L'unione innaturale con partiti tra loro antagonisti e politiche di
austerità: spesso dinamiche che tra loro si sommano e portano a una disfatta
tanto veloce quanto inesorabile. E' il caso di laburisti irlandesi,
liberaldemocratici del Regno Unito e tedeschi. Ma anche di Socrates in
Portogallo e di Papandreou in Grecia
di Marco Quarantelli *
Il primo dato delle amministrative
dice che l’affluenza segna un ulteriore calo, come già era avvenuto alle politiche del 24 e 25
febbraio scorsi, quando un quarto netto degli elettori è rimasto
a casa. Dopo le politiche di febbraio, i partiti non hanno dato grandi prove
di efficienza davanti a un Paese messo in ginocchio dalla crisi. Sono stati
i tre mesi più pazzi della Repubblica,
con la lunga paralisi seguita al voto, l’incapacità di eleggere un nuovo presidente
della Repubblica, gli affanni e le risse quotidiane delle
“larghe intese” tra Pd e Pdl, il non facile debutto dei Cinque stelle
nel grande gioco della politica parlamentare. Si intravede una tendenza
all’autodistruzione, che forse non tiene conto di un fatto: anche i
partiti muoiono. Spesso per loro stessa mano. Come dimostrano diverse
recenti vicende che hanno segnato la politica di molti nostri vicini
europei.
I motivi sono ovunque gli stessi: l’unione innaturale
con partiti antagonisti e le politiche di austerità messe in
atto. In alcuni casi le due dinamiche si sommano. E la disfatta arriva
rapida e inesorabile. E’ il caso del Partito laburista irlandese. Socio
di minoranza di un governo con Fine Gael (centrodestra), a causa delle
manovre lacrime e sangue avallate in cambio dei 67,5 miliardi ricevuti da Unione
europea e Fondo monetario internazionale, dal 19,6% conquistato nel
2011 è piombato al 4,6%, ha subito una diaspora di parlamentari e ora rischia
di essere spazzato via alle elezioni del 2015: la voce della folla scesa in
strada a Dublino il 13 aprile contro la nuova property tax a gridare
“non ce la facciamo a pagare” all’indirizzo del leader del partito Eamon
Gilmore era quella del suo popolo. Un’eco sinistra al caso del Pd che, dopo
aver votato tutte le misure di spending review volute da Mario Monti,
ora parla di crescita e sospende l’Imu, come se appena nominato premier Enrico Letta
non fosse volato a Berlino a rendere omaggio ad Angela Merkel,
che di quelle politiche è musa ispiratrice e vigile controllore.
In Germania i problemi sono del Freie
demokratische partei, il partito liberaldemocratico alleato di governo
della Cdu: se nel 2009 aveva conquistato il 14,6% dei voti (miglior
risultato di sempre), oggi i sondaggi nazionali lo danno al 5%. E
rischia non prendere neanche un seggio alle elezioni di settembre. Emblematica
la serie di disfatte inanellate nelle elezioni locali che tra il maggio 2011 e
il marzo 2012 lo portano a perdere tutti i seggi in 6 Lander e contro cui nulla
può l’avvicendamento al vertice tra il ministro degli Esteri Guido Westerwelle
e quello delle Finanze Philipp Rosler. I motivi del crollo? Sempre
oscillante tra l’appiattirsi sulle posizioni della Cdu e il proporsi come
alternativo, si è mostrato ondivago su temi come il salario minimo e la riforma
del welfare e aveva anche promesso una riforma del fisco che non è mai
arrivata.
Nel Regno Unito in crollo verticale sono i
Liberal-democratici di Nick Clegg: dal 23% conquistato nel 2010,
ora a livello nazionale galleggiano attorno all’8%, superati dallo United
kingdom independent party al 19%, secondo un sondaggio pubblicato domenica
dall’Indipendent. Un sorpasso certificato dalle urne: le amministrative
del 2 maggio hanno relegato il partito al 4° posto con il 14%, scalzato
proprio dall’Ukip che è volato al 23%. A corto di idee dopo anni di
difficile coalizione coi conservatori, euroconvinti in un paese di euroscettici
(Cameron ha annunciato un referendum sulla permanenza nell’Ue, l’Ukip ne
predica l’uscita), i LibDem pagano il tenere in piedi il governo a
furia di compromessi e il mancato rispetto di varie promesse, tra
cui quella sul taglio delle tasse universitarie.
La storia recente dell’Ue è funestata da due suicidi
politici di portata storica. Nel 2011 il premier del Portogallo Socrates,
socialista, concorda con Bruxelles una manovra lacrime e sangue per risanare i
conti pubblici, il 23 marzo il parlamento la boccia e Socrates è costretto alle
dimissioni. Risultato, l’Ue interviene con 78 miliardi e l’economia va a picco:
in 2 anni sono aumentati disoccupazione (dal 12.9% al 18.2%), deficit
e debito pubblico, passato dal 106% al 123%; soltanto la crescita è calata,
dal -1,6% al -2,3%. Ancor più tragiche le storie del Pasok e del popolo
greco. Dopo aver negato per mesi la crisi e aver sancito il tracollo del
Paese, il Movimento socialista panellenico è passato dal 43,9% del 2009
al 12,28% del 2012 e oggi governa ancora, in una coalizione formata con Nea
dimokratia, di centrodestra.
In alcuni casi, rari e virtuosi, il suicidio di un
partito può salvare un Paese. In Germania nel 2003 l’Spd di Gerhard
Schroeder fece approvare l’Agenda 2010, una serie di riforme del
mercato del lavoro e del welfare necessarie per uscire dalla stagnazione.
L’Agenda impose duri sacrifici ai tedeschi che nel 2005 punirono l’Spd e
aprirono la strada a due governi guidati dalla Cdu di Angela Merkel. Ma
l’Agenda 2010, come certificato anche dalla Deutsche bank, salvò il Paese e
pose le basi per il boom economico tedesco.
* da
ilfattoquotidiano.it, 26 maggio 2013
Nessun commento:
Posta un commento