27 luglio 2025

La propaganda dell’economia fossile dietro i rallentamenti della transizione energetica

Dobbiamo abbattere le emissioni climalteranti il prima possibile. Sarà semplice? No. Sarà a costo zero? No, ma raggiungere l’obiettivo ci costerà molto meno che mancarlo

di Nicola Armaroli *

Tra il 2020 e il 2022 l’Unione europea e gli Stati Uniti lanciarono ambiziosi piani di ristrutturazione e rilancio del sistema produttivo in chiave di salvaguardia climatica. In Europa, il Green deal divenne sinonimo di riorientamento dell’economia verso una decisa riconversione ecologica. In pochi anni, però, il vento è radicalmente cambiato. Le ragioni dell’inversione di rotta sono molteplici e complesse. Tra queste spicca una veemente reazione di diversi settori industriali tradizionali che, colti di sorpresa dall’improvviso vento di cambiamento, hanno lanciato una poderosa controffensiva a ogni livello, a partire da quello mediatico. Il calo di entusiasmo verso la transizione ecologica non elimina però la sua urgenza e, in particolare, il settore dell’energia necessita di decisioni improrogabili e cambiamenti profondi.

L’Europa ha fortemente ridotto la dipendenza dal gas russo, ma non ha certo cancellato la dipendenza patologica da gas e petrolio. I nostri attuali fornitori di idrocarburi non sono campioni di democrazia e tolleranza, ma anche il nuovo grande fornitore statunitense non offre garanzie entusiasmanti, se non quelle di un prezzo e di un impatto ambientale particolarmente elevati. Il costo dell’elettricità, sempre ancorato a quello del gas, resta un peso insostenibile per milioni di cittadini e imprese. La situazione imporrebbe di incrementare la capacità elettrica rinnovabile, in particolare solare ed eolica. Purtroppo, in molte regioni, un’irrazionale e ben orchestrata campagna di attacco - basata su informazioni ascientifiche in merito a impatti ambientali e consumi di suolo - pone ostacoli talvolta insormontabili a un processo che dovrebbe accelerare senza indugi.

Mentre in Italia si ostacolano in ogni modo le opzioni che potremmo intraprendere subito, si riparla di nucleare, puntando però su tecnologie che al momento non sono disponibili sul mercato: i piccoli reattori modulari Smr o la fusione, che è di là da venire. Percorrendo la strada del nucleare, che oggi non presenta particolari novità tecnologiche, l’Italia potrebbe (forse) avere impianti funzionanti fra non meno di 15 anni. In questo arco di tempo, lo sviluppo delle rinnovabili - che tutti ritengono essenziale - potrebbe rendere quest’opzione completamente superata, anche perché la piena complementarità tra rinnovabili e nucleare non è ovvia, soprattutto dal punto di vista economico.

A livello tecnologico, procede inarrestabile lo sviluppo delle batterie, il cui costo è calato di oltre il 75% in 10 anni. Questo processo sta già portando un cambiamento epocale nei settori dell’industria automobilistica e della produzione elettrica: nulla sarà più come prima. Oggi la Cina domina l’intera filiera, grazie a scelte strategiche lungimiranti fatte in passato; vi sono però ampi margini di innovazione, che il resto del mondo deve cogliere. L’uso di seconda vita e il riciclo saranno decisivi per accrescere la sostenibilità ambientale degli accumulatori, che già oggi garantiscono un minore impatto dell’auto elettrica rispetto alle motorizzazioni tradizionali.

L’idrogeno, nel lungo termine, resta un’opzione importante, ma non può e non deve essere usato in qualsiasi contesto e a ogni costo, poiché è un vettore costoso e complesso. La produzione e la distribuzione sono caratterizzate da ineludibili inefficienze, che dobbiamo giocarci solo quando non esistono alternative migliori. Quindi no all’idrogeno nel trasporto leggero su strada e nel riscaldamento domestico e sì all’uso nei settori industriali che oggi fanno largo uso di combustibili fossili per processi ad alte temperature, ad esempio le acciaierie. In prospettiva, la produzione di idrogeno da eccessi di produzione elettrica rinnovabile potrebbe giocare un ruolo chiave nel settore dello stoccaggio stagionale, ma il costo degli elettrolizzatori deve calare in modo sostanziale.

La buona notizia è che le tecnologie per la transizione energetica sono in gran parte già disponibili e sono anche semplici e competitive: fotovoltaico, eolico, biomasse a filiera corta, idroelettrico, batterie, pompe di calore, reti intelligenti, ecc. Il sistema energetico è caratterizzato però da un’inerzia enorme verso il cambiamento, per una complessa combinazione di fattori tecnici, economici e sociali.

Anche l’indolenza mentale è però spesso un enorme ostacolo: di fronte al cambiamento siamo più portati a enfatizzare i rischi che a considerare le opportunità.

Il cammino però è obbligato: per evitare il peggio, dobbiamo abbattere le emissioni climalteranti il prima possibile. Sarà semplice? No. Sarà a costo zero? No, ma raggiungere l’obiettivo ci costerà molto meno che mancarlo. Se non lo faremo, pagheranno soprattutto i più giovani, i più fragili, i più poveri.

Il contenuto di quest’articolo è tratto dal Rapporto “Scenari per l’Italia al 2035 e al 2050” dell’ASviS. Lo studio costruisce quattro scenari relativi all’impatto della transizione ecologica sull’economia italiana, realizzati grazie alla collaborazione con Oxford Economics.

* da greenreport.it - 21 luglio 2025

Nicola Armaroli:  Nicola Armaroli (1966) ha ottenuto la maturità classica nel 1985 e la laurea in Chimica nel 1990. Nel 1994 ha conseguito il dottorato di ricerca in scienze chimiche, svolgendo poi un periodo di post-doc presso il Center for Photochemical Sciences at Bowling Green State University (USA). Nel 1997 è entrato al CNR dove, dal 2002, è primo ricercatore. La sua attività scientifica riguarda la fotochimica e la fotofisica di composti di coordinazione, nanostrutture di carbonio e materiali supramolecolari, con particolare interesse per la luminescenza ed i processi di trasferimento di energia ed elettroni. Questo lavoro di ricerca di base ha importanti ricadute in varie applicazioni tecnologiche, quali la conversione dell'energia luminosa e la messa a punto di nuovi materiali luminescenti. Ha pubblicato 2 libri ed oltre 130 articoli scientifici, reviews e capitoli di libri. Svolge attività di consulenza e divulgazione scientifica sui temi dell'energia, delle risorse e dell'ambiente anche attraverso i mezzi di comunicazione di massa.

 

5 luglio 2025

Dal Mediterraneo alle Alpi, ultima chance per il clima: ecco cosa dicono i dati

 I dati scientifici sono chiari, così come gli effetti ma c’è ancora chi sminuisce la crisi ambientale mentre i cambiamenti stanno accelerando

di Mario Tozzi *

Prima di tutto i dati. Le temperature medie dell’atmosfera non sono mai state complessivamente così alte come negli ultimi giorni in Europa, un incremento che ha prodotto, produce e produrrà ondate di calore in grado di minacciare i sistemi biologici dei viventi, esattamente come ipotizzato nel VI rapporto IPCC oltre due anni fa. Le prime vittime confermano questa tendenza e a poco vale ricordare che, al mondo, si muore anche per il freddo, perché in passato, a causa del caldo, non si moriva.

L’incremento assassino delle temperature va ben al di là delle nostre esperienze personali e dei nostri fallaci ricordi: negli anni ’60 del XX secolo si registravano una decina di giorni con temperature al di sopra dei 32°C, all’inizio degli anni Duemila erano diventati una ventina e oggi sono più di trenta, per non dire delle notti tropicali, con buona pace di mio nonno che girava in canotta e di quel titolo di giornale che, nel 1950, riportava temperature di 42°C a Milano: tutto vero, ma tutto irrilevante, perché ciò che conta sono i dati provenienti da decine di migliaia di centraline sparse in tutto il mondo (e “corrette” se si trovano vicino alle città, che sono più calde, delle campagne).

Lo zero termico e le temperature del Mediterraneo

Altri dati sono quelli relativi allo zero termico, cioè il punto (o, meglio, la linea) al di sopra del quale la temperatura dell’atmosfera scende sotto gli 0°C e dunque possiamo avere neve e conservare i ghiacciai. Le ultime registrazioni danno lo zero termico sulle Alpi (e sugli Appennini) a oltre 5.100 m di quota: niente di drammatico, se non fosse che la montagna più alta d’Europa arriva a 4.700 metri.

Eravamo stati buoni profeti nel presagire, anni fa e sulla base dei dati scientifici, che il 2021 sarebbe stato l’anno più fresco e più umido rispetto a quelli che sarebbero seguiti, nonostante le accuse di allarmismo e di ecoansia: niente di tutto ciò, si rimane ottimisti, ma bene informati, però.

Fra i dati preoccupano anche quelli della temperatura degli oceani e dei mari, del Mediterraneo in particolare, che sprigiona in luglio il calore che avrebbe fatto registrare in agosto, confermandosi hot-spot climatico, con tutta l’Italia al suo interno.

Preoccupano perché acque più calde sviluppano cicloni, trombe marine e d’aria, limitati tornado e perfino downburst. In pratica ciò significa aumento delle perturbazioni meteorologiche a carattere sempre più violento: se il Mediterraneo avesse avuto le dimensioni del Golfo del Messico avremmo registrato gli stessi cicloni, perché le temperature ci stanno tutte. Ma quelli che si scatenano adesso bastano e avanzano, come dimostrano le due alluvioni consecutive in Emilia Romagna (ma non avevano periodi di ritorno millenari?) o le alluvioni ripetute di Valencia, delle Baleari e delle Cicladi.

L’accelerazione della crisi climatica negli ultimi 70 anni

Questi dati riguardano il tempo atmosferico, ma sono perfettamente in linea con la tendenza climatica, che mostra un’accelerazione mostruosa nell’incremento delle temperature negli ultimi 70 anni. Una crisi climatica globale che è accelerata e anomala rispetto al passato e che sta dispiegando le sue conseguenze nefaste esattamente secondo le previsioni dei modelli climatici elaborati già da decenni.

Siccità, tempeste di vento, mareggiate eccezionali, chicchi di grandine grossi come pesche, alluvioni, frane e incendi sono tutti fenomeni in crescita e accomunati dalla crisi climatica attuale. E sono tutte conseguenze che costano in termini di vite umane e animali e in denaro: chi afferma che non ci possiamo permettere un Green Deal perché non sostenibile economicamente difende solo la maniera tradizionale di fare affari, una maniera che sta per essere spazzata via dalla crisi climatica. E dimentica che il non prendere decisamente una via alternativa a questo sistema economico e non fare nulla costa molto di più.

Perché il fatto nuovo, che distingue questa crisi da ogni cambiamento climatico precedente, è che dipende da una sola specie, i sapiens, attraverso le loro attività produttive, come ha dimostrato almeno il 99% degli specialisti mondiali. Siamo l’unica specie che ha dissotterrato il potenziale mortifero dei combustibili fossili, liberando in atmosfera un’anidride carbonica che sarebbe stata, invece, sottratta ai cicli naturali del carbonio. Se vogliamo stare ai dati.

Chi crea confusione

Se, invece, vogliamo indurre confusione, allora possiamo anche ascoltare il fisico delle particelle che dichiara a un giornale che la crisi climatica non esiste o l’ingegnere che dice che non dipende da noi: se hanno dati li producano e scrivano articoli scientifici, o li leggano almeno, non rilascino interviste, perché il metodo scientifico funziona così e non lascia spazio alle opinioni.

Il dibattito fra gli scienziati sulle cause della crisi climatica attuale è chiuso e si riaprirà solo con nuovi dati che, al momento, non ci sono. Perdere ancora tempo per agire sulle cause e azzerare le emissioni clima-alteranti è colpevole, affidarsi ai mercanti di dubbi è imperdonabile.

* da La Stampa via Infosannio - 5 luglio 2025

4 luglio 2025

Che cosa è la “civiltà ecologica” di cui parla il governo cinese?

di Virginie Arantes *

Dal 2007, i leader cinesi affermano di star costruendo una “civiltà ecologica” (态文明, shēngtài wénmíng N.d.R.). Se consideriamo la decarbonizzazione come la riduzione dei gas serra, mentre gli Stati Uniti stanno regredendo, la Cina sta avanzando, ma verso quale ecologia?

Il 23 aprile 2025, durante l’incontro dei leader sul clima e la giusta transizione (ospitato dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva e dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, N.d.R.), Xi Jinping ha chiesto di difendere “il sistema internazionale incentrato sulle Nazioni Unite” e di “mantenere la rotta dello sviluppo verde e a basse emissioni di carbonio”, denunciando di sfuggita le grandi potenze che “persistono nel promuovere l’unilateralismo e il protezionismo”.

In un contesto in cui gli Stati Uniti hanno annunciato per la seconda volta il loro ritiro dall’accordo di Parigi, la Cina si presenta come un attore centrale nella transizione verde, promettendo la neutralità carbonica entro il 2060 e facendo della “civiltà ecologica” la nuova bussola del suo sviluppo.

Ma cosa si nasconde davvero dietro questa espressione, così spesso citata nei discorsi ufficiali? È il segno di una maggiore consapevolezza delle problematiche ambientali? O è l’espressione di una visione strategica, in cui ecologia, sviluppo e governance sono strettamente interconnessi? Uno sguardo retrospettivo a questo termine, diventato uno dei pilastri dell’attuale potenza cinese.

Il concetto di “civiltà ecologica” è apparso per la prima volta nei discorsi del Partito Comunista Cinese (PCC) sotto la presidenza di Hu Jintao nel 2007. All’epoca, il concetto era ancora vago, ma si riferiva già a una realtà molto concreta: una Cina che si trovava ad affrontare una crisi ambientale senza precedenti.

Infatti, oltre il 60% dei principali fiumi è gravemente inquinato, il 90% dei corsi d’acqua urbani è contaminato e oltre 300 milioni di persone non hanno accesso ad acqua potabile sicura. I “villaggi del cancro” si stanno moltiplicando e le proteste contro dighe, inceneritori e complessi chimici preoccupano le autorità. Nel 2013, un alto funzionario del Partito ha riconosciuto pubblicamente che le questioni ambientali erano diventate una delle principali cause di “incidenti di massa”, e queste proteste collettive preoccupano il governo centrale. Secondo Yang Chaofei, vicepresidente della Società cinese di scienze ambientali, i conflitti ambientali erano già aumentati del 29% all’anno tra il 1996 e il 2011 e, mentre il governo ha rapidamente smesso di pubblicare i dati, le stime di Sun Liping, professore all’Università di Tsinghua, indicano fino a 180.000 proteste nel 2010, una parte significativa delle quali legate all’ambiente. In questo contesto, la nozione di “civiltà ecologica” non nasce da un’improvvisa rivelazione etica, ma dal tentativo di una risposta politica a una crisi sociale ed ecologica ormai impossibile da ignorare. Il China Daily, il quotidiano ufficiale in lingua inglese pubblicato dal governo cinese, già nel 2007 avvertiva che questo concetto non doveva rimanere uno slogan, ma una forza trainante per un vero cambiamento.

A lungo una questione periferica, l’idea ha acquisito slancio nel 2012, quando Hu Jintao, leader della Cina dal 2003 al 2013, ha incluso la “civiltà ecologica” tra le cinque principali missioni strategiche del Partito, accanto allo sviluppo economico, politico, sociale e culturale. Ma è stato sotto Xi Jinping, che gli è succeduto ed è ancora oggi al potere, che è diventata una leva centrale di governo.

È quindi integrato nel 13° piano quinquennale nel 2015, stabilito come obiettivo strategico al 19° Congresso del Partito nel 2017, poi sancito nella Costituzione nel 2018. Xi Jinping lo inserisce inoltre in una lettura storica continua della modernizzazione cinese: Mao avrebbe permesso il passaggio dalla civiltà agricola a quella industriale, Deng Xiaoping, a capo del regime cinese dal 1978 al 1989, avrebbe instaurato una civiltà materiale e lui stesso sarebbe ormai portatore di una civiltà ecologica.

Ma questa ecologia non mira a rallentare la crescita. Al contrario, serve a reindirizzarla verso energie rinnovabili, tecnologie verdi ad alta tecnologia, cosiddette industrie “pulite”, zone sperimentali e città intelligenti. La Cina vuole diventare una potenza verde, capace di coniugare sviluppo economico, stabilità sociale e influenza internazionale.

In termini concreti, questa strategia si è tradotta in ingenti investimenti in infrastrutture verdi. La Cina, da sola, rappresenta ormai un terzo della capacità mondiale di energia rinnovabile. Nel 2024, ha stabilito un record installando 357 gigawatt (GW) di energia solare ed eolica, superando così già l’obiettivo di 1.200 GW per il 2030, con sei anni di anticipo. Questa crescita vertiginosa corrisponde a un incremento annuo del 45% per l’energia solare e del 18% per l’energia eolica.

Questa espansione ha contribuito a compensare gran parte della crescita energetica, tanto che le emissioni di CO2 sono rimaste inferiori rispetto all’anno precedente per dieci mesi consecutivi, nonostante un aumento annuo complessivo stimato allo 0,8%. Questa ripresa può essere spiegata dalla ripresa post-Covid e dalla domanda eccezionale di inizio anno, in particolare legata alle ondate di calore record che hanno interrotto la produzione idroelettrica, costringendo a un maggiore ricorso al carbone. Ma questo successo maschera un’altra realtà: l’impegno della Cina in materia di clima rimane principalmente tecnocentrico, poco redistributivo e fortemente dipendente da logiche industriali pesanti, come il carbone e i prodotti chimici, che continuano a crescere.

Il sistema nazionale di scambio di quote di emissione (ETS), lanciato nel 2021, è già il più grande al mondo in termini di volume coperto. Entro il 2024, la Cina rappresentava quasi il 60% delle vendite globali di auto elettriche e produceva circa il 75% delle batterie agli ioni di litio del mondo. Mentre alcuni analisti ritengono che la Cina potrebbe aver raggiunto il picco delle emissioni nel 2024, le autorità mantengono l’obiettivo ufficiale di un picco “prima del 2030” e non hanno ancora annunciato alcun cambiamento di tendenza.

Nel suo discorso del 2025 sulla Giusta Transizione, Xi Jinping collega la transizione climatica, la riduzione delle disuguaglianze e la leadership globale. Questo discorso completa il processo di affermazione della “civiltà ecologica” non solo come obiettivo di politica pubblica, ma come progetto di civiltà, integrato nella traiettoria storica del Partito e presentato come la via della Cina verso una modernità sostenibile. Oggi, la “civiltà ecologica” è parte integrante del fondamento ideologico del regime cinese di Xi Jinping. Sebbene il termine possa sembrare astratto, persino poetico, si riferisce tuttavia a un progetto molto concreto, che struttura le politiche pubbliche, i piani di sviluppo, il discorso diplomatico e l’apparato dottrinale del Partito. Questa non è un’ecologia civica o attivista, tanto meno partecipativa. La “civiltà ecologica”, così come è concepita in Cina, propone una transizione verde interamente guidata dallo Stato, centralizzata, pianificata e gerarchica. Promette un’inverdimento dello sviluppo senza trasformarne le fondamenta produttiviste né minare il monopolio del Partito: è una transizione dall’alto verso il basso, senza interruzioni. La natura è concepita come una risorsa strategica, un capitale da valorizzare, una leva per l’accumulazione e il potere nazionale.

In questo contesto, tutelare l’ambiente non significa rallentare lo sviluppo, ma riorientarlo. La parola d’ordine è produrre diversamente, non meno. Puntare su tecnologie verdi, “zone modello” e città intelligenti, come la nuova città di Xiong’an, progettata dalle autorità come laboratorio di modernità ecologica. Una riorganizzazione che, pur integrando il vocabolario ecologico, preserva la logica produttivista.

Sebbene tutte queste azioni possano essere osservate e commentate, non esiste, a rigor di termini, una definizione univoca di cosa sia la “civiltà ecologica” nei testi ufficiali. Diversi tentativi di chiarimento sono tuttavia emersi nei media vicini al potere o in testi divulgativi. Nel 2018, un articolo pubblicato sui media ufficiali la presentava come una fase etica e culturale successiva alla civiltà industriale. Viene descritta come basata sull’armonia tra uomo, natura e società e su una profonda trasformazione degli stili di vita, della produzione e della governance. Questa visione va oltre il semplice quadro cinese: mira a essere universale, ma partendo da una base definita a livello nazionale.

Nei suoi recenti discorsi, Xi Jinping afferma che la civiltà ecologica rappresenta la quarta grande trasformazione nella storia umana, dopo le civiltà primitiva, agricola e industriale. Si dice che derivi dalla crisi ecologica globale causata dall’industrializzazione e propone un nuovo paradigma che non abolisce l’industria, ma la integra in una logica ecologica a lungo termine.

Nei discorsi ufficiali, questo cambiamento viene presentato come un contributo intellettuale al marxismo contemporaneo. Xi insiste sul fatto che la natura non debba più essere considerata esclusivamente come uno sfondo o una risorsa passiva, ma come una forza produttiva a sé stante. L’ormai celebre slogan secondo cui “acque limpide e montagne verdi sono montagne d’oro e d’argento” diventa, in questo contesto, una vera e propria teoria del valore ecologico.

La ricchezza non si misura più solo in termini di produzione umana, ma anche di valore aggiunto naturale. Una foresta inesplorata, un fiume pulito, un ecosistema in equilibrio stanno diventando preziosi beni economici. Questa idea è oggi alla base delle discussioni sulla finanza verde, sulla contabilità ambientale e sui mercati del carbonio, che stanno acquisendo sempre più importanza nelle politiche pubbliche cinesi. L’istituzione nel 2021 di una rete nazionale di parchi, tra cui quello del panda gigante e della foresta pluviale di Hainan, illustra questa volontà di fare degli esseri viventi un capitale ecologico, economico e simbolico. La “civiltà ecologica” non è quindi semplicemente un altro concetto ambientale. È una forma di governance verde dai contorni mutevoli, che combina pianificazione, controllo, innovazione tecnologica e ambizione di civiltà. Combina gestione centralizzata, narrazioni di potere e ambizioni geopolitiche.

La “civiltà ecologica” è tanto una promessa di sostenibilità quanto un progetto di sovranità verde inteso a competere con i modelli occidentali. Ma il suo futuro, come quello della transizione ecologica globale, rimane dipendente da una domanda centrale: fino a che punto possiamo rendere verde un modello di sviluppo senza cambiarne le fondamenta?

* pubblicato su The Conversation e ripreso su beppegrillo.it - 2 luglio 2025