16 dicembre 2025

Lobby opache dietro le retromarce Ue su leggi pro clima e ambiente

 di Lorenzo Vallecchi *

Come un’alleanza di multinazionali avrebbe condizionato le politiche climatiche e ambientali Ue, dallo stop alle auto endotermiche nel 2035 all’Ecodesign.

L’Europa ha iniziato a fare marcia indietro sulle proprie politiche climatiche e ambientali nello stesso momento in cui un’alleanza opaca di grandi aziende statunitensi, guidate in larga parte da colossi delle fonti fossili, lavorava per annacquare le leggi pro sostenibilità dell’Ue. Mentre Bruxelles riconsidera la fine dei motori a scoppio dal 2035 e medita di allentare i requisiti Ecodesign sull’efficienza energetica delle caldaie a gas, un’inchiesta pubblicata dall’organizzazione investigativa olandese SOMO mostra come un gruppo ristretto e organizzato di multinazionali americane avrebbe operato per indebolire le norme europee più ambiziose su diritti umani, responsabilità d’impresa, clima e ambiente.

Secondo l’inchiesta, le attività di questa rete, chiamata “Competitiveness Roundtable”, si sarebbero svolte con un livello di coordinamento tale da influenzare Commissione, Consiglio e Parlamento europei, oltre a coinvolgere governi extra-Ue, incluso quello statunitense. In parallelo, le retromarce sulle politiche climatiche ventilate nelle ultime settimane sollevano interrogativi sulla capacità dell’Europa di resistere a pressioni esterne sempre più forti. Bruxelles sta infatti riconsiderando la scelta di limitare la vendita di nuove auto solo alle versioni elettriche dal 2035, alla luce delle dichiarazioni del commissario ai Trasporti Apostolos Tzitzikostas, che ha anticipato l’intenzione di includere anche motori a combustione alimentati con e-fuel o biocarburanti nel nuovo regolamento sulle emissioni (L’Ue si rimangia la scelta dell’auto solo elettrica post 2035). Allo stesso tempo, nelle bozze del nuovo regolamento Ecodesign per i sistemi di riscaldamento, la Commissione propone requisiti di efficienza molto meno stringenti rispetto ai piani iniziali, di fatto prolungando la vendita sul mercato di caldaie a gas nuove anche dopo il 2029 (Salta lo stop per le caldaie a gas nelle nuove norme Ecodesign).  Due esempi recenti che mostrano una chiara frenata della politica climatica europea, mentre SOMO documenta pressioni coordinate per indebolire anche la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD).

Un’opaca rete di multinazionali (per lo più) americane

L’inchiesta di SOMO ricostruisce l’esistenza di una coalizione composta da undici grandi imprese, molte delle quali attive nel settore fossile e con sede negli Stati Uniti. Tra queste compaiono Chevron, ExxonMobil, Koch, Honeywell e Baker Hughes, oltre a gruppi come Dow, Nyrstar, Enterprise Mobility e JPMorgan Chase, come mostra l’illustrazione di SOMO. Il nome scelto, “Competitiveness Roundtable”, maschererebbe dietro il principio della competitività un obiettivo preciso: “stralciare” dalla CSDDD gli articoli più rilevanti su clima, ambiente, responsabilità civile e fin dove un’azienda debba esercitare la due diligence lungo la propria catena di fornitura, oppure far deragliare del tutto la legge. Secondo SOMO, che basa la sua inchiesta su documenti interni trapelati con ricostruzioni doviziose di agenda, ruoli e priorità delle aziende coinvolte, la Roundtable discuteva strategie settimanali almeno da marzo 2025, definendo obiettivi mirati per ognuna delle istituzioni europee. Le aziende avrebbero lavorato per “dividere e conquistare” i governi nel Consiglio, assegnando a ciascuna impresa la responsabilità di coltivare rapporti specifici con singoli Stati membri: TotalEnergies con Francia, Belgio e Danimarca; ExxonMobil con Germania, Ungheria, Repubblica Ceca e Romania e Baker Hughes per l’Italia, dove l’azienda opera tramite la Nuovo Pignone. Nel Parlamento, il gruppo avrebbe puntato a spingere l’alleanza tra Partito Popolare Europeo e destra radicale per “garantire la posizione più estrema” e ottenere un mandato negoziale meno ambizioso su clima e responsabilità delle imprese. Le attività non si sarebbero limitate a Bruxelles. SOMO documenta contatti con governi extra-Ue per esercitare pressioni “con minima visibilità statunitense”. La strategia prevedeva coinvolgimento diplomatico, eventi mirati e perfino tentativi di influenzare il negoziato commerciale tra Washington e Bruxelles, affinché la CSDDD fosse percepita come un ostacolo da rimuovere.

Tecniche di influenza e ruolo dei think tank

Una parte dell’influenza descritta da SOMO passa attraverso intermediari e strumenti comunicativi sofisticati. Il coordinamento della Roundtable sarebbe stato affidato alla società di consulenza statunitense Teneo, nota per collaborazioni con aziende del settore fossile. I documenti mostrano inoltre che il gruppo avrebbe finanziato il TEHA Group, think tank con sede a Bruxelles, affinché producesse un rapporto sull’“impatto economico” delle normative Ue e organizzasse un evento pubblico a sostegno delle proprie posizioni. Né l’evento né il rapporto avrebbero dichiarato il finanziamento ricevuto dalle multinazionali coinvolte. I documenti trapelati mostrano anche che le attività delle aziende della Roundtable nel Parlamento europeo sono molto più ampie di quanto emerga dal Registro per la trasparenza dell’Ue. In almeno otto incontri di lobbying tenuti durante le sessioni plenarie di Strasburgo compaiono ufficialmente solo i rappresentanti di Teneo, senza menzionare le altre multinazionali presenti, mentre altri tre incontri non risultano registrati affatto. Secondo l’inchiesta, di cui abbiamo riprodotto in cima l’immagine di copertina, la Roundtable puntava a sfruttare, per esempio, le difficoltà dell’industria automobilistica europea nei negoziati commerciali con gli Stati Uniti, in particolare l’urgenza del settore di ottenere un allentamento dei dazi Usa.

Per aumentare la pressione sulla Commissione e presentare la CSDDD come un ostacolo competitivo, il gruppo valutava di “attivare” le principali associazioni dell’automotive, dalla European Automobile Manufacturers’ Association alla European Association of Automotive Suppliers, oltre a singole imprese considerate strategiche, tra cui la italo-francese Stellantis. L’obiettivo era far percepire la direttiva come un ulteriore fattore di svantaggio per un comparto già esposto alle politiche industriali americane. La Roundtable avrebbe anche valutato campagne mirate sui social media, incluso l’uso di “post oscuri” su LinkedIn destinati a pubblici specifici e non visibili sugli account ufficiali delle aziende della lobby e dei loro intermediari, in particolare Teneo. SOMO non è stata in grado di verificare se tali campagne siano state effettivamente implementate, ma tale pianificazione mostra l’intenzione di operare al di fuori dei normali canali di trasparenza.

Frenate e ripensamenti nelle politiche europee

Mentre la Roundtable metteva in atto il proprio piano, l’Europa ha valutato di intaccare significativamente alcuni pilastri delle politiche per la transizione energetica. Nel caso delle auto post-2035, la Commissione sta riconsiderando l’impianto del regolamento sulle emissioni, dopo mesi di pressioni da Stati membri e industria automobilistica. Come accennato sopra, il commissario Tzitzikostas ha anticipato che nell’aggiornamento dei limiti di emissione verranno inclusi anche motori a combustione alimentati con carburanti sintetici e biocarburanti, oltre forse alle versioni ibride plug-in, e range extender (piccoli motori a benzina che estendono l’autonomia delle batterie) aprendo a un superamento del principio “solo elettrico”. Una dinamica analoga emerge nel dossier sul riscaldamento, ancora in consultazione. Nella nuova bozza del regolamento Ecodesign, la soglia minima di efficienza energetica per gli apparecchi di riscaldamento non è più fissata al 115%, limite tecnicamente impossibile da raggiungere per qualsiasi caldaia a gas e che le avrebbe automaticamente escluse dal mercato, ma su valori molto più bassi che, di fatto, permettono alle caldaie a gas di rimanere sul mercato del nuovo anche oltre il 2029, senza un nuovo limite temporale definito. Come spiegato da Rita Tedesco, responsabile transizione energetica presso la Environmental Coalition on Standards, l’allontanamento dai livelli previsti nel 2023 rappresenta “un passo indietro così forteda mantenere di fatto lo scenario attuale, senza lo stimolo necessario al passaggio alle tecnologie più efficienti. In entrambi i casi, si tratta di processi politici complessi, che coinvolgono interessi industriali, esigenze sociali e capacità di investimento. Tuttavia, la concomitanza tra queste revisioni e le pressioni descritte da SOMO alimentano i timori sulla vulnerabilità delle politiche europee.

Il dibattito sulla legittimità delle attività di lobby

Nel dibattito generato da SOMO, emergono anche letture meno critiche, o comunque più sfumate, circa le attività di lobby in questione. Killian McCarthy, professore di strategia e specialista in fusioni, alleanze e investimenti aziendali in start-up innovative presso la Radboud University, in Olanda, sottolinea che le aziende hanno il diritto di difendere i propri interessi, così come lo hanno sindacati, organizzazioni non governative e cittadini. McCarthy afferma che la responsabilità di un’impresa include anche il dovere verso i propri dipendenti e azionisti di contrastare regolamenti che minacciano la loro competitività o sopravvivenza. A suo avviso, questo non rappresenta un atto di ostruzione, ma una normale forma di rappresentanza degli interessi. Il problema non sarebbe dunque l’attività di lobby in sé, bensì la sua opacità: se la trasparenza è insufficiente, sostiene, occorre rafforzare le regole per esplicitare chiaramente chi sponsorizza eventi, centri studi, campagne mediatiche, eccetera, non demonizzare il fatto che le imprese cerchino di influenzare le decisioni. SOMO, da parte sua, non dice che le aziende debbano rinunciare a far valere le proprie posizioni. La critica principale riguarda la natura “opaca” di questa specifica alleanza: la scelta di operare dietro un nome neutro, l’uso di intermediari che non rivelano i finanziatori, la ricerca di “minima visibilità statunitense” nel coinvolgimento di governi terzi. È questa combinazione di anonimato, incontri non registrati, informazioni parziali nel Registro per la trasparenza, potere economico concentrato e influenza sistematica su più livelli a far parlare SOMO di una “loggia” di grandi inquinatori. La questione, dunque, è se l’attuale sistema europeo di trasparenza sulle attività di lobby sia in grado di garantire un equilibrio reale tra interessi economici, diritti umani e obiettivi climatico/ambientali.

Un’Europa più vulnerabile di quanto sembri

Secondo SOMO, il rischio non è soltanto l’indebolimento di una specifica legge come la CSDDD, ma la dimostrazione di quanto poco sia necessario per influenzare profondamente il quadro normativo europeo. Le attività della Roundtable, pur non violando la legge, mostrerebbero una capacità organizzativa che il sistema europeo non sembra ancora attrezzato a gestire o contrastare. La combinazione tra pressioni esterne, divergenze interne e arretramenti recenti nelle politiche climatiche suggerisce una vulnerabilità strutturale: l’Europa appare molto esposta a influenze che mettono in discussione i suoi stessi princìpi e obiettivi. Per evitare che questo fenomeno diventi sistemico, SOMO invita l’Ue a rafforzare la trasparenza, limitare l’accesso ai processi decisionali per gruppi opachi e riaffermare una direzione politica chiara a tutela dei cittadini e del clima. Da questa vicenda emergono domande cruciali: l’Unione europea riuscirà a mantenere la rotta della transizione energetica in un contesto in cui la geopolitica e i rapporti di potere fra Paesi e sfere d’influenza rischiano di deragliarne il percorso? Assisteremo a un progressivo smantellamento delle ambizioni climatiche e ambientali europee? La risposta dipenderà anche dalla capacità di Bruxelles di riconoscere, gestire e contrastare le pressioni che oggi minacciano la sua autonomia politica.

* da qualenergia.it - 5 dicembre 2025

 

 

4 dicembre 2025

Asia:Oltre un metro di pioggia in più, 14 cicloni in un anno: effetto «climate change»

di Elena Tebano *

Il presidente dello Sri Lanka l'ha definito «il disastro naturale peggiore di sempre». In Asia le piogge monsoniche stagionali sono state aggravate da due cicloni tropicali che hanno causato allagamenti e frane in una vasta zona che va dallo Sri Lanka, a Sumatra (in Indonesia), fino al sud della Thailandia e al nord della Malesia. L'ondata di maltempo ha ucciso almeno 1.300 persone. Ma il numero delle vittime è destinato a salire perché ci sono centinaia di dispersi e migliaia di feriti, oltre a più di tre milioni di sfollati. 
Non è stato semplice maltempo. Sono piogge eccezionali anche per la stagione dei monsoni e come altri fenomeni estremi sono state esacerbate dal surriscaldamento globale. L'atmosfera più calda contiene più umidità e le temperature più elevate degli oceani amplificano le tempeste. Le precipitazioni in Sri Lanka, Sumatra, Indonesia, Thailandia e Malesia ma anche delle Filippine, del Vietnam, della Birmania e di alcune parti della Cambogia e del Laos hanno registrato i livelli più alti dal 2012. In alcuni luoghi hanno superato di un metro la media dei mesi di novembre del periodo 1991-2020.

Nel sud-est della Thailandia, ha calcolato l'agenzia Afp, le precipitazioni mensili cumulative hanno superato in alcuni luoghi 1,5 metri, secondo i dati che combinano le rilevazioni delle stazioni, le osservazioni satellitari e i modelli meteorologici. In Vietnam, le piogge hanno raggiunto livelli record nella provincia montuosa di Dak Lak, così come in vaste zone al confine con la Cambogia. Anche nelle Filippine sono stati battuti i record di precipitazioni nel nord dell'arcipelago.
 Ecologisti, esperti e persino il governo indonesiano hanno sottolineato la responsabilità della deforestazione nelle inondazioni improvvise e nelle frane. In particolare il disboscamento selvaggio ha aumentato alluvioni e frane nella regione di Aceh, all'estremità occidentale di Sumatra, già devastata dallo tsunami del 2004. Anche qui c'è la mano dell'uomo. 
«Quello che è successo non è un semplice disastro naturale, ma l'esito dello scontro tra un ciclo climatico eccezionale e un paesaggio progressivamente privato delle sue difese naturali» scrive su Climate Home News, l'analista dell'Indonesia Strategic and Economics Action Institution Ronny P. Sasmita. Ad aggravare la situazione è stato il ciclone che si è formato nello Stretto di Malacca, e ha causato piogge durate giorni. «Lo Stretto di Malacca è uno dei luoghi meno favorevoli al mondo per la formazione di cicloni tropicali, rendendo questo evento un'anomalia eccezionale» spiega ancora Sasmita.

Testimoni locali hanno raccontato di non aver mai visto un'alluvione così torrenziale, né una simile quantità di legname trasportata da torrenti e dai fiumi in piena. «Le inondazioni nelle tre province non hanno portato solo acqua, ma anche prove tangibili. Video virali hanno mostrato fiumi trasformati in nastri trasportatori di legname, spiagge ricoperte di tronchi e ponti bloccati da tronchi sradicati» scrive Sasmita. «Gruppi di monitoraggio indipendenti hanno riferito che l'Indonesia ha perso più di 260 mila ettari di foresta nel 2024, oltre novantamila ettari solo sull'isola di Sumatra. Questo livello di perdita annuale colloca l'Indonesia tra i punti caldi della deforestazione tropicale più elevati al mondo». 
Senza alberi i terreni sono più esposti all'erosione e alle frane. L'Indonesia è il decimo esportatore di legno al mondo e l'industria del legname è una risorsa importante. Ma a pagarne i costi adesso sono le vittime delle alluvioni. Uno degli epicentri dell'eccezionale stagione delle piogge che ha devastato l'Asia è stato il Vietnam. «Quest'anno il Vietnam è stato colpito da 14 tifoni. La media di qualche decennio fa era cinque. La pioggia degli ultimi giorni non è stata nemmeno causata da un ciclone, ma da una quindicesima grande tempesta che si è formata al largo della costa centro-meridionale del Paese» spiega il New York Times. «Dal punto di vista geografico, il Vietnam è particolarmente vulnerabile. Uno studio del 2024 lo ha identificato come un “punto caldo” dei cambiamenti climatici, dimostrando che l'aumento delle temperature, che aggiunge umidità all'atmosfera e riscalda il Mar Cinese Meridionale, si combina con i sistemi dei tifoni e crea un vortice di rischio». 
In un periodo in cui l'Europa è preoccupata per le guerre alle sue porte, i timori per i cambiamenti climatici in Asia sembrano molto lontani. Ma quello che sta succedendo lì è solo un esempio di come il surriscaldamento globale colpirà intere regioni causando instabilità e movimenti forzati della popolazione, con effetti a cascata. Il maltempo in Vietnam, per altro, è destinato a farsi sentire anche sulle nostre tavole: è il secondo produttore mondiale di caffè e il primo per la qualità Robusta. Le piogge delle settimane scorse hanno colpito la provincia di Dak Lak, dove ci sono molte piantagioni. E il raccolto ha dovuto essere rimandato, facendo salire i prezzi del caffè all'ingrosso

* nella foto: inondazioni in Indonesia

* da Mondo Capovolto ( newsletter Corriere della Sera - 4 dicembre 2025 )

30 novembre 2025

In Brasile la “boiada” è legge, distruggere l’ambiente si può

Estrattivismo: Rimossi i veti di Lula al "Pl da Devastação", estrattivisti e lobby dell’agribusiness in festa

di Claudia Fanti *

Non ha davvero perso tempo la lobby legata all’agribusiness ad accantonare qualsiasi aspirazione finto-green: appena spenti i riflettori sulla Cop 30 – quella che secondo Lula avrebbe dovuto essere la migliore della storia -, ha ribaltato con tempismo perfetto 56 dei 63 veti che Lula aveva posto ad agosto sul cosiddetto “Progetto di legge della devastazione”, sferrando il colpo decisivo ai già sofferenti ecosistemi brasiliani. Determinante, in questa offensiva, è stato il presidente del Senato Davi Alcolumbre, il quale ha messo in agenda la votazione con la massima fretta, facendo saltare al Pl da Devastação una lunga fila, e meritandosi per questo i più vivi complimenti da parte della lobby ruralista.

RISULTATO della votazione di giovedì: il Brasile ha praticamente perso la sua legislazione ambientale. Il sogno di ogni latifondista e di ogni impresa estrattivista è diventato realtà. Respingendo la quasi totalità dei veti di Lula, il Congresso ha infatti trasformato in legge la peggiore versione del Pl 2.159/2021, con tutti i suoi punti più critici, a cominciare dalla cosiddetta Lac (Licença ambiental por Adesão e Compromisso), grazie a cui, per la maggior parte delle iniziative imprenditoriali, ad eccezione solo di quelle ad alto impatto ambientale, sarà sufficiente l’autocertificazione: basterà compilare un formulario su internet, dichiarando che la propria attività non presenta rischi per l’ambiente. Un click e via, senza bisogno di studi di impatto ambientale. Mentre un altro punto assai criticato, quello relativo alla Lae (Licença Ambiental Especial) – una procedura semplificata di autorizzazione ambientale per tutte le opere considerate politicamente rilevanti, a prescindere da quale sia il loro impatto – è stato incluso in una misura provvisoria che sarà discussa la prossima settimana. Introdotta con un emendamento ad hoc, nella decisiva votazione al Senato del 21 maggio scorso, da Alcolumbre, deciso a velocizzare lo sfruttamento petrolifero a Foz do Amazonas, nel “suo” Amapá, la Lae spiana la strada a progetti contestatissimi come la BR-319, l’autostrada che collega Manaus a Porto Velho. Ma oltre a rendere estremamente più semplice e rapida la concessione delle autorizzazioni ambientali e a ridimensionare in maniera drastica gli studi di impatto ambientale, la legge calpesta i diritti delle comunità indigene e quilombolas, indebolisce la protezione della Mata Atlântica, riduce al minimo il ruolo degli organismi di salvaguardia della natura e consente a stati e municipi di rilasciare le autorizzazioni con la massima discrezionalità.

QUANDO il famigerato ex ministro dell’Ambiente del governo Bolsonaro Ricardo Salles esortava a «passar a boiada», cioè ad azzerare la legislazione ambientale come se ci passasse sopra una mandria di buoi, pensava esattamente a questo. Ironia della storia, la boiada è passata sotto la presidenza Lula, il cui governo – proprio quello su cui i popoli indigeni avevano riposto le loro speranze – è tutt’altro che esente da responsabilità.Che vari dei suoi esponenti non fossero pregiudizialmente contrari al progetto di legge, limitandosi semmai a prendere le distanze solo dai suoi aspetti più rovinosi, è cosa nota. Non a caso, come rivelato dal portale ambientalista Sumaúma, il documento preparato dall’ufficio del capogruppo governativo al Senato orientava lo scorso maggio a esprimere un voto «favorevole con aggiustamenti». Non un granché come strategia di contrasto. Cosicché, quando alla fine si è cercato di contenere il disastro, come ha tentato di fare Lula ponendo 63 veti al progetto, era ormai troppo tardi per arginare la boiada.

INUTILI si sono rivelati gli sforzi della ministra dell’Ambiente Marina Silva, la quale non ha nascosto il suo «lutto», denunciando la demolizione di un’impalcatura legislativa che aveva impiegato quarant’anni per consolidarsi – e proprio nel momento in cui il Brasile affronta le conseguenze sempre più severe del cambiamento climatico, tra ondate di calore, siccità, incendi, piogge torrenziali e trombe d’aria – e aprendo la possibilità di un ricorso alla giustizia: non è possibile, ha detto, passare impunemente «sopra l’articolo 225 della Costituzione», in base a cui tutti i cittadini hanno diritto a un ambiente ecologicamente equilibrato. E a rivolgersi alla giustizia saranno di certo varie organizzazioni, come l’Observatório do Clima, convinte dell’evidente incostituzionalità di molti punti della nuova legge e decise a non rassegnarsi allo «sterminio del futuro».

nella foto: A fuoco un’area oggetto di deforestazione da parte degli allevatori di bestiame nei pressi Novo Progresso, nello stato del Para, Brasile

leggi anche:   Clima, il club fossile che ha minato Belém

 * da il manifesto - 30 novembre 2025

22 novembre 2025

Africa: Gerontocrazia 4.0

45 giorni di passione elettorale restituiscono un'Africa apparentemente immutata. Ma tra proteste e nuove generazioni, il continente ribolle di passione. Una panoramica di Andrea Spinelli Barrile sul voto in Malawi, Costa d'Avorio, Camerun e Tanzania. 

Immagine che contiene aria aperta, cielo, fuoco, vestiti

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Potrebbe sembrare che la politica africana non sia cambiata poi molto nel periodo di 45 giorni che, tra metà settembre e fine ottobre, ha visto susseguirsi un’improbabile coincidenza di appuntamenti elettorali nel continente. Se la politica cambia poco le società africane, invece, si stanno trasformando profondamente.

Il 16 settembre i malawiani sono andati a votare per eleggere il loro presidente. L’ultima volta, nel 2019, la Corte costituzionale aveva dichiarato nullo il risultato elettorale, con i cinque giudici in giubbotto antiproiettile ad annunciare la decisione in tv: fu favorito il presidente in carica, Peter Mutharika, contro Lazarus Chakwera, che però meno di un anno dopo, nella ripetizione del voto, prevalse. Nel sequel 2025 di questo scontro Mutharika, 85 anni, si è imposto su Chakwera, 70, con il 56,8% ed è stato dichiarato presidente.

Il 12 ottobre, quasi un mese dopo, è stato il turno del Camerun: il risultato, con il 92enne presidente Paul Biya candidato per la sesta volta, era scontato. Meno i suoi effetti: un po’ per la caratura politica dell’avversario, Issa Tchiroma Bakary, un po’ per lo scollamento dalla realtà dell’establishment camerunese (Biya, nato quando Hitler diventava cancelliere del Reich, non ha potuto fare campagna elettorale a causa delle sue condizioni di salute, in un Paese dove i nati nel 2006 rappresentano l’età media), le proteste sono dilagate in tutto il Paese e non solo rinfocolando il vecchio dilemma coloniale tra le popolazioni francofone e anglofone. A fine mandato, se sopravvivrà a se stesso, Biya potrebbe avere quasi 100 anni.

Due settimane dopo, il 25 ottobre, in Costa d’Avorio Alassane Ouattara, 83 anni, ha ottenuto quasi il 90% dei voti e un quarto mandato presidenziale: al potere dal 2010, le ambizioni di Ouattara all’inizio di questo millennio hanno portato il Paese sull’orlo del collasso ma lui ne è uscito da re incontrastato: quando finirà questo mandato, Ouattara avrà poco meno di 88 anni.

Il 29 ottobre è stato il turno della Tanzania, in quella che è stata la tornata elettorale più sanguinosa dell’anno: le elezioni si sono svolte in un cimitero, da mesi nel Paese è stata scatenata quella che Amnesty International ha definito «ondata di terrore», con migliaia di critici e oppositori (ci vuole poco, basta un commento sbagliato al post sbagliato) incarcerati e il leader dell’opposizione, Tundu Lissu, accusato di tradimento e a rischio pena di morte. Il giorno del voto la rabbia è esplosa e nonostante il blackout di internet (un blocco molto efficace per gli standard africani, durato diversi giorni e che ha impedito a testimonianze, informazioni, denunce e proteste di uscire dal Paese) a migliaia hanno protestato a Dar-Es-Salaam, Arusha, Mbeya e Mwanza, beccandosi proiettili veri sparati mirando alla testa. A due settimane dalla mattanza non è ancora chiaro il numero delle vittime (tra le 3000 e le 10000 – sì, diecimila), alle quali si sono aggiunti gli omicidi di massa mirati nei centri abitati sospettati di essere roccaforti dell’opposizione. Omicidi che vanno avanti ancora oggi.

Persino l’Unione africana abbia dichiarato le elezioni tanzaniane “truccate” (Samia è stata dichiarata vincitrice con il 98% dei voti) ma è bastato ignorarla: ora l’appuntamento è al 9 dicembre, giorno dell’Indipendenza, quando i giovani tanzaniani torneranno in piazza a sfidare le mitragliatrici.

E non è finita qui: il 23 novembre sarà la Guinea Bissau ad andare al voto, un ex-narcostato (nemmeno troppo “ex”) il cui Parlamento è stato chiuso dal suo presidente, Umaro Sissoco Embalò, a dicembre 2023. Il favorito è proprio lui, Embalò, che a marzo aveva detto di non volersi ricandidare, salvo farlo dietro consiglio della moglie.

Il 28 dicembre l’anno si chiuderà con altre due elezioni presidenziali importanti, in Guinea e Repubblica Centrafricana. Nel primo caso il favorito è il leader della giunta militare attualmente al potere, Mamady Doumbouya, diplomatosi ufficiale in Francia, alla guida dell’unica giunta militare dell’Africa occidentale a non avere subito sanzioni internazionali di alcun genere e che, anzi, gode di un certo favore dei governi europei. Nel secondo caso invece il favorito è l’ex-professore di matematica Faustine Archange Touadera, alla ricerca di un terzo (illegittimo fino a un anno fa) mandato. Anche lui, amico di tutti: ha la guardia personale e i consiglieri della sicurezza che sono ex-Wagner russi, fa lavorare gli americani come contractor, ospita nel Paese una missione di caschi blu e viene a Roma molto spesso per riunioni su sicurezza e disarmo alla Comunità di Sant’Egidio.

Mentre fioccavano tutte queste elezioni, in Madagascar c’è stato un colpo di Stato e il presidente se ne è scappato in Francia, lasciando il posto a un militare.

Di fronte a tutti questi voti con i risultati sempre uguali viene da chiedersi se l’Africa ha un futuro e, diversamente da come ci saremmo risposti all’inizio della carriera politica di questi dinosauri, la risposta è Sì: lo dimostrano i numeri della demografia (l’età media, nel continente, è di poco superiore ai 19 anni), le proteste della GenZ che dilagano ovunque, le statistiche della scolarizzazione, sempre più diffusa e sempre più alta come grado scolastico e formazione professionale. Da buona società anziana, benestante e colonialista, noi europei guardiamo con paternalismo alla politica africana, dimenticandoci lo sforzo del provare a comprenderla. Ma se l’Africa ha un futuro, l’Europa può dire altrettanto?

* Nord Sud Ovest Est. Per non perdere l'orientamento

 da il manifesto 18 novembre 2025 (Vai agli articoli )



Perché l'America Latina ha voglia di destra (anche estrema)

di Sara Gandolfi *


«Se Augusto Pinochet fosse vivo voterebbe per me. Se lo avessi incontrato ora, avremmo preso una tazza di tè a La Moneda». Così parlava, nel 2017, José Antonio Kast, superfavorito al ballottaggio del prossimo 14 dicembre in Cile, citando il palazzo presidenziale di Santiago, lo stesso che il dittatore bombardò nel 1973 per eliminare Salvador Allende. Otto anni dopo, alla sua terza corsa elettorale, Kast ha moderato i toni: non parla più con toni nostalgici del generale che governò il Cile fino al 1990 e non promette più di liberare gli ufficiali responsabili di violazioni dei diritti civili in quegli anni. Anche perché c’erano altri candidati, al primo turno di domenica scorsa, più a destra di lui, come Johannes Kaiser, un emulo dell’ultra-libertario argentino Javier Milei, che peraltro ha ora garantito l’endorsement a Kast.

Kast è arrivato secondo alle presidenziali, con il 24,46% dei voti contro il 26,45% della comunista Jeannette Jara, candidata della coalizione di sinistra. Ma le varie formazioni di destra, che si erano presentate separate alle urne per misurare le rispettive forze, si sono ricompattate. E il leader del Partito Repubblicano vincerà, salvo sorprese, portando ancora più a destra il continente.

Dall’Alaska a Punta Arenas, l’America sta virando decisamente a destra. Secondo BMI (società di ricerca britannica, sussidiaria di Fitch Solutions), entro il 2026 solo Venezuela e Uruguay manterranno governi di sinistra, riflettendo un riallineamento politico verso politiche più autoritarie o liberiste. Un processo che è cominciato nel 2023 con la vittoria di Javier Milei in Argentina e di Santiago Peña in Paraguay, e che ha preso il volo quest’anno. A inizio 2025, Daniel Noboa è stato riconfermato presidente dell’Ecuador. In Bolivia il voto del 19 ottobre ha chiuso con una pietra tombale, dopo un ventennio, l’era di Evo Morales e del suo successore: il candidato del partito «oficialista» di sinistra ha ottenuto solo il 3% dei voti al primo turno e al ballottaggio ha vinto il senatore di destra Rodrigo Paz, che ha promesso una rottura decisiva con il passato, e la fine dei rapporti con Venezuela, Cuba e Nicaragua. Anche il Perù, dopo l’arresto del presidente-golpista Pedro Castillo nel 2022, è stato teatro di una decisa svolta a destra, prima con Dina Boluarte, deposta ad ottobre per corruzione, e ora con José Jeri, esponente del partito conservatore «Siamo il Perù», che porterà il Paese fino alle elezioni presidenziali del prossimo 12 aprile. Infine, molti analisti danno già per scontata, nel marzo 2026, la vittoria di un candidato di destra in Colombia, dopo il turbolento governo di Gustavo Petro. La domanda chiave è se l'opposizione conservatrice riuscirà a riorganizzarsi dopo la perdita del suo candidato presidenziale più popolare, il senatore Miguel Uribe Turbay, morto due mesi dopo un attentato, durante la campagna elettorale a Bogotà.

La sinistra democratica resiste in Uruguay con Yamandú Orsi, in Messico con Claudia Sheinbaum e in Brasile con Luis Inácio Lula da Silva (ma quest’ultimo l’anno prossimo deve affrontare, a 81 anni, una nuova sfida elettorale e la destra sta già cercando un candidato post-Bolsonaro). Poi ci sono le dittature – difficili definirle ideologicamente, in realtà - di Venezuela, Cuba e Nicaragua, sempre che il presidente statunitense Donald Trump non decida di forzare la mano con la rinnovata dottrina Monroe, perché «l’America latina è il nostro cortile di casa e abbiamo diritto a garantire anche lì la nostra sicurezza», parafrasando le parole del segretario di Stato Marco Rubio.

Nella svolta a destra, sostiene lo storico e politologo uruguayano Gerardo Caetano, gioca un ruolo centrale l’inquilino della Casa Bianca: «Trump sta intervenendo incessantemente, praticamente in ogni Paese del mondo, e in America Latina in modo molto categorico», ha detto in una recente intervista, sottolineando come in molti Paesi l’estrema destra abbia scavalcato la destra tradizionale, più moderata: «Sta accadendo in Cile e accadrà sicuramente anche in Perù». Non è successo invece in Bolivia, dove Paz ha sconfitto il candidato di estrema destra Jorge Quiroga. Ma nel complesso, rileva Caetano, «esperienze ultra-radicali come quella di Nayib Bukele in El Salvador tendono a prendere piede» e, in contemporanea, «è anche uno spostamento verso un'America Latina in cui l'intervento degli Stati Uniti sta diventando sempre più palese».

Sulla stessa linea, il commento di Ernesto Samper Pizano, ex presidente colombiano (1994-1998) sul Guardian: «Con l'elezione di Trump 2.0, l'estrema destra globale ha trovato una cassa di risonanza in Florida e in tutta la regione, con il sostegno dei leader politici di Stati Uniti, El Salvador e Argentina. Trump, che ha dichiarato "non abbiamo bisogno" dell'America Latina a pochi giorni dall'inizio del suo secondo mandato, ha intensificato l'aggressività anti-latinoamericana attraverso decisioni come la persecuzione dei migranti, la sospensione dei programmi di aiuti tramite USAID, l'inasprimento delle sanzioni contro Cuba e Venezuela e le assurde rivendicazioni territoriali sul Canada, sul Golfo del Messico e sul Canale di Panama. Tutto ciò segna il ritorno dello Zio Sam degli anni '50 e dell'Operazione Condor degli anni '70 e '80».

«Lasciarsi alle spalle il populismo che scoraggia gli investimenti potrebbe essere una buona notizia per la regione - commenta invece sul Miami Herald il noto opinionista Andres Oppenheimer -. Molti fondi di investimento, per quanto assurdo possa sembrare, vedono l'America Latina come un blocco omogeneo e la evitano quando percepiscono sacche di instabilità. La buona notizia è che ci sono sempre più governi responsabili, sia di centro-destra che di centro-sinistra, nella regione. La cattiva notizia è che l'America Latina, come dice il vecchio adagio, non perde mai l'occasione di perdere un'occasione».

Il think tank colombiano El Sectorial parla di «un nuovo ciclo politico che sta rimodellando il panorama economico regionale». A partire dalla schiacciante vittoria alle legislative argentine del partito di Javier Milei, con oltre il 40% dei voti, che «ha segnato una svolta in quello che i mercati chiamano il "mercato elettorale latinoamericano": una scommessa degli investitori globali su una svolta verso politiche pro-mercato». 

In realtà, nel corso del 2025, le borse valori sono cresciute di quasi il 40% in tutte le regioni, con in testa Colombia, Cile e Brasile, dove governa la sinistra. «Tuttavia, dietro l'ottimismo del mercato azionario, persistono sfide strutturali: bassa crescita (la CEPAL prevede un 2,4% per il 2025), alti livelli di occupazione informale (quasi il 50% dei lavoratori) e disuguaglianze che mantengono il 10% più ricco al controllo del 66% della ricchezza della regione», conclude il think tank colombiano.

La scommessa dei mercati è dunque sul tavolo, ma la vera domanda è se la regione riuscirà a trasformare questo «nuovo ciclo del capitalismo» in una crescita economica stabile e sostenibile o se i governi di destra, come accaduto peraltro a Milei, si troveranno a camminare in equilibrio precario. Sempre che non intervengano gli Stati Uniti, come successo in Argentina, o perfino la Cina, per togliere dai guai gli «amici» in difficoltà.

Conor Beakey, responsabile della ricerca sull'America Latina per BMI, è ottimista: anche se le relazioni commerciali potrebbero subire una battuta d'arresto temporanea, l’analista prevede che la crescita economica inizierà a riprendersi verso la fine del 2026 e accelererà significativamente nel 2027. Il fattore determinante, secondo lo studio di BMI, è il riallineamento politico verso una destra più autoritaria e populista. «Questo cambiamento, che si prevede graduale, è guidato da un elettorato sempre più conservatore, in particolare in Sud America, a seguito del fallimento dei movimenti di sinistra nel raggiungere un cambiamento sostenibile e duraturo», sostiene Beakey.
  
Shanna Bober, analista del rischio dell'America Latina in BMI, spiega che la tendenza dei governi a consolidare il potere in nome della stabilità e della governabilità è spinta dalla «fatica politica» dell’elettorato, dalle debolezze economiche strutturali, dagli scandali di corruzione e dal deterioramento della sicurezza. I cittadini stanno «ricompensando i leader che promettono risultati rapidi», anche se questo comporta una regressione della democrazia o una manipolazione istituzionale. 

* Il Punto del Corriere della sera ( Rassegna americana) – 18 novembre 2025