23 settembre 2025

Charlie Kirk: l’alibi era perfetto

Maga ha il suo martire, aveva 31 anni ed era un influencer di estrema destra. E così, gli Stati Uniti possono ora precipitare nell'autoritarismo di Donald Trump, dove il perdono diventa subito rappresaglia. La vicenda Kirk è una storia che tracima dalla cronaca e intacca la società più profonda:

Maga ha il suo martire. Ucciso il 10 settembre alla Utah Valley University durante un evento del suo tour delle università, il 31enne Charlie Kirk, influencer di estrema destra e fondatore di Turning Point Usa, diventa subito l’espediente per una rappresaglia contro il nemico che viene individuato ancora prima che si aprano le indagini: la sinistra – «il partito degli omicidi», sintetizza Elon Musk sulla sua piattaforma X. Dal partito repubblicano trumpizzato si levano subito le chiamate alla vendetta, mentre dalle destre globali (e dal partito di governo in Italia) parte un cordoglio di solito riservato ai capi di stato. Si punta il dito sull’indottrinamento dei college woke, su ogni forma di dissenso, sui democratici al Congresso che protestano perché il governo di Trump (che per Kirk ordina bandiere a mezz’asta in tutti gli edifici federali) non ha mai dato nessuna attenzione all’omicidio politico di quest’estate, in Minnesota, della deputata del parlamento statale Melissa Hortman, assassinata insieme al marito da un estremista di destra che aveva sparato anche a un senatore democratico. E alla fine anche su Antifa, di cui Trump promette la designazione come gruppo terroristico: proprio perché non è un gruppo, né un partito o un movimento, garantisce che il reato di appartenere all’opposizione (e di essere antifascisti) possa essere perseguito senza limiti – idea subito rilanciata da Viktor Orban. La Heritage Society intanto pubblica un documento in cui propone l’adozione di una nuova categoria di terrorismo: «L’estremismo violento dell’ideologia transgender».

E le indagini? La gestione da parte dell’Fbi diretta da Kash Patel della ricerca dell’assassino di Kirk è la prova concreta dell’inefficienza del Bureau, svuotato dai suoi agenti più esperti e riempito di yes men: per due volte Patel afferma che il sospetto è in custodia per poi essere smentito, e anche fra i Maga cresce lo scontento nei suoi confronti.

Quando poi viene preso il 22enne di “buona famiglia Maga” Tyler Robinson, le incisioni sui proiettili usati e uno scambio di messaggi con la presunta “roommate” transessuale viene preso come conferma definitiva del “movente” di sinistra, anche se da subito le cose si rivelano ben più complesse.

La prima puntata del podcast di Charlie Kirk dopo il suo omicidio viene registrata dal vicepresidente degli Stati uniti JD Vance, che parla di «statistiche» che provano (contro ogni evidenza del contrario) la matrice di sinistra della violenza politica. «Stronzate», lo redarguisce il comico Jimmy Kimmel durante il monologo di uno dei più popolari late show statunitensi, Jimmy Kimmel Live!, e ricorda a Vance la folla che il 6 gennaio 2021 aveva costruito una forca improvvisata per impiccare il suo predecessore. Per aver osato dire che la «gang Maga» stava strumentalizzando la morte di Kirk, Kimmel si vede cancellare immediatamente lo show da Abc, di proprietà Disney, ripristinato qualche giorno dopo: è il secondo studio hollywoodiano a piegarsi alla repressione della libertà di parola che trova nella censura del comico italoamericano la sua manifestazione – sinora – più eclatante. Qualunque critica a Kirk diviene oggetto di una foga purificatrice e di denunce via social, di cui cade vittima, fra tanti dipendenti pubblici e privati, anche la giornalista Karen Attiah licenziata in tronco dal Washington Post.

La martirizzazione di Kirk e la precipitazione autoritaria degli Usa, vengono sanciti dal funerale in chiave cristologica dell’influencer allo stadio di Phoenix. Dove un perdono («quell’uomo, quel giovane uomo, io lo perdono» dice la vedova Erika Kirk del presunto assassino) è sommerso dall’invocazione della rappresaglia: «Charlie – scandisce Trump – non odiava i suoi oppositori. Io odio i miei».

( da il manifesto -23 settembre 2025 - newsletter è a cura di Giovanna Branca, Marina Catucci e Luca Celada).

 



16 settembre 2025

Non si può parlare di ritorno al nucleare ignorando l’esito dei referendum passati: è una questione di metodo

 di Mario Agostinelli *

È curioso che un governo che si proclama vicino al popolo ignori apertamente le indicazioni espresse in due referendum

È curioso, per non dire contraddittorio, che un governo che si proclama vicino al popolo ignori apertamente le indicazioni espresse in uno degli strumenti più alti della sovranità democratica: il referendum. Ancora più discutibile è l’insistenza del ministro Pichetto Fratin nel decantare le presunte virtù salvifiche del ritorno al nucleare, mentre l’Italia resta ancorata al gas e il governo continua a voltare le spalle alle rinnovabili, in un atteggiamento che sa di negazionismo energetico.

In debito di un esteso dibattito politico e pubblico sulle implicazioni delle scelte nazionali sulla transizione energetica, provo qui ad avanzare alcune obiezioni di fondo sulla scorrettezza politica e la discutibilità giuridica di un processo che avanza con l’appoggio delle lobby energetiche e confindustriali, sospinto dal governo e in particolare dal ministro dell’Ambiente. Metto a confronto due evidenze che parlano da sole: da un lato, le dichiarazioni sempre più disinvolte e coordinate di esponenti delle Regioni e del governo a favore dell’atomo; dall’altro, la volontà popolare degli italiani, chiaramente espressa che, fino a prova contraria, resta ferma nella sua opposizione agli impianti di fissione.

Senza particolare clamore né reazioni da parte dell’opinione pubblica, negli ultimi mesi il presidente della Regione Lombardia e il ministro dell’Ambiente hanno sottoscritto accordi di cooperazione sul nucleare con interlocutori internazionali di primo piano: rispettivamente con Rafael Grossi, direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, e con il Segretario all’Interno degli Stati Uniti, Doug Burgum. Si tratta di atti ufficiali, presentati alla stampa come iniziative per “rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza energetica”, ma che nella sostanza mirano a riaprire la strada al nucleare di nuova generazione, definito “sicuro e sostenibile”. Pur non avendo valore vincolante né carattere legislativo, questi accordi assumono un peso politico significativo, soprattutto perché vengono promossi in assenza di un mandato popolare e in contrasto con quanto espresso dai cittadini nei referendum del 1987 e del 2011.

Il quadro di riferimento in cui si inquadrano queste iniziative è un ddl approvato a maggioranza della Conferenza Unificata delle Regioni e non ancora approdato in Parlamento. Un progetto che ambisce a disciplinare l’intero ciclo di vita dell’uranio: dalla ricerca alla costruzione degli impianti, fino allo smantellamento e alla gestione dei rifiuti, senza alcun riferimento ai vincoli posti dall’esito referendario.

L’attivismo del governo è evidente e si dispiega ovunque, tranne che nelle sedi istituzionalmente dedicate al confronto e a un dibattito pubblico aperto. In quelle sedi opportune si dovrebbe tener conto di un macigno sulla strada che Pichetto Fratin percorre nelle occasioni a lui più congeniali, ostentando dati e orientamenti, come i costi, i tempi e la sostenibilità dell’operazione da lui promossa, ampiamente contestabili: l’esito dei referendum antinucleari. Il referendum nel 1987 dopo Cernobyl ha avuto una affluenza del 65.12%: 80,57% Sì 14,96% No. Il referendum nel 2011 dopo Fukushima ha avuto una affluenza del 54,79%: 94,05 Sì, 5,95% No.

Sul piano dei contenuti, l’ultimo referendum del 2011 ha abrogato due commi di legge relativi al nucleare:
– Art. 7, comma 1, lettera d) del DL 25/6/2008: “Realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare”;
– Art. 10, comma 5 della Legge 23/7/2009, n. 99: “Ripresa del programma nucleare nazionale”.

Un ostacolo così chiaramente delineato può essere superato solo attraverso un nuovo ricorso al referendum e non basta affermare la “sostenibilità” o la “sicurezza” delle moderne tecnologie dei reattori e del ciclo fissile dell’uranio. Come è possibile allora varare un programma che contempla non solo il lancio sotto nuove forme di impianti della stessa generazione precedente (Smr – Small Modular Reactors) ma, addirittura, l’obiettivo di una quota dall’11 al 22% dell’atomo nel mix energetico al 2050?

Mi piacerebbe si dimostrasse che il nuovo nucleare è improvvisamente diventato sostenibile per l’ambiente e la vita e che il rischio d’incidente e il lascito delle scorie sono sostanzialmente diversi da quelli bocciati. Ad oggi la tecnologia dei circa 100 Smr necessari per raggiungere gli obiettivi indicati da Pichetto Fratin non cambia la sostanza giuridica: abbiamo a che fare con impianti nucleari nel senso pieno del termine.

In precedenti occasioni ho già affrontato su questo blog questioni specifiche che si ricollegano ai ragionamenti qui abbozzati, a partire dalle previsioni su tempi e costi e dalla scommessa su sicurezza, flessibilità, economicità e autonomia energetica, nonché dalla gestione delle scorie radioattive. Questa volta sollevo una questione di metodo, prima ancora che di merito: non è in discussione il diritto del Parlamento di legiferare, ma il dovere delle istituzioni di rispettare la volontà popolare, soprattutto quando è stata espressa in modo inequivocabile e democratico, attraverso strumenti come il referendum. Ignorarla non significa esercitare la sovranità, ma svuotarla.

*  da ilfattoquotidiano - 12 Settembre 2025