(
Guido Viale da comune-info.net
)
Il mondo arriva decisamente impreparato al prossimo vertice di Parigi (Cop21). Se i ripetuti allarmi di tanti
scienziati, e non solo di quelli Ipcc (Intergovernmental Panel for Climate
Change), ha fatto breccia sulla parte più avvertita, ma non certo sulla
maggioranza, dell’opinione pubblica, inconsapevolezza
e irresponsabilità dominano a livello planetario l’establishment
politico. Il quale è stato sì edotto del problema e non può più far finta
di ignorarlo (anche se al suo interno le lobby negazioniste continuano a
esercitare una massiccia influenza); ma continua per lo più a trattare i
cambiamenti climatici, che sono già in corso, come tutti possono constatare, e
non riguardano solo un remoto futuro, come una “grana” di cui ci si deve
occupare quando viene messo all’ordine del giorno, e che richiede tutt’al più
qualche misura e qualche investimento ad hoc; non un cambiamento radicale, e in
tempi brevi, di tutto l’assetto non solo economico produttivo ma anche sociale.
È quello che evidenzia Naomi Klein
nel suo ultimo libro Una rivoluzione ci salverà, quando scrive che “ha
ragione la destra”. La quale, soprattutto negli Usa, dove è strettamente legata
al mondo del petrolio, ha capito che
liberarsi dei combustibili fossili non significa solo sostituire una tecnologia
con un’altra, petrolio, metano e carbone con fonti rinnovabili; ma che per
farlo occorre ridisegnare “dal basso”, e in modo democratico, cioè partecipato,
tutta l’organizzazione sociale: una cosa che la destra non è
assolutamente disposta ad accettare, costringendola ad allinearsi ad oltranza
con le posizioni negazioniste.
Ma altrove,
cioè al centro, tra coloro che tengono le redini dei governi (la sinistra è
quasi ovunque scomparsa dalla faccia della Terra), ci si continua a comportare
come se il problema non fosse questo: a parlare di crescita e di sviluppo come se, chiuso il dossier cambiamenti
climatici, il problema centrale fosse quello di rimettere in moto, costi quel
che costi, il Pil. Tipica di questo atteggiamento, è la strategia energetica nazionale (Sen) dell’Italia varata dal
Governo Monti, confermata da Letta e peggiorata da Renzi, dove i capitoli sulle fonti
rinnovabili e sull’efficienza energetica convivono col programma di estendere le trivellazioni su tutto il
territorio nazionale e di trasformare il paese in un hub per distribuire metano
a tutto il resto d’Europa. In termini
di inconsapevolezza e di irresponsabilità la grande stampa di informazione e i
media non sono da meno: tutti hanno le loro pagine e i loro servizi sui
cambiamenti climatici (anche se il Corriere della Sera continua a
riproporre in sempre nuove versioni tesi negazioniste), ma, voltata pagina, si
torna regolarmente a parlare di crescita e sviluppo in termini di un ritorno
alla “normalità”: a stili di vita e modelli di consumo di sempre. La
conseguenza di tutto ciò è che il pubblico non è stato messo in grado, nemmeno
dalle trasmissioni e dagli articoli più seri e informati, di rendersi conto che
“niente tornerà più come prima”.
E questo, sia che la Terra continui imperterrita la sua marcia verso la
catastrofe climatica, sia che finalmente si imponga un cambio di rotta come
quello che molti si aspettano dal vertice di Parigi. È un po’, ma in una scala
enormemente maggiore, lo stesso atteggiamento che si è andato consolidando di
fronte alla crisi del 2008, che per molte economie del mondo si è andata
trascinando fino ad oggi. Pochi sono stati aiutati a capire – e quelli che lo
hanno capito lo hanno fatto a proprie spese – che niente può tornare come
prima: che l’epoca degli alti salari, della piena occupazione, dei consumi di
massa, del lavoro sicuro e del welfare garantito dallo Stato (istruzione,
sanità, pensione e indennità di disoccupazione) è finita per sempre; e che le
condizioni che rendono possibile un lavoro e una vita dignitosa per tutti
impongono un cambiamento radicale degli assetti economici e sociali.
I due problemi, peraltro, quello dei cambiamenti climatici e quello
della crisi economica permanente, sono tra loro strettamente legati, perché la
via di uscita è la stessa: un insieme di tecnologie decentrate e distribuite,
una organizzazione sociale partecipata, una condivisione generalizzata delle
responsabilità sia in campo produttivo che nelle scelte economiche e politiche,
un diverso modello di consumo. Se andiamo a vedere quali sono gli
ambiti, le filiere, i settori che oggi dipendono maggiormente dai combustibili
fossili – e che quindi richiedono con maggiore urgenza una rapida e radicale
riconversione – non è difficile individuarne quattro; oltre, ovviamente, la
generazione elettrica.
Innanzitutto
la mobilità (articoli e notizie
dell’archivio di Comune sull’altra mobilità sono leggibili qui): il modello fondato sulla
motorizzazione individuale non è sostenibile e l’alimentazione elettrica dei
veicoli non ne cambierebbe sostanzialmente l’impatto. Una vettura ogni due
abitanti (la media dei paesi sviluppati; l’Italia ha un tasso di motorizzazione
ancora più elevato) in un pianeta che tra trent’anni ospiterà dieci miliardi di
esseri umani (per poi, finalmente fermarsi), oltre a consumi insostenibili, che
metterebbero a dura prova la possibilità di garantirli con fonti rinnovabili,
non troverebbero suolo sufficiente per muoversi né per parcheggiare. La
soluzione è a portata di mano ed è la condivisione del veicolo resa possibile
dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Itc): car-sharing, car-pooling e trasporto
a domanda (taxi collettivo), distribuzione condivisa delle merci (city
logistic) sono ormai presenti in varie versioni, rudimentali o
sofisticate, in tutto il mondo e si stanno diffondendo a ritmo serrato.
Naturalmente hanno bisogno di un’integrazione intermodale con il trasporto di
massa lungo le linee di forza della mobilità: la promozione dell’intermodalità è un’attività complessa, che
richiede una cura particolare. Ma ben poco è stato fatto finora per aiutare la
popolazione a concepire la propria vita, e a riorganizzarla, senza contare su
una propria automobile personale. Meno ancora per garantire che sevizi adeguati
di mobilità flessibile vengano messi a disposizione di tutti. Eppure, in nessun
settore come in quello della mobilità si dimostra che è l’offerta a creare la
relativa domanda: nessuno aveva, né avrebbe potuto, creare una domanda di car-sharing
fino a che un servizio del genere non fosse stato attivato. Ma mobilità
sostenibile significa anche riduzione
degli spostamenti: un problema che tocca direttamente i rapporti con la
pubblica amministrazione (e-government) e il telelavoro, nei confronti
dei quali non si intravvedono misure di promozione adeguate, e soprattutto il contenimento dello sprawl urbano e
del conseguente consumo di suolo, dove si mettono in gioco interessi
immobiliari quasi altrettanto potenti e “intoccabili” di quelli dell’industria
petrolifera.
In secondo
luogo i consumi del settore civile: edilizia
residenziale e di servizio, soprattutto per quanto riguarda riscaldamento e climatizzazione: anche
in questo campo le tecnologie per ridurre drasticamente i consumi, e per
convertirli alle fonti rinnovabili o a un uso diffuso della cogenerazione sono ampiamente testate,
sia sulle nuove costruzioni che sugli edifici esistenti, di qualsiasi epoca. Ma
diffonderle su tutto il patrimonio esistente è un’impresa titanica: non solo
per l’entità dell’investimento, che richiederebbe comunque una complessa
articolazione per ripartire la spesa tra intervento pubblico, incentivazione
dell’investimento privato e soluzioni finanziarie ad hoc. Ma l’articolazione
riguarda soprattutto il mix di fonti rinnovabili, di interventi impiantistici,
di ristrutturazioni edilizie, di soluzioni finanziarie e soprattutto di
strumenti di comunicazione e di divulgazione che richiedono un approccio
specifico, non solo edificio per edificio e territorio per territorio, ma anche interlocutore per
interlocutore: diverso è ovviamente l’approccio a una proprietà individuale, a
un condominio, a una piccola o media impresa, all’unità locale di un grande
gruppo. Oggi gli interventi vengono per lo più promossi e proposti in ordine
sparso, mentre attrezzare squadre pluridisciplinari di tecnici in grado di fare
un check-up integrato e una progettazione di massima degli interventi
possibili in ogni edificio è la premessa perché ciascuno – proprietari,
inquilini, amministratori, imprenditori, manager e dipendenti – si confronti
con la responsabilità di rendere sostenibile la porzione di territorio in cui
vive e lavora. È poi più che ovvio che dal punto di vista occupazionale un
intervento a tappeto di questo genere è la premessa per un grande piano
pluriennale in grado di creare milioni di posti di lavoro e di compensare qualsiasi
perdita occupazionale derivasse dal ridimensionamento dei settori più
direttamente legati all’uso dei combustibili fossili (articoli e notizie
dell’archivio di Comune sul risparmio energetico sono leggibili qui).
In terzo
luogo – ma forse al primo – occorrerà rivoluzionare
le nostre abitudini alimentari. Oggi, in media, per ogni caloria di cibo
che arriva sulla tavola di un consumatore occidentale (o dalle abitudini
alimentari occidentalizzate), ne vengono consumate nove-dieci di origine
fossile: concimi, pesticidi, motorizzazione, trasporto (anche intercontinentale),
stoccaggio, manipolazione, confezione, imballaggio e pubblicità rendono il
sistema agroalimentare insostenibile. La filiera agroalimentare dovrà cambiare
radicalmente: l’agricoltura dovrà
essere ecologica (usando fertilizzanti naturali e privilegiando la
protezione biologica delle colture), multicolturale,
per salvaguardare la fertilità dei suolo, multifunzionale, per garantire ai
produttori fonti di reddito diversificate, di prossimità per evitare costi di trasporto e stoccaggio
eccessivi. In gran parte questa
trasformazione dipenderà dalle scelte dei consumatori, che dovranno associarsi
per garantirsi attraverso un rapporto il più diretto con i produttori,
un’alimentazione di qualità, a basso impatto ambientale, prodotta il più
possibile da aziende agricole e di trasformazione di prossimità: il che
potrebbe cambiare radicalmente l’aspetto del territorio periurbano delle città
grandi e piccole, a partire dalla grande diffusione che stanno avendo gli orti urbani, che impegnano spesso in
modo condiviso gli stessi consumatori finali in forme che segnano un
cambiamento radicale di filosofia e stile di vita. Ma un cambiamento del genere
dovrebbe anche segnare il progressivo
ridimensionamento del ruolo di quei templi moderni del consumo che sono il
super e l’ipermercato, o il centro commerciale, intorno a cui il
capitalismo degli ultimi decenni ha riorganizzato non solo la geografia dei
centri urbani (con la desertificazione commerciale di interi quartieri e la
scomparsa dei negozi di vicinato) e con essa la quotidianità del
cittadino-consumatore costretta a gravitare intorno a questi poli di
attrazione, ma anche la struttura planetaria della produzione. Oggi la grande
catena di distribuzione, che serve milioni di consumatori, che si approvvigiona
in tutto il mondo da decine di migliaia di fornitori che può coinvolgere e
abbandonare in qualsiasi momento, che incassa cash e paga a due o tre
mesi, sviluppando un’enorme potenza finanziaria, rappresenta le caratteristiche
peculiari di un’economia globalizzata assai più dell’industria automobilistica
che aveva fornito il modello di organizzazione del lavoro durante tutto il
“secolo breve” del fordismo (qui articoli e notizie dell’archivio di Comune
sulla filiera corta, qua invece quelli sugli orti urbani).
Infine viene
la gestione dei rifiuti, che
sono le miniere del futuro, mano a mano che le vene di minerali che oggi
alimentano l’industria si assottigliano, rendendo sempre più ardua e costosa
l’estrazione, e che le risorse rinnovabili utilizzate per sostituirle entrano
in competizione con la produzione di cibo. Oggi è facile sottovalutare o
addirittura irridere alla raccolta
differenziata dei rifiuti urbani, anche da parte di quegli
amministratori che ne hanno la responsabilità diretta. Perché non si coglie, e
non viene spiegato, che dietro ogni chilo di rifiuti urbani ce ne sono quattro
o cinque di rifiuti della produzione, che vanno anch’essi raccolti e trattati
allo stesso modo (cosa peraltro assai più facile, perché vengono generati
sempre in grandi lotti relativamente omogenei); che il modo migliore di
trattarli non è quello di mandarli a smaltimento, ma di incanalarli
direttamente verso quegli impianti che li possono rigenerare o riciclare; ma
soprattutto che è solo dall’analisi del perché e come un bene si trasforma in
un rifiuto che possono venire gli input di una radicale rivoluzione
industriale: di una produzione che invece di promuovere l’obsolescenza dei suoi
prodotto, trasformandoli in rifiuti per poterne vendere continuamente di nuovi,
torni a progettarli per farli durare, per cambiarne solo le componenti logore o
obsolete, o per facilitare
comunque il riciclo di tutti i
materiali di cui è composto il bene prodotto. In nessun campo come in questo la
responsabilità di un cambiamento radicale del sistema è condivisa tra cittadini
consumatori, amministratori locali, legislatore, sistema produttivo, cioè
imprese, e progettisti, cioè designer. L’ecodesign oggi è un campo di
azione ai margini di una cultura produttiva fondata e orientata allo spreco
delle risorse. Deve diventare il nocciolo di ogni progetto di riconversione produttiva (qui articoli
e notizie dell’archivio di Comune su rifiuti, raccolta
differenziata, riuso e riciclo, conversione ecologica).
3 novembre
2015
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