza. Il Partito socialista è in acque agitate. Ieri mattina (prima dell’annuncio della fiducia di Bayrou), l’ex presidente François Hollande ha affermato che a settembre non è ancora arrivato il momento per votare la “censura” contro il governo, che potrà essere bocciato sui contenuti della finanziaria, se non cambia direzione. Ma, dopo l’azzardo di Bayrou, dei deputati socialisti si sono schierati per la sfiducia.

SU 577 DEPUTATI, ieri tra Rn, amici di Ciotti, Lfi, Pcf, Verdi, c’è una maggioranza per far cadere il governo (264), mentre a favore ci sono 210 voti previsti, almeno sulla carta. L’ago della bilancia sono i 66 deputati Ps (e anche quelli che saranno assenti, non calcolati quindi nel voto). Per “salvare” Bayrou ci vorrebbero dai 20 ai 50 deputati socialisti che votano a favore, l’astensione non sarà sufficiente. Molto dipenderà dalle reazioni degli elettori.

L’azzardo di Bayrou di mettere la fiducia precipitata, ha messo il Ps in difficoltà: nessun deputato socialista dovrebbe votare la fiducia, ma potrebbero esserci delle astensioni.
Mai, nella V Repubblica, non è stata votata una fiducia richiesta dal governo. Ma Bayrou non ha nessuna maggioranza, è contestato persino dal centro che dovrebbe sostenerlo. Ieri, Bayrou ha scelto i suoi nemici: ha nominato più volte La France Insoumise, il partito del “caos”, facendo appello ai cittadini, come testimoni. Lfi punta non solo alla caduta del governo Bayrou, ma alle dimissioni di Macron e a presidenziali anticipate. Anche il Rassemblement National vorrebbe anticipare la corsa all’Eliseo. Molto dipenderà dalla mobilitazione dei cittadini dal 10 settembre. I prossimi 15 giorni sono cruciali per Bayrou.

IL PRIMO MINISTRO ieri ha drammatizzato la situazione del paese, ha fatto appello ai cittadini, persino «in nome dei bambini» perché «come adulti responsabili e affettuosi non vogliamo lasciare un mondo schiacciato dal debito». Se bocciato, sarà obbligato a dimettersi. Spera così, uscendo con la testa alta, di costruirsi un’aura di politico che non ha paura delle reazioni dell’opinione pubblica, che affronta la realtà in faccia. Per preparare una candidatura alle presidenziali del 2027? È l’ossessione degli uomini politici francesi. Tra qualche mese ci sono le elezioni municipali. Anche queste pesano oggi: ci sono divisioni in tutti gli schieramenti.

Bayrou ha messo in evidenza tutti i rischi del momento: geopolitici, economici, tra guerra in Ucraina, dazi, svalutazione del dollaro, «scenari molteplici di prove di forza». Ha citato Mario Draghi, la Cassandra che parla di «un sogno di un’Europa che conta svanito quest’estate», per Bayrou un’Europa che «non va bene». Ha descritto la Francia come un paese dove ci sono eccellenze ma poi c’è un deficit commerciale perché non si producono più prodotti intermedi di consumo. La Francia va verso nuove elezioni anticipate (dopo il fallimento dello scioglimento del giugno 2024)?

nella foto: il primo ministro francese François Bayrou  

* da il manifesto – 26 agosto 2025

18 agosto 2025

Il negoziato Onu: Fallisce l’accordo sulla plastica, vittoria dei paesi petroliferi

 L'accordo per varare quello che avrebbe dovuto essere il primo Trattato internazionale contro l’inquinamento della plastica si arena a causa di Usa, Arabia Saudita, Iran, Russia e paesi del Golfo. E alle «pretese dell’industria chimica»

 

di Anna Maria Merlo *

È una nuova sconfitta del multilateralismo. Dopo nove giorni di vertice a Ginevra, conclusione di tre anni di negoziati, dopo un ultimo tentativo fuori tempo massimo, al di là della mezzanotte di giovedì, con un testo rivisto, i 184 paesi riuniti sotto l’egida dell’Onu non sono riusciti a mettersi d’accordo per varare quello che avrebbe dovuto essere il primo Trattato internazionale contro l’inquinamento della plastica. Un trattato che avrebbe dovuto avere un valore giuridico vincolante. Già nel dicembre 2024 c’era stato, a Busan in Corea del Sud, un primo fallimento. E adesso, anche se per la direttrice del Pnue (programma Onu per (l’ambiente), Inger Andersen, «tutti devono capire che questo lavoro non si fermerà perché l’inquinamento della plastica non si fermerà», non c’è una data né un luogo per un eventuale nuovo vertice. Per evitare l’impasse, la Svizzera ha proposto di cambiare metodo: sospendere il negoziato e sviluppare protocolli più vincolanti nel quadro dei trattati esistenti.

IL MONDO «SI ARRENDE agli stati petroliferi e alle pretese dell’industria chimica» ha commentato l’ong Ciel, «mettendo in pericolo la salute umana, l’ambiente e le generazioni future». Per il capo-delegazione di Greenpeace, Graham Forbes, è «un regalo all’industria petrochimica e un tradimento dell’umanità». Molti studi recenti paragonano le conseguenze dell’inquinamento della plastica a quelle dell’amianto. Le terre e i mari soffocano sotto gli scarti di plastica: ogni anno 10 milioni di tonnellate sono riversate negli oceani, l’equivalente di un camion della spazzatura ogni minuto. Oggi vengono prodotti 450 milioni di tonnellate di plastica l’anno, che cresceranno a un miliardo nel 2050, mentre per il momento solo il 10% è riciclato. Dal 2000 il mondo ha prodotto più plastica che nei 50 anni precedenti. «Alcuni paesi sono guidati solo da interessi finanziari e non dalla salute delle loro popolazioni e dall’economia durevole», ha commentato la ministra francese dell’Ecologia, Agnès Pannier-Runacher, «delusa e arrabbiata» per il fallimento. L’unica buona notizia è che il fronte dei «paesi a forte ambizione» poco per volta si allarga: a Nizza, al vertice sugli Oceani lo scorso giugno, 96 gli stati che hanno firmato un appello sull’emergenza di un «obiettivo mondiale per diminuire la produzione e il consumo di polimeri plastici primari a livelli durevoli», alla conclusione del fallimentare vertice di Ginevra sono saliti a 120 i paesi che intendono continuare a lottare per arrivare a un Trattato. Ma per il momento hanno vinto gli altri. Gli Usa, con Trump, hanno decisamente cambiato campo e sono alleati di Arabia Saudita, Iran, Russia, paesi del Golfo, che vorrebbero limitare l’intervento solo alla gestione degli scarti e al riciclaggio. Mentre per gli economisti che si occupano del prodotto plastica è chiaro che c’è una diretta correlazione tra quantità di produzione e inquinamento. Per i paesi petroliferi, che subiscono la diminuzione del petrolio nei trasporti (per il graduale passaggio all’elettrico) la plastica sta diventando sempre più un importante segmento economico. Il fronte dei paesi “ad alta ambizione” comprende gli europei, il Canada, l’Australia, la maggior parte dell’America latina e dell’Africa, i paesi insulari. Un primo testo, presentato dal presidente, l’ecuadoriano Luis Vayas Valdivieso, è stato giudicato «inaccettabile» dalla maggior parte dei paesi presenti al vertice. «Chiaramente disequilibrato» perché rimandava tutto a decisioni a livello nazionale. Solo l’India sarebbe stata disposta a firmarlo. Un secondo testo, meno compromissorio, presentato nella notte di giovedì, è stato anch’esso respinto, perché «insufficiente». La Cina, primo produttore mondiale di plastica, ha chiesto al presidente di «concentrarsi sui problemi», invece di «accrescere le divergenze»: Pechino poco per volta sembra accettare l’idea che l’inquinamento da plastica va affrontato in modo globale, dalla produzione al riciclaggio. Anche il Brasile ora sembra più aperto. Persino l’industria chimica chiede un testo comune che indichi la strada da percorrere: l’Icca (consiglio internazionale chimica), pur evitando «di giudicare» i due testi che sono stati sottoposti a discussione a Ginevra, è contro un “rigetto” completo e preferirebbe un accordo «anche se non perfetto». Ma per la commissaria Ue all’ambiente, Jessika Roswall, «abbiamo bisogno di un trattato ma non a qualsiasi prezzo». La Ue ha preso decisioni al suo interno, per imporre delle norme alla produzione e alla diffusione della plastica. Ma non è assolutamente sufficiente.

nella foto: Una spiaggia a Taiwan

* da il manifesto - 15 agosto 2025

Turchia: Processo di pace o no, mai così tanti prigionieri nelle celle turche

 300mila detenuti, uno dei tassi più alti d’Europa. Tra loro sindaci, rivali politici, giornalisti, Curdi

di Murat Cinar *

Dallo scorso marzo in Turchia una decina di condannati per reati legati al terrorismo e con pene superiori alla soglia del 30 yıl sınırı (limite informale dei trent’anni di detenzione oltre cui la scarcerazione dovrebbe avvenire per legge) sono tornati in libertà dopo aver scontato, in media, più di tre decenni dietro le sbarre.

LE LIBERAZIONI sono avvenute in un momento in cui, seppur senza un protocollo formale, è in corso un fragile tentativo di riavvio del dialogo tra lo Stato turco e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), con Abdullah Öcalan e il partito politico Dem come interlocutori centrali. Tra i liberati vi sono persone con gravi problemi di salute e ultraottantenni. Ma i centri penitenziari sono tuttora pieni di persone in attesa di essere scarcerate. Come spiega Diren Yurtsever, caporedattrice dell’agenzia Mezopotamya, «in molti casi le scarcerazioni sono state rinviate per motivi assurdi: chi, con le gambe amputate, non veniva ritenuto di buona condotta perché ‘non praticava sport’, o chi restava in cella per cavilli senza basi giuridiche». A queste persone non è stato applicato l’infaz yakma, il meccanismo che in Turchia consente alle autorità di prolungare la detenzione di un condannato nonostante abbia già scontato la pena, di solito motivandolo con presunte violazioni disciplinari. La liberazione sarebbe dunque un obbligo di legge. Tra le persone scarcerate in questi mesi c’è Veysi Aktas, detenuto per oltre 31 anni nel carcere di massima sicurezza di Imralı, dove è recluso anche Öcalan, con cui ha lavorato negli ultimi mesi al processo di pace. C’è poi Soydan Akay, rilasciato dopo 32 anni e sette ricoveri ospedalieri per gravi patologie, tra cui il cancro. Ismail Hakkı Tursun, in carcere da oltre 32 anni, ha ricordato alla scarcerazione che «ci sono tanti detenuti in fin di vita che devono essere liberati al più presto». Infine, Sıddık Güler, 85 anni, è uscito dopo più di tre decenni nonostante un certificato medico attestasse da tempo la sua impossibilità a condurre una vita autonoma.

SECONDO YURTSEVER, non c’è stato alcun cambiamento legislativo che giustifichi le recenti scarcerazioni: «Non serve una nuova legge, basterebbe applicare quelle esistenti. Ma raramente si esce dopo trent’anni, di solito solo al 31° o 32°, e per ragioni arbitrarie. Migliaia di persone, molte gravemente malate o anziane, restano in carcere nonostante i requisiti per la liberazione. Le decisioni passano dai Comitati di sorveglianza delle carceri, privi di giuristi, che agiscono in modo discrezionale e senza trasparenza». Yurtsever ribadisce che la liberazione di questi detenuti non è un passo negoziale: «È un obbligo legale, non il frutto di un accordo. Si cerca di dare l’idea che le carceri siano oggetto di trattativa politica, ma né lo Stato né il Pkk parlano di un protocollo in corso». Yurtsever aggiunge che la sua redazione riceve da tempo lettere di detenuti in cui si denuncia come, in particolare nelle carceri di Sincan e Bakırköy, esista «una scelta non giuridica e arbitraria per continuare a trattenere le persone».
La Turchia detiene un numero impressionante di persone: a fine marzo, le carceri ospitavano più di 300mila detenuti, oltre 42mila in più rispetto alla capacità, confermando un trend in crescita rispetto agli anni precedenti e con uno dei tassi più alti d’Europa. Detenuti anche politici dell’opposizione, amministratori, accademici e giornalisti non vicini al Pkk, spesso con accuse politiche o di terrorismo. Emblematico il caso di Murat Çalık, ex sindaco Chp, trattenuto nonostante condizioni critiche, una violazione legale e umana» secondo l’Ordine degli Avvocati di Istanbul.

ÖMER FARUK Gergerlioglu, deputato Dem, denuncia da tempo che lo Stato ritarda il rilascio fino a quando il prigioniero è ormai in fin di vita, definendo questi decessi «omicidi di Stato». Ha inoltre denunciato situazioni estreme come il taglio dell’acqua nelle carceri, servizi igienici insufficienti e la prima richiesta formale del ministero della famiglia per tutelare detenuti con malattie degenerative, come Ibrahim Güngör, affetto da Alzheimer e cancro alla prostata, che ormai non riconosce nemmeno la figlia. Sebbene alcune scarcerazioni possano sembrare un passo verso la pace, migliaia di casi di ingiustizia e trascuratezza persistono, alimentando sfiducia nel sistema giuridico in Turchia.

nella foto: La polizia turca arresta i partecipanti alla manifestazione "Libertà per la pace" organizzata da partiti politici curdi a Diyarbakir in Turchia

* da il manifesto - 15 agosto 2025