Quanto
influirà la questione greca su Podemos e le speranze di cambiamento della
sinistra spagnola? La sintonia tra Iglesias e Tsipras è stata una costante
degli ultimi mesi, ma questa vicinanza può ora indebolire la “creatura” iberica
nei due prossimi importanti appuntamenti elettorali autunnali? Intanto nei
sondaggi è in leggero calo mentre cresce la fronda interna che chiede l’“unità a
sinistra”. Un ragionamento sulla Spagna, tra conservazione e rinnovamento.
( di Steven Forti* da micromega - 27 luglio 2015)
( di Steven Forti* da micromega - 27 luglio 2015)
Lo scorso 8 luglio al Parlamento europeo Pablo Iglesias è intervenuto affermando che “difendere oggi il popolo greco e il suo governo significa difendere la dignità dell’Europa”. Una frase che riassume bene la posizione di Podemos di questi ultimi sei mesi. Quel giorno Tsipras si trovava a Bruxelles: era la settimana di duri negoziati e di grandi speranze successiva alla vittoria del “No” nel referendum greco. La firma del “diktat” imposto da Schäuble e Merkel – con l’appoggio di Finlandia, paesi baltici e Slovacchia – il mattino del 13 luglio ha creato non poche difficoltà alla sinistra europea: c’è chi ha accusato Tsipras di tradimento, chi è rimasto senza parole e chi ha appoggiato comunque il premier greco, consapevole della complessità della situazione europea.
Le dichiarazioni dei giorni successivi dei dirigenti di Podemos vanno in quest’ultima direzione. Il 16 luglio, rispondendo a dei giornalisti durante la presentazione di un libro del sociologo Manuel Castells, Iglesias ha riconosciuto che “tristemente era l’unica cosa che Tsipras poteva fare. Ciò che è successo in Grecia rappresenta la verità del potere. Se si costituiscono in Europa nuovi governi che applicano politiche keynesiane, se riusciamo a convincere i socialdemocratici a cambiare posizione, allora ci sarà una possibilità. Altrimenti, avremo Marine Le Pen”. Anche il numero due di Podemos Íñigo Errejón ha ribadito lo stesso concetto: “I leader europei hanno solo posticipato il problema, debilitando un governo eletto democraticamente con l’obiettivo di dimostrare che non ci sono alternative all’austerità. Era l’unico accordo possibile di fronte all’intransigenza dei leader europei, la migliore soluzione raggiungibile, anche se non è un accordo pensato per il futuro dell’euro e dell’UE. Appoggiamo ciò che appoggerà il Parlamento greco e rispettiamo quello che decideranno”.
Pochi giorni dopo, in un articolo pubblicato su “El País”, Iglesias ha però aggiunto che “la politica è sempre conflitto e dovremmo giocarci le nostre carte in un contesto difficile in cui ci troviamo di fronte avversari molto potenti che oggi festeggiano l’accordo greco come una vittoria temporanea della ragione cinica e della reazione sull’europeismo sociale. Ciononostante, la Grecia non è la Spagna. Il nostro Paese ha molta più forza come attore politico in Europa e può valersi di istituzioni pubbliche capaci di mettere in riga le nostre oligarchie corrotte, improduttive e defraudatrici”. Ossia, la Grecia non è la Spagna, le dimensioni contano ed è necessario costruire un’alleanza progressista e anti-austerità in Europa. Che in queste precisazioni di Iglesias si trovi anche una replica al discorso che sta cercando di imporre il governo del Partito Popolare è indubbio. Rajoy non ha perso un minuto per ergersi a difensore del rischio di “syrizzazione” della Spagna nel caso in cui vincesse le prossime elezioni Podemos, presentato come un partito populista e antieuropeista. Una lettura in cui è caduto, cosciente o incoscientemente, anche Eugenio Scalfari che ha messo nello stesso sacco Podemos, UKIP e Front National in un recente articolo su “Repubblica”. Il PP insiste con il discorso di “O noi o il caos”, come viene dicendo da tempo Enric Juliana, vicedirettore de “La Vanguardia”. Un caos che sarebbe rappresentato non solo da Podemos, ma anche dai nazionalisti catalani, baschi, galiziani e valenzani – che hanno ottenuto importanti vittorie nelle recenti elezioni amministrative di maggio, conquistando, in alleanza con PSOE, Podemos e liste civiche nate dal basso, il governo di molti comuni e regioni – e dal rischio di ripiombare nella crisi economica. L’economia è infatti il cavallo di battaglia di Rajoy: le stime per il 2015 parlano di una crescita del PIL del 2,8% e nel secondo semestre del 2015, secondo recenti dati dell’Instituto Nacional de Estadística (INE), la Spagna ha creato oltre 400 mila posti di lavoro e la disoccupazione è calata dell’1,4%, attestandosi al 22,3% (pari a oltre 5 milioni di persone). Non si dice però che oltre il 70% dei nuovi posti di lavoro, dovuti alla stagione turistica, sono precari e che la maggior parte dei contratti sono della durata inferiore ad una settimana.
Una congiuntura delicata per Podemos
Per i dirigenti di Podemos però non ci sono solo i grattacapi per le possibili ricadute della questione greca sulla politica interna spagnola. I sondaggi cominciano a presentare una situazione diversa da quella dei mesi scorsi dove il partito guidato da Iglesias volava sopra il 20% e si giocava la vittoria nelle elezioni. Secondo un sondaggio elaborato tra il 20 e il 22 luglio da Metroscopia, PSOE e PP si disputerebbe la vittoria con, rispettivamente, il 23,5 e il 23,1% dei voti, Podemos otterrebbe il 18,1%, Ciudadanos il 16% e Izquierda Unida il 5,6%. Ma secondo un altro recente sondaggio elaborato per “El Diario”, Podemos si fermerebbe al 13,3% dei voti, a una notevole distanza sia dal PP che si manterrebbe primo partito con il 30,7%, pur perdendo oltre un terzo dei voti rispetto al 2011, sia dal PSOE che, grazie soprattutto alla leadership di Pedro Sánchez, allontanerebbe definitivamente il fantasma di pasokizzazione con il 27,4%. Ciudadanos otterrebbe il 10,2% e IU il 4,8%. In questo caso, si ripeterebbero per i partiti emergenti i risultati delle regionali andaluse di marzo. Dei risultati importanti, senza dubbio, per un sistema di bipartitismo imperfetto come era fino all’altro ieri quello spagnolo, ma non proprio esaltanti. Il bipartitismo dimostrerebbe sì il suo momento di difficoltà (non superando PP e PSOE il 60% dei voti totali nel caso del secondo sondaggio e il 50% nel caso del primo, mentre nel 2008 avevano oltre l’80%), ma anche la sua tenuta, evitando quella che pareva solo all’inizio dell’anno la sua crisi irreversibile.
Anche perché, fattore non secondario, la legge elettorale spagnola premia i grandi partiti: con il 13% o anche il 18% dei voti Podemos otterrebbe indicativamente tra i 30 e i 50 deputati (stime confermate anche utilizzando i risultati delle elezioni regionali di maggio), Ciudadanos una ventina, mentre PP e PSOE ne avrebbero, rispettivamente, 115/133 e 107/120. Sarebbe a dire che si conferma, come nelle regioni e nei comuni dopo le amministrative di due mesi fa, una rappresentanza politica sempre più frammentata anche nelle Cortes di Madrid. Un’alleanza a due o anche a tre (PP + Ciudadanos o PSOE + Podemos o PSOE + Ciudadanos con appoggio esterno di Podemos) non permetterebbe la formazione di un governo (la maggioranza in Parlamento è di 176 deputati), che avrebbe bisogno di essere allargato anche ai partiti nazionalisti catalani e/o baschi. Pare che vada in questa direzione il recente accordo tra PSOE e il Partito Nazionalista Basco (PNV), grande vincitore delle comunali di maggio nei Paesi Baschi. Si tratterebbe, insomma, di una specie di quadri- o pentapartito come ai tempi della prima Repubblica italiana, ma senza un corrispettivo della balena bianca democristiana. I partiti spagnoli, insomma, dovranno imparare in fretta a saper fare alleanze e patti.
Dibattiti e tensioni interne
La delicata congiuntura vissuta da Podemos si nota anche all’interno del partito. Negli ultimi due mesi si sono fatte sentire diverse voci critiche con la direzione di Iglesias non tanto per le scelte fatte prima e dopo le elezioni regionali (appoggio a governi o giunte comunali socialiste, ecc.), ma per la strategia proposta in vista delle politiche generali di fine anno. Iglesias e soprattutto Errejón hanno ribadito la loro volontà di correre da soli, eventualmente con accordi puntuali in determinate realtà regionali (Catalogna, Galizia, Baleari, regione valenzana e forse nei Paesi Baschi e in Navarra) dove esistono altri attori politici di sinistra ben radicati, ma senza diluire la “marca Podemos” in una confluenza di sinistra con Izquierda Unida in tutto lo stato. Diversa è l’opinione di altri settori interni a Podemos e di buona parte della stessa IU che spingono per un accordo di tutta la sinistra spagnola con la creazione di una lista di confluenza “di unità popolare”. A inizio luglio è stata creata infatti la piattaforma Ahora en Común, che fin dal nome si rifà alle esperienze vincenti di Ahora Madrid, Barcelona en Comú, Zaragoza en Común e delle maree galiziane. In Ahora en Común si sono riuniti il candidato di IU Alberto Garzón e una buona parte della federazione guidata da Cayo Lara, una parte dei settori critici di Podemos con Iglesias fin dal congresso di Vistalegre dell’ottobre scorso, alcuni esponenti delle citate liste civiche e altri piccoli partiti di sinistra come Equo. Ancora non si può parlare della formazione di una specie di “partito dentro il partito”, come è il caso della Piattaforma di sinistra di Lafazanis per Syriza, ma si potrebbe andare in quella direzione in un futuro non troppo lontano.
Vari sono stati infatti i manifesti lanciati negli ultimi due mesi che criticano il centralismo di Iglesias e che sono favorevoli sia a un maggiore peso dei circoli sulla direzione del partito – questione presente fin dalla nascita di Podemos – sia all’apertura di Podemos a confluenze come nel caso della municipali: da “Abriendo Podemos” firmato, tra gli altri, dall’ex eurodeputato e leader del partito in Aragona Pablo Echenique – che si è riavvicinato a Iglesias nelle ultime settimane – a “Ahora la Moncloa: manifiesto por la unidad popular” firmato da intellettuali e scrittori di sinistra come Willy Toledo, Isaac Rosa e Juan Madrid fino a “Mover ficha por la unidad popular” firmato da artisti e intellettuali come Pedro Almodovar e Pilar Barden, che nel 2008 avevano appoggiato la rielezione di Zapatero. A questo si aggiungono recenti dichiarazioni che vanno nella stessa direzione dell’ex eurodiputato di Podemos Carlos Jiménez Villarejo, da sempre molto vicino a Iglesias, e il manifesto “Podemos es participación” dove si sono riuniti i settori critici che persero l’Asamblea Ciudadana dell’autunno scorso che elesse Iglesias segretario del partito (la leader andalusa Teresa Rodríguez, gli eurodeputati Miguel Urbán e Lola Sánchez e il sindaco di Cadice José María “Kichi” González). Anche lo stesso Juan Carlos Monedero su questi punti si è dimostrato più possibilista, tanto che le sue dimissioni a fine aprile potrebbero leggersi anche in questa chiave. Quest’ultimo manifesto si lega direttamente a un’ultima questione che ha diviso il partito nelle ultime settimane: le primarie di Podemos per l’elezione del candidato premier e per la formazione della lista del partito alla Camera e al Senato alle politiche generali dell’autunno. La strategia di Iglesias e di Errejón è stata quella di costituire un’equipe coesa e unita, facendo appello alle basi del partito, ma creando non pochi problemi sia per la proposta sia per la modalità sia per la tempistica del processo delle primarie. I critici non sono però, come si diceva, uniti: i settori vicini al Sindicato Andaluz de Trabajadores (SAT) di Diego Cañamero e Juan Manuel Sánchez Gordillo hanno presentato una propria lista (Utopía y Dignidad), appoggiata da Teresa Rodríguez e parte del Podemos andaluso, mentre il grosso del Podemos asturiano ha fatto lo stesso con la lista Asturias Decide.
I risultati, resi pubblici nei giorni scorsi, hanno dato un’ampia vittoria alla candidatura di Iglesias (49 mila voti, pari all’82%), però con una partecipazione piuttosto bassa sul totale degli iscritti e dei simpatizzanti di Podemos che avevano diritto di voto (hanno votato circa 60 mila persone su un totale di 379 mila iscritti, pari al 16% del totale). Iglesias è stato eletto ufficialmente, dunque, candidato premier – ma non aveva mai avuto sfidanti – e la lista proposta dal segretario del partito sarà il nucleo duro dei futuri deputati di Podemos, in attesa di sapere in quali collegi elettorali saranno assegnati i candidati. Si tratta di una lista formata da 65 persone – ricordiamo che secondo i sondaggi Podemos non otterrebbe, nemmeno nei migliori dei casi, più di 60 deputati – con i primi dieci posti occupati da persone dell’entourage di Iglesias (Íñigo Errejón, Carolina Bescansa, Irene Montero, Rafael Mayoral, Sergio Pascual, Ángela Ballester, Luis Alegre, Auxiliadora Honorato e Pablo Bustinduy), l’ex dirigente di IU e poi fondatrice di Convocatoria por Madrid Tania Sánchez – ex compagna di Iglesias – e altre figure dell’organigramma di Podemos (da Jorge Lago, responsabile di Cultura e dell’Instituto 25M fondato dal partito, a Raimundo Viejo, assessore di cultura con Ada Colau a Barcellona), oltre a esponenti della società civile. I dirigenti del SAT andaluso Cañamero e Sánchez Gordillo – il carismatico sindaco di Marinaleda dal 1979 – occuperebbero, dunque, i posti 71 e 73 nella lista elettorale, in quanto non integranti della lista proposta da Iglesias e usciti sconfitti dalla votazione.
La Catalogna come prima prova del fuoco
Il dibattito sulle confluenze è però ancora più complesso. Intelligentemente, come si è detto sopra, Iglesias e Errejón si sono dimostrati da subito favorevoli ad arrivare a candidature di confluenza in alcune regioni dove Podemos è meno forte, come dimostrato nelle regionali di maggio. Mentre in Galizia, nelle Baleari e nella regione valenzana pare che si sia ancora in alto mare per possibili accordi, rispettivamente, con ANOVA, il Mes e Compromís, in Catalogna si è già firmato un accordo con gli eco-socialisti di ICV e i post-comunisti di EUiA (la federazione catalana di IU) con la formazione di “Catalunya Sí Que Es Pot” (Catalogna Sì Che Si Può), il cui nome richiama, traducendolo al catalano, lo slogan “Sí se puede” di Podemos. Un accordo valido sia per le regionali catalane di settembre sia per le politiche generali di fine anno, con la postilla non secondaria della formazione nelle Cortes spagnole di un gruppo parlamentare separato da quello di Podemos (come avviene ora con ICV-EUiA e IU).
La fretta di chiudere un accordo in Catalogna si deve alla celebrazione delle elezioni regionali anticipate il prossimo 27 settembre. Elezioni estremamente complesse che i partiti indipendentisti catalani presentano come elezioni “plebiscitarie”, ossia come un referendum sull’indipendenza della regione. Nei giorni scorsi si è ufficializzato l’accordo tra Convergència Democràtica de Catalunya (CDC), il partito dell’attuale governatore Artur Mas che ha rotto la federazione quasi quarantennale con Unió Democràtica de Catalunya – partito contrario alla secessione e favorevole a una soluzione confederale –, e Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), il partito di centro sinistra indipendentista guidato da Oriol Junqueras che ha sostenuto l’esecutivo di Mas nell’ultimo biennio. “Junts pel sí” (“Insieme per il sì”, ossia il sì all’indipendenza), questo il nome della lista, ha ricevuto l’appoggio delle due associazioni indipendentiste che hanno organizzato le grandi manifestazioni delle Diadas degli ultimi tre anni, l’Assemblea Nacional Catalana (ANC) e Omnium Cultural (OC).
L’accordo è senza dubbio storico e crea per la prima volta un vasto fronte indipendentista catalano – dal quale ha deciso di rimanere fuori la formazione anticapitalista della CUP, che ha da poco stretto un patto d’unità d’azione con i baschi di Bildu e i galiziani del BNG – con la presenza nella lista di personalità mediatiche importanti come l’ex eurodiputato eco-socialista Raul Romeva, membro di ICV fino al marzo scorso (capolista per Barcellona), lo storico cantautore simbolo dell’antifranchismo Lluís Llach (capolista per Girona), l’economista ed ex deputato socialista Germá Bel (capolista per Lerida), l’ex presidentessa della ANC Carme Forcadell, la presidentessa di OC, l’ex comunista Muriel Casals o, ancora, l’ex allenatore del Barça e attuale allenatore del Bayern Monaco Pep Guardiola, che chiude la lista per Barcellona. E con un programma che, in caso di vittoria, stabilisce l’inizio effettivo della “sconessione” con la Spagna e l’avvio del processo di secessione che si dovrebbe portare a termine in un arco di tempo compreso tra i nove e i diciotto mesi. La mossa di Mas è stata abile – tanto che si è garantito, secondo gli accordi, l’elezione a presidente della Generalitat, pur figurando solo quarto nella lista – e gli ha permesso di ritornare in pista con la formazione di una versione ancora più ampia di quello che la storica italiana Paola Lo Cascio ha definito il “partit dels catalans” (“partito dei catalani”), in un momento in cui i sondaggi d’opinione rilevano una diminuzione dei catalani che voterebbe sì in un referendum sull’indipendenza (dal 51% dell’autunno del 2012 al 44,5% del luglio 2015). La volatilità del voto è enorme in queste settimane, tenuto conto anche della metamorfosi del panorama politico catalano, ma è molto probabile una vittoria di “Junts pel sí”, che però avrebbe bisogno della CUP per avere la maggioranza nel parlamento regionale. Sarà chiave capire anche il risultato che potrà ottenere “Catalunya Sí Que Es Pot”, per cui è stato scelto come capolista Lluís Rabell, presidente della Federación de Asociaciones de Vecinos y Vecinas de Barcelona (FAVB), storico attivista proveniente dalle file dell’antifranchismo e della sinistra catalana.
Il risultato della lista di confluenza appoggiata da Podemos in Catalogna non sarà importante solo per le dinamiche catalane, il che è indubbio; rappresenta anche un test chiave per il partito per capire se la strategia scelta da Podemos possa essere quella vincente nelle politiche generali di fine anno. E se il progetto di Iglesias di una “nuova transizione” – il riferimento è al superamento della transizione alla democrazia di fine anni Settanta e alla riforma della Costituzione del 1978 – sia fattibile. Un progetto, come spiegava Iglesias su “El País” lo scorso 19 luglio, che si basa sulla “promozione di un nuovo patto di convivenza sociale e territoriale che si dovrà articolare mediante un processo costituente […] frutto di un grande dibattito sociale che permetta ai cittadini, e non alle élites politiche ed economiche, di esserne i protagonisti fondamentali”.
* ricercatore presso l’Istituto de Història Contemporanea – Universidade Nova de Lisboa –
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