intervento di Fiorello Cortiana
Non ci sono guerre umanitarie, neanche quelle partigiane. Quando il conflitto per il cambiamento passa dalla forza del consenso politico e sociale alla violenza esso vive la sua dimensione più tragica. Solo un’estetica della violenza, piuttosto che un etica della violenza nel nome di presunzioni assolute, ed una identità definita per antagonismo “ho un nemico quindi sono”, possono vederne la sua espressione più alta e compiuta.
In democrazia il monopolio della forza militare risiede nella dimensione pubblica ed istituzionale dentro i confini della legge e nel rispetto di regole e procedure da essa previste. La dimensione internazionale dopo la chiusura della seconda guerra mondiale all’insegna dell’arma assoluta nucleare ha vissuto nell’equilibrio dualistico del terrore prima e poi nella disarticolazione multilaterale del dominio imperiale uscito vincente.
Un multilateralismo che vede nuovi attori contendere mercati economici, esercitare il controllo geopolitico delle risorse attraverso l’azione militare diretta, come in Iraq o in Cecenia, o attraverso il sostegno di contendenti locali, come accadde nell’ex Jugoslavia e accade in Africa, basti pensare al Darfur, al Sudan o alla Nigeria.
L’affermazione di un governo partecipato delle controversie e dei conflitti mondiali attraverso le Nazioni Unite ha sempre fatto i conti con il peso reale degli attori in campo e con l’evoluzione delle relazioni tra loro al di là della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Così è evidente che l’autodeterminazione della Cecenia ha conosciuto una repressione violenta da parte della Russia senza alcun intervento della comunità internazionale e la stessa cosa vale per il Tibet.
Ciò non significa e non giustifica la contrarietà all’intervento della comunità internazionale per fermare quando interessi geopolitici ed economici lo consentono.
Di fronte alla possibile repressione violenta della richiesta popolare di libertà di espressione, di partecipazione alla cosa pubblica, di dignità delle persone il problema non è se intervenire o meno ma come e quando. E’ evidente che una diversa gestione delle risorse, il superamento dei modelli autoritari tribali a base etnica e religiosa, una efficace cooperazione internazionale, sono indirizzi politici necessari ed auspicabili per una efficace azione della comunità internazionale. Queste sono le politiche cui dare concretamente corpo Ciò comporta laddove necessario, per quanto riguarda le garanzie di ordine pubblico, l’esercizio di una azione di interposizione militare. Ma senza le politiche di riequilibrio economico e di partecipazione democratica l’interposizione sospende la degenerazione ma non la risolve.
Come ecologisti abbiamo sempre detto che un terzo della popolazione e degli stati del mondo consumava i tre quarti delle risorse disponibili, per questo era ipocrita parlare di “paesi in via di sviluppo”: con quali risorse? Ora a partire dal petrolio e poi per l’acqua questa contraddizione è di fronte ad un bivio: o sarà risolta alla luce di una contesa militare o con l’avvio di un nuovo modello sociale ed economico nella gestione delle risorse all’insegna di maggior equilibrio e sobrietà.
Con l’entrata in crisi del dominio unilaterale statunitense l’opzione desiderabile davanti al bivio ha più possibilità.
Qui l’Europa ha una responsabilità decisiva. L’Europa che ha saputo trarre la lezione più importante dalla seconda guerra mondiale con le sue dittature e le affermazioni razziste portate fino allo sterminio, che ha basato la relazione economica tra le nazioni su basi comuni e ha fatto dell’inclusione, su basi democratiche e non religiose, la sua forza sia come mercato unico sia come fondamenta costitutive sancite nel Trattato Costituzionale in vigore. Qui vediamo l’agonia dei nazionalismi dentro la contesa per il petrolio libico e la fatica a leggere il Mediterraneo come mare comune. Ad un tempo vediamo i ceti colti, professionalizzati e giovani, del Nord Africa e del Medio Oriente dare corpo, connessione, senso ad una domanda popolare di democrazia, che dall’Egitto alla Tunisia e alla Libia, si è manifestata con coraggio e tenacia, attraverso l’uso intelligente delle convergenze e delle applicazioni digitali dai blog a Facebook a Twitter.
Una domanda di democrazia spiazzante per tutti. Non solo per il partito degli affari e della paura che ha visto negli emigranti, che da quindici anni attraversano e aggirano il Mediterraneo, solo dei disperati che venivano a contendere le rendite e non anche l’elite colta e istruita che ambiva a vivere in una società aperta alle opportunità e alla libertà.
Oggi è impossibile non vedere questo, non possiamo essere oscurati da una gestione irresponsabile dei profughi e dalle strumentalizzazioni elettorali. Insieme all’azione umanitaria da garantire qui, occorre che l’Europa metta in atto un’azione politica capace di avere gli indirizzi di riequilibro ambientali,economici, sociali, e dei diritti. Chi se non gli ecologisti di tutta Europa può fare questa proposta? Proprio perché abbiamo la consapevolezza che i diritti così come le radiazioni non conoscono confini, proprio perché non rispondiamo ad interessi particolari economici e finanziari a carattere nazionale. La questione dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo e la natura della loro evoluzione politica deve essere una questione che l’Europa sente sua come lo è stata quella dei paesi europei dell’ex blocco sovietico. Perché l’Europa lo faccia devono iniziare a farlo gli ecologisti europei.
Bibliografia utile: Cohn Bendit - Gino Strada - Adriano Sofri
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