4 dicembre 2025

Asia:Oltre un metro di pioggia in più, 14 cicloni in un anno: effetto «climate change»

di Elena Tebano *

Il presidente dello Sri Lanka l'ha definito «il disastro naturale peggiore di sempre». In Asia le piogge monsoniche stagionali sono state aggravate da due cicloni tropicali che hanno causato allagamenti e frane in una vasta zona che va dallo Sri Lanka, a Sumatra (in Indonesia), fino al sud della Thailandia e al nord della Malesia. L'ondata di maltempo ha ucciso almeno 1.300 persone. Ma il numero delle vittime è destinato a salire perché ci sono centinaia di dispersi e migliaia di feriti, oltre a più di tre milioni di sfollati. 
Non è stato semplice maltempo. Sono piogge eccezionali anche per la stagione dei monsoni e come altri fenomeni estremi sono state esacerbate dal surriscaldamento globale. L'atmosfera più calda contiene più umidità e le temperature più elevate degli oceani amplificano le tempeste. Le precipitazioni in Sri Lanka, Sumatra, Indonesia, Thailandia e Malesia ma anche delle Filippine, del Vietnam, della Birmania e di alcune parti della Cambogia e del Laos hanno registrato i livelli più alti dal 2012. In alcuni luoghi hanno superato di un metro la media dei mesi di novembre del periodo 1991-2020.

Nel sud-est della Thailandia, ha calcolato l'agenzia Afp, le precipitazioni mensili cumulative hanno superato in alcuni luoghi 1,5 metri, secondo i dati che combinano le rilevazioni delle stazioni, le osservazioni satellitari e i modelli meteorologici. In Vietnam, le piogge hanno raggiunto livelli record nella provincia montuosa di Dak Lak, così come in vaste zone al confine con la Cambogia. Anche nelle Filippine sono stati battuti i record di precipitazioni nel nord dell'arcipelago.
 Ecologisti, esperti e persino il governo indonesiano hanno sottolineato la responsabilità della deforestazione nelle inondazioni improvvise e nelle frane. In particolare il disboscamento selvaggio ha aumentato alluvioni e frane nella regione di Aceh, all'estremità occidentale di Sumatra, già devastata dallo tsunami del 2004. Anche qui c'è la mano dell'uomo. 
«Quello che è successo non è un semplice disastro naturale, ma l'esito dello scontro tra un ciclo climatico eccezionale e un paesaggio progressivamente privato delle sue difese naturali» scrive su Climate Home News, l'analista dell'Indonesia Strategic and Economics Action Institution Ronny P. Sasmita. Ad aggravare la situazione è stato il ciclone che si è formato nello Stretto di Malacca, e ha causato piogge durate giorni. «Lo Stretto di Malacca è uno dei luoghi meno favorevoli al mondo per la formazione di cicloni tropicali, rendendo questo evento un'anomalia eccezionale» spiega ancora Sasmita.

Testimoni locali hanno raccontato di non aver mai visto un'alluvione così torrenziale, né una simile quantità di legname trasportata da torrenti e dai fiumi in piena. «Le inondazioni nelle tre province non hanno portato solo acqua, ma anche prove tangibili. Video virali hanno mostrato fiumi trasformati in nastri trasportatori di legname, spiagge ricoperte di tronchi e ponti bloccati da tronchi sradicati» scrive Sasmita. «Gruppi di monitoraggio indipendenti hanno riferito che l'Indonesia ha perso più di 260 mila ettari di foresta nel 2024, oltre novantamila ettari solo sull'isola di Sumatra. Questo livello di perdita annuale colloca l'Indonesia tra i punti caldi della deforestazione tropicale più elevati al mondo». 
Senza alberi i terreni sono più esposti all'erosione e alle frane. L'Indonesia è il decimo esportatore di legno al mondo e l'industria del legname è una risorsa importante. Ma a pagarne i costi adesso sono le vittime delle alluvioni. Uno degli epicentri dell'eccezionale stagione delle piogge che ha devastato l'Asia è stato il Vietnam. «Quest'anno il Vietnam è stato colpito da 14 tifoni. La media di qualche decennio fa era cinque. La pioggia degli ultimi giorni non è stata nemmeno causata da un ciclone, ma da una quindicesima grande tempesta che si è formata al largo della costa centro-meridionale del Paese» spiega il New York Times. «Dal punto di vista geografico, il Vietnam è particolarmente vulnerabile. Uno studio del 2024 lo ha identificato come un “punto caldo” dei cambiamenti climatici, dimostrando che l'aumento delle temperature, che aggiunge umidità all'atmosfera e riscalda il Mar Cinese Meridionale, si combina con i sistemi dei tifoni e crea un vortice di rischio». 
In un periodo in cui l'Europa è preoccupata per le guerre alle sue porte, i timori per i cambiamenti climatici in Asia sembrano molto lontani. Ma quello che sta succedendo lì è solo un esempio di come il surriscaldamento globale colpirà intere regioni causando instabilità e movimenti forzati della popolazione, con effetti a cascata. Il maltempo in Vietnam, per altro, è destinato a farsi sentire anche sulle nostre tavole: è il secondo produttore mondiale di caffè e il primo per la qualità Robusta. Le piogge delle settimane scorse hanno colpito la provincia di Dak Lak, dove ci sono molte piantagioni. E il raccolto ha dovuto essere rimandato, facendo salire i prezzi del caffè all'ingrosso

* nella foto: inondazioni in Indonesia

* da Mondo Capovolto ( newsletter Corriere della Sera - 4 dicembre 2025 )

30 novembre 2025

In Brasile la “boiada” è legge, distruggere l’ambiente si può

Estrattivismo: Rimossi i veti di Lula al "Pl da Devastação", estrattivisti e lobby dell’agribusiness in festa

di Claudia Fanti *

Non ha davvero perso tempo la lobby legata all’agribusiness ad accantonare qualsiasi aspirazione finto-green: appena spenti i riflettori sulla Cop 30 – quella che secondo Lula avrebbe dovuto essere la migliore della storia -, ha ribaltato con tempismo perfetto 56 dei 63 veti che Lula aveva posto ad agosto sul cosiddetto “Progetto di legge della devastazione”, sferrando il colpo decisivo ai già sofferenti ecosistemi brasiliani. Determinante, in questa offensiva, è stato il presidente del Senato Davi Alcolumbre, il quale ha messo in agenda la votazione con la massima fretta, facendo saltare al Pl da Devastação una lunga fila, e meritandosi per questo i più vivi complimenti da parte della lobby ruralista.

RISULTATO della votazione di giovedì: il Brasile ha praticamente perso la sua legislazione ambientale. Il sogno di ogni latifondista e di ogni impresa estrattivista è diventato realtà. Respingendo la quasi totalità dei veti di Lula, il Congresso ha infatti trasformato in legge la peggiore versione del Pl 2.159/2021, con tutti i suoi punti più critici, a cominciare dalla cosiddetta Lac (Licença ambiental por Adesão e Compromisso), grazie a cui, per la maggior parte delle iniziative imprenditoriali, ad eccezione solo di quelle ad alto impatto ambientale, sarà sufficiente l’autocertificazione: basterà compilare un formulario su internet, dichiarando che la propria attività non presenta rischi per l’ambiente. Un click e via, senza bisogno di studi di impatto ambientale. Mentre un altro punto assai criticato, quello relativo alla Lae (Licença Ambiental Especial) – una procedura semplificata di autorizzazione ambientale per tutte le opere considerate politicamente rilevanti, a prescindere da quale sia il loro impatto – è stato incluso in una misura provvisoria che sarà discussa la prossima settimana. Introdotta con un emendamento ad hoc, nella decisiva votazione al Senato del 21 maggio scorso, da Alcolumbre, deciso a velocizzare lo sfruttamento petrolifero a Foz do Amazonas, nel “suo” Amapá, la Lae spiana la strada a progetti contestatissimi come la BR-319, l’autostrada che collega Manaus a Porto Velho. Ma oltre a rendere estremamente più semplice e rapida la concessione delle autorizzazioni ambientali e a ridimensionare in maniera drastica gli studi di impatto ambientale, la legge calpesta i diritti delle comunità indigene e quilombolas, indebolisce la protezione della Mata Atlântica, riduce al minimo il ruolo degli organismi di salvaguardia della natura e consente a stati e municipi di rilasciare le autorizzazioni con la massima discrezionalità.

QUANDO il famigerato ex ministro dell’Ambiente del governo Bolsonaro Ricardo Salles esortava a «passar a boiada», cioè ad azzerare la legislazione ambientale come se ci passasse sopra una mandria di buoi, pensava esattamente a questo. Ironia della storia, la boiada è passata sotto la presidenza Lula, il cui governo – proprio quello su cui i popoli indigeni avevano riposto le loro speranze – è tutt’altro che esente da responsabilità.Che vari dei suoi esponenti non fossero pregiudizialmente contrari al progetto di legge, limitandosi semmai a prendere le distanze solo dai suoi aspetti più rovinosi, è cosa nota. Non a caso, come rivelato dal portale ambientalista Sumaúma, il documento preparato dall’ufficio del capogruppo governativo al Senato orientava lo scorso maggio a esprimere un voto «favorevole con aggiustamenti». Non un granché come strategia di contrasto. Cosicché, quando alla fine si è cercato di contenere il disastro, come ha tentato di fare Lula ponendo 63 veti al progetto, era ormai troppo tardi per arginare la boiada.

INUTILI si sono rivelati gli sforzi della ministra dell’Ambiente Marina Silva, la quale non ha nascosto il suo «lutto», denunciando la demolizione di un’impalcatura legislativa che aveva impiegato quarant’anni per consolidarsi – e proprio nel momento in cui il Brasile affronta le conseguenze sempre più severe del cambiamento climatico, tra ondate di calore, siccità, incendi, piogge torrenziali e trombe d’aria – e aprendo la possibilità di un ricorso alla giustizia: non è possibile, ha detto, passare impunemente «sopra l’articolo 225 della Costituzione», in base a cui tutti i cittadini hanno diritto a un ambiente ecologicamente equilibrato. E a rivolgersi alla giustizia saranno di certo varie organizzazioni, come l’Observatório do Clima, convinte dell’evidente incostituzionalità di molti punti della nuova legge e decise a non rassegnarsi allo «sterminio del futuro».

nella foto: A fuoco un’area oggetto di deforestazione da parte degli allevatori di bestiame nei pressi Novo Progresso, nello stato del Para, Brasile

leggi anche:   Clima, il club fossile che ha minato Belém

 * da il manifesto - 30 novembre 2025

22 novembre 2025

Africa: Gerontocrazia 4.0

45 giorni di passione elettorale restituiscono un'Africa apparentemente immutata. Ma tra proteste e nuove generazioni, il continente ribolle di passione. Una panoramica di Andrea Spinelli Barrile sul voto in Malawi, Costa d'Avorio, Camerun e Tanzania. 

Immagine che contiene aria aperta, cielo, fuoco, vestiti

Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.

 

Potrebbe sembrare che la politica africana non sia cambiata poi molto nel periodo di 45 giorni che, tra metà settembre e fine ottobre, ha visto susseguirsi un’improbabile coincidenza di appuntamenti elettorali nel continente. Se la politica cambia poco le società africane, invece, si stanno trasformando profondamente.

Il 16 settembre i malawiani sono andati a votare per eleggere il loro presidente. L’ultima volta, nel 2019, la Corte costituzionale aveva dichiarato nullo il risultato elettorale, con i cinque giudici in giubbotto antiproiettile ad annunciare la decisione in tv: fu favorito il presidente in carica, Peter Mutharika, contro Lazarus Chakwera, che però meno di un anno dopo, nella ripetizione del voto, prevalse. Nel sequel 2025 di questo scontro Mutharika, 85 anni, si è imposto su Chakwera, 70, con il 56,8% ed è stato dichiarato presidente.

Il 12 ottobre, quasi un mese dopo, è stato il turno del Camerun: il risultato, con il 92enne presidente Paul Biya candidato per la sesta volta, era scontato. Meno i suoi effetti: un po’ per la caratura politica dell’avversario, Issa Tchiroma Bakary, un po’ per lo scollamento dalla realtà dell’establishment camerunese (Biya, nato quando Hitler diventava cancelliere del Reich, non ha potuto fare campagna elettorale a causa delle sue condizioni di salute, in un Paese dove i nati nel 2006 rappresentano l’età media), le proteste sono dilagate in tutto il Paese e non solo rinfocolando il vecchio dilemma coloniale tra le popolazioni francofone e anglofone. A fine mandato, se sopravvivrà a se stesso, Biya potrebbe avere quasi 100 anni.

Due settimane dopo, il 25 ottobre, in Costa d’Avorio Alassane Ouattara, 83 anni, ha ottenuto quasi il 90% dei voti e un quarto mandato presidenziale: al potere dal 2010, le ambizioni di Ouattara all’inizio di questo millennio hanno portato il Paese sull’orlo del collasso ma lui ne è uscito da re incontrastato: quando finirà questo mandato, Ouattara avrà poco meno di 88 anni.

Il 29 ottobre è stato il turno della Tanzania, in quella che è stata la tornata elettorale più sanguinosa dell’anno: le elezioni si sono svolte in un cimitero, da mesi nel Paese è stata scatenata quella che Amnesty International ha definito «ondata di terrore», con migliaia di critici e oppositori (ci vuole poco, basta un commento sbagliato al post sbagliato) incarcerati e il leader dell’opposizione, Tundu Lissu, accusato di tradimento e a rischio pena di morte. Il giorno del voto la rabbia è esplosa e nonostante il blackout di internet (un blocco molto efficace per gli standard africani, durato diversi giorni e che ha impedito a testimonianze, informazioni, denunce e proteste di uscire dal Paese) a migliaia hanno protestato a Dar-Es-Salaam, Arusha, Mbeya e Mwanza, beccandosi proiettili veri sparati mirando alla testa. A due settimane dalla mattanza non è ancora chiaro il numero delle vittime (tra le 3000 e le 10000 – sì, diecimila), alle quali si sono aggiunti gli omicidi di massa mirati nei centri abitati sospettati di essere roccaforti dell’opposizione. Omicidi che vanno avanti ancora oggi.

Persino l’Unione africana abbia dichiarato le elezioni tanzaniane “truccate” (Samia è stata dichiarata vincitrice con il 98% dei voti) ma è bastato ignorarla: ora l’appuntamento è al 9 dicembre, giorno dell’Indipendenza, quando i giovani tanzaniani torneranno in piazza a sfidare le mitragliatrici.

E non è finita qui: il 23 novembre sarà la Guinea Bissau ad andare al voto, un ex-narcostato (nemmeno troppo “ex”) il cui Parlamento è stato chiuso dal suo presidente, Umaro Sissoco Embalò, a dicembre 2023. Il favorito è proprio lui, Embalò, che a marzo aveva detto di non volersi ricandidare, salvo farlo dietro consiglio della moglie.

Il 28 dicembre l’anno si chiuderà con altre due elezioni presidenziali importanti, in Guinea e Repubblica Centrafricana. Nel primo caso il favorito è il leader della giunta militare attualmente al potere, Mamady Doumbouya, diplomatosi ufficiale in Francia, alla guida dell’unica giunta militare dell’Africa occidentale a non avere subito sanzioni internazionali di alcun genere e che, anzi, gode di un certo favore dei governi europei. Nel secondo caso invece il favorito è l’ex-professore di matematica Faustine Archange Touadera, alla ricerca di un terzo (illegittimo fino a un anno fa) mandato. Anche lui, amico di tutti: ha la guardia personale e i consiglieri della sicurezza che sono ex-Wagner russi, fa lavorare gli americani come contractor, ospita nel Paese una missione di caschi blu e viene a Roma molto spesso per riunioni su sicurezza e disarmo alla Comunità di Sant’Egidio.

Mentre fioccavano tutte queste elezioni, in Madagascar c’è stato un colpo di Stato e il presidente se ne è scappato in Francia, lasciando il posto a un militare.

Di fronte a tutti questi voti con i risultati sempre uguali viene da chiedersi se l’Africa ha un futuro e, diversamente da come ci saremmo risposti all’inizio della carriera politica di questi dinosauri, la risposta è Sì: lo dimostrano i numeri della demografia (l’età media, nel continente, è di poco superiore ai 19 anni), le proteste della GenZ che dilagano ovunque, le statistiche della scolarizzazione, sempre più diffusa e sempre più alta come grado scolastico e formazione professionale. Da buona società anziana, benestante e colonialista, noi europei guardiamo con paternalismo alla politica africana, dimenticandoci lo sforzo del provare a comprenderla. Ma se l’Africa ha un futuro, l’Europa può dire altrettanto?

* Nord Sud Ovest Est. Per non perdere l'orientamento

 da il manifesto 18 novembre 2025 (Vai agli articoli )



Perché l'America Latina ha voglia di destra (anche estrema)

di Sara Gandolfi *


«Se Augusto Pinochet fosse vivo voterebbe per me. Se lo avessi incontrato ora, avremmo preso una tazza di tè a La Moneda». Così parlava, nel 2017, José Antonio Kast, superfavorito al ballottaggio del prossimo 14 dicembre in Cile, citando il palazzo presidenziale di Santiago, lo stesso che il dittatore bombardò nel 1973 per eliminare Salvador Allende. Otto anni dopo, alla sua terza corsa elettorale, Kast ha moderato i toni: non parla più con toni nostalgici del generale che governò il Cile fino al 1990 e non promette più di liberare gli ufficiali responsabili di violazioni dei diritti civili in quegli anni. Anche perché c’erano altri candidati, al primo turno di domenica scorsa, più a destra di lui, come Johannes Kaiser, un emulo dell’ultra-libertario argentino Javier Milei, che peraltro ha ora garantito l’endorsement a Kast.

Kast è arrivato secondo alle presidenziali, con il 24,46% dei voti contro il 26,45% della comunista Jeannette Jara, candidata della coalizione di sinistra. Ma le varie formazioni di destra, che si erano presentate separate alle urne per misurare le rispettive forze, si sono ricompattate. E il leader del Partito Repubblicano vincerà, salvo sorprese, portando ancora più a destra il continente.

Dall’Alaska a Punta Arenas, l’America sta virando decisamente a destra. Secondo BMI (società di ricerca britannica, sussidiaria di Fitch Solutions), entro il 2026 solo Venezuela e Uruguay manterranno governi di sinistra, riflettendo un riallineamento politico verso politiche più autoritarie o liberiste. Un processo che è cominciato nel 2023 con la vittoria di Javier Milei in Argentina e di Santiago Peña in Paraguay, e che ha preso il volo quest’anno. A inizio 2025, Daniel Noboa è stato riconfermato presidente dell’Ecuador. In Bolivia il voto del 19 ottobre ha chiuso con una pietra tombale, dopo un ventennio, l’era di Evo Morales e del suo successore: il candidato del partito «oficialista» di sinistra ha ottenuto solo il 3% dei voti al primo turno e al ballottaggio ha vinto il senatore di destra Rodrigo Paz, che ha promesso una rottura decisiva con il passato, e la fine dei rapporti con Venezuela, Cuba e Nicaragua. Anche il Perù, dopo l’arresto del presidente-golpista Pedro Castillo nel 2022, è stato teatro di una decisa svolta a destra, prima con Dina Boluarte, deposta ad ottobre per corruzione, e ora con José Jeri, esponente del partito conservatore «Siamo il Perù», che porterà il Paese fino alle elezioni presidenziali del prossimo 12 aprile. Infine, molti analisti danno già per scontata, nel marzo 2026, la vittoria di un candidato di destra in Colombia, dopo il turbolento governo di Gustavo Petro. La domanda chiave è se l'opposizione conservatrice riuscirà a riorganizzarsi dopo la perdita del suo candidato presidenziale più popolare, il senatore Miguel Uribe Turbay, morto due mesi dopo un attentato, durante la campagna elettorale a Bogotà.

La sinistra democratica resiste in Uruguay con Yamandú Orsi, in Messico con Claudia Sheinbaum e in Brasile con Luis Inácio Lula da Silva (ma quest’ultimo l’anno prossimo deve affrontare, a 81 anni, una nuova sfida elettorale e la destra sta già cercando un candidato post-Bolsonaro). Poi ci sono le dittature – difficili definirle ideologicamente, in realtà - di Venezuela, Cuba e Nicaragua, sempre che il presidente statunitense Donald Trump non decida di forzare la mano con la rinnovata dottrina Monroe, perché «l’America latina è il nostro cortile di casa e abbiamo diritto a garantire anche lì la nostra sicurezza», parafrasando le parole del segretario di Stato Marco Rubio.

Nella svolta a destra, sostiene lo storico e politologo uruguayano Gerardo Caetano, gioca un ruolo centrale l’inquilino della Casa Bianca: «Trump sta intervenendo incessantemente, praticamente in ogni Paese del mondo, e in America Latina in modo molto categorico», ha detto in una recente intervista, sottolineando come in molti Paesi l’estrema destra abbia scavalcato la destra tradizionale, più moderata: «Sta accadendo in Cile e accadrà sicuramente anche in Perù». Non è successo invece in Bolivia, dove Paz ha sconfitto il candidato di estrema destra Jorge Quiroga. Ma nel complesso, rileva Caetano, «esperienze ultra-radicali come quella di Nayib Bukele in El Salvador tendono a prendere piede» e, in contemporanea, «è anche uno spostamento verso un'America Latina in cui l'intervento degli Stati Uniti sta diventando sempre più palese».

Sulla stessa linea, il commento di Ernesto Samper Pizano, ex presidente colombiano (1994-1998) sul Guardian: «Con l'elezione di Trump 2.0, l'estrema destra globale ha trovato una cassa di risonanza in Florida e in tutta la regione, con il sostegno dei leader politici di Stati Uniti, El Salvador e Argentina. Trump, che ha dichiarato "non abbiamo bisogno" dell'America Latina a pochi giorni dall'inizio del suo secondo mandato, ha intensificato l'aggressività anti-latinoamericana attraverso decisioni come la persecuzione dei migranti, la sospensione dei programmi di aiuti tramite USAID, l'inasprimento delle sanzioni contro Cuba e Venezuela e le assurde rivendicazioni territoriali sul Canada, sul Golfo del Messico e sul Canale di Panama. Tutto ciò segna il ritorno dello Zio Sam degli anni '50 e dell'Operazione Condor degli anni '70 e '80».

«Lasciarsi alle spalle il populismo che scoraggia gli investimenti potrebbe essere una buona notizia per la regione - commenta invece sul Miami Herald il noto opinionista Andres Oppenheimer -. Molti fondi di investimento, per quanto assurdo possa sembrare, vedono l'America Latina come un blocco omogeneo e la evitano quando percepiscono sacche di instabilità. La buona notizia è che ci sono sempre più governi responsabili, sia di centro-destra che di centro-sinistra, nella regione. La cattiva notizia è che l'America Latina, come dice il vecchio adagio, non perde mai l'occasione di perdere un'occasione».

Il think tank colombiano El Sectorial parla di «un nuovo ciclo politico che sta rimodellando il panorama economico regionale». A partire dalla schiacciante vittoria alle legislative argentine del partito di Javier Milei, con oltre il 40% dei voti, che «ha segnato una svolta in quello che i mercati chiamano il "mercato elettorale latinoamericano": una scommessa degli investitori globali su una svolta verso politiche pro-mercato». 

In realtà, nel corso del 2025, le borse valori sono cresciute di quasi il 40% in tutte le regioni, con in testa Colombia, Cile e Brasile, dove governa la sinistra. «Tuttavia, dietro l'ottimismo del mercato azionario, persistono sfide strutturali: bassa crescita (la CEPAL prevede un 2,4% per il 2025), alti livelli di occupazione informale (quasi il 50% dei lavoratori) e disuguaglianze che mantengono il 10% più ricco al controllo del 66% della ricchezza della regione», conclude il think tank colombiano.

La scommessa dei mercati è dunque sul tavolo, ma la vera domanda è se la regione riuscirà a trasformare questo «nuovo ciclo del capitalismo» in una crescita economica stabile e sostenibile o se i governi di destra, come accaduto peraltro a Milei, si troveranno a camminare in equilibrio precario. Sempre che non intervengano gli Stati Uniti, come successo in Argentina, o perfino la Cina, per togliere dai guai gli «amici» in difficoltà.

Conor Beakey, responsabile della ricerca sull'America Latina per BMI, è ottimista: anche se le relazioni commerciali potrebbero subire una battuta d'arresto temporanea, l’analista prevede che la crescita economica inizierà a riprendersi verso la fine del 2026 e accelererà significativamente nel 2027. Il fattore determinante, secondo lo studio di BMI, è il riallineamento politico verso una destra più autoritaria e populista. «Questo cambiamento, che si prevede graduale, è guidato da un elettorato sempre più conservatore, in particolare in Sud America, a seguito del fallimento dei movimenti di sinistra nel raggiungere un cambiamento sostenibile e duraturo», sostiene Beakey.
  
Shanna Bober, analista del rischio dell'America Latina in BMI, spiega che la tendenza dei governi a consolidare il potere in nome della stabilità e della governabilità è spinta dalla «fatica politica» dell’elettorato, dalle debolezze economiche strutturali, dagli scandali di corruzione e dal deterioramento della sicurezza. I cittadini stanno «ricompensando i leader che promettono risultati rapidi», anche se questo comporta una regressione della democrazia o una manipolazione istituzionale. 

* Il Punto del Corriere della sera ( Rassegna americana) – 18 novembre 2025

 

15 novembre 2025

Dopo Mamdani a New York, anche Seattle ha scelto un’oustider: chi è la nuova sindaca Katie Wilson

 I punti in comune tra i due sono parecchi: nessun padrino politico, solo alleanze reali e una nuova idea di potere urbano. A Seattle e New York, due outsider vincono partendo dai margini: pendolari, tassisti, affitti, trasporti.

di Simona Sirianni *

Zohran Mamdani ha vinto a New York digiunando per i tassisti. Katie Wilson ha vinto a Seattle lottando per i pendolari. E poca importanza ha contato la grande differenza tra le due città agli estremi opposti degli Stati Uniti, perché le loro campagne hanno parlato la stessa lingua: quella di chi non ha accesso, ma pretende voce. Due vittorie nate fuori dai radar del potere, ma costruite con pazienza, coalizioni e ostinazione.

Katie Wilson a Seattle come Zohran Mamdani a New York: la nuova sindaca lontana dall’establishment. Wilson, attivista e fondatrice della Transit Riders Union, un’organizzazione che difende i diritti degli utenti del trasporto pubblico, ha battuto il sindaco uscente Bruce Harrell con una campagna costruita dal basso, senza padrini politici né super-PAC milionari, i classici comitati che raccolgono fondi illimitati per influenzare le elezioni. Mamdani, già deputato statale, ha sconfitto due volte Andrew Cuomo, ex governatore sostenuto dalle élite finanziarie e immobiliari. Entrambi hanno vinto parlando a lavoratori, studenti, famiglie escluse dal mercato immobiliare e dai servizi essenziali, insomma, a chi non ha voce nei consigli comunali.


La politica che prende l’autobus. Una campagna fatta parlando di priorità. Katie Wilson ha promosso con successo campagne per tariffe ridotte destinate ai pendolari a basso reddito e per l’introduzione del trasporto gratuito per gli studenti, misure poi adottate dalle autorità locali grazie alla pressione esercitata dalla sua organizzazione. Mamdani ha portato avanti la proposta di rendere gratuiti gli autobus a New York, in una città dove il costo della mobilità è una barriera sociale. Entrambi hanno fatto dell’assistenza all’infanzia, della giustizia abitativa e della tassazione progressiva i pilastri di una politica che non promette il cambiamento, ma lo costruisce.

Governare senza chiedere il permesso. La forza di Wilson e Mamdani, infatti, non sta nel carisma individuale, ma nella capacità di costruire coalizioni reali: tra studenti e lavoratori, tra migranti e sindacati, tra periferie e centri culturali. Di offrire una politica che non si limita a denunciare, ma propone. Le loro campagne non hanno cercato di rassicurare, ma di mobilitare. Non hanno chiesto spazio, lo hanno preso. E lo hanno fatto con una lucidità strategica.

Il futuro non è una direzione, è un metodo. Seattle e New York, l’abbiamo già detto, non si somigliano affatto: una è una metropoli verticale, densa, dove il potere si concentra tra grattacieli, media e finanza; l’altra è una città orizzontale, laboratorio contraddittorio della nuova economia digitale, dove l’innovazione non ha ancora risolto l’ingiustizia sociale. Ma Wilson e Mamdani non rappresentano solo un cambio generazionale. Rappresentano, almeno per il momento, un cambio di metodo: la politica come servizio, non come gestione del consenso. Non sappiamo se questo metodo diventerà norma. Non sappiamo se davvero l’autobus non si pagherà, se si troveranno affitti a prezzi decenti o un lavoro che basta per vivere. Va detto, però, che forse quando la politica inizia a vivere la vita dei cittadini, le persone tornano ad ascoltare.

* da iodonna.it - 14 Novembre 2025

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Seattle elegge una “Mamdani donna”

Katy Wilson e' la versione femminile del sindaco di New York. Entrambi pronti a svecchiare il partito democratico

 di David Mazzucchi *

La candidata outsider Katie Wilson è pronta a diventare il prossimo sindaco di Seattle, dopo aver sconfitto il democratico in carica Bruce Harrell. La 43enne Wilson, fondatrice dell’organizzazione no-profit cittadina Transit Riders Union, era in svantaggio rispetto ad Harrell il giorno delle elezioni della scorsa settimana, ma è passata in vantaggio con l’arrivo delle schede per corrispondenza, superando la soglia dei 2.000 voti per un riconteggio. “Ora crediamo di essere in una posizione insormontabile”, ha scritto in un post sulla pagina Facebook della sua campagna elettorale martedì sera. “Siamo molto grati a tutti i volontari che hanno portato questa campagna popolare alla vittoria. Non vediamo l’ora di ascoltare il discorso del sindaco alla città domani”.

La vittoria di Wilson segna la seconda vittoria a sorpresa contro esponenti dell’establishment democratico in poche settimane, dopo la vittoria di Zohran Mamdani su Andrew Cuomo nella corsa a sindaco di New York City. Mamdani è membro dei Socialisti Democratici d’America, mentre Wilson accetta l’appellativo senza essere ufficialmente affiliata al partito. “Sono democratica, sono socialista, mi sta bene essere definita socialista democratica”, ha dichiarato in una recente intervista, definendo l’etichetta “più un sistema di valori o un orientamento” per quanto riguarda il suo caso.

Le somiglianze tra il programma di Mamdani e quello di Wilson sono tantissime. Come il suo collega sindaco eletto, la campagna di Wilson ha fatto leva sulle preoccupazioni delle persone che vivono in una città sempre più inaccessibile ed economicamente diseguale. La sua Transit Riders Union è riuscita a ottenere tariffe ridotte per gli utenti a basso reddito nel 2015, nonché il trasporto pubblico gratuito per gli studenti delle scuole medie e superiori, un obiettivo ripreso da una delle politiche principali di Mamdani: rendere gratuiti gli autobus di New York (NYC offre già tessere OMNY gratuite agli studenti delle scuole elementari e medie).

Wilson ha anche preso parte, con successo, a una campagna per aumentare il salario minimo in un sobborgo di Seattle nel 2022. Nel 2021, l’allora deputato Mamdani si è schierato dalla parte dei tassisti – le cui prospettive economiche erano diventate così disastrose che la comunità stava assistendo a un aumento degli autisti che si suicidavano – intraprendendo uno sciopero della fame di 15 giorni che ha portato a riforme del sistema che schiacciava gli autisti sotto una montagna di debiti.

Entrambi i sindaci eletti condividono altre priorità politiche, come l’ampliamento dell’assistenza all’infanzia (Wilson è stata chiamata “Mama-dani”) e l’aumento delle tasse per i ricchi. Ma una delle somiglianze più importanti tra loro sono le loro vittorie sui candidati dell’establishment ben finanziati. Mamdani ha dovuto spazzare via Andrew Cuomo due volte, la prima alle primarie del Partito Democratico a giugno, e poi di nuovo dopo che lui aveva rilanciato la sua candidatura a sindaco come candidato indipendente durante l’estate. L’ex governatore era sostenuto dalle élite cittadine nei settori della finanza e dell’immobiliare, la cui spesa tramite i super-PAC ha rappresentato più della metà di tutte le spese indipendenti , eclissando di sette volte quella di Mamdani.

Sulla costa occidentale, la vittoria di Wilson contro Harrell è arrivata in un momento in cui la sua spesa elettorale è stata più o meno identica. I resoconti indicano che un super-PAC a sostegno di Harrell ha raccolto quasi 1,7 milioni di dollari nel corso della campagna, sostenuto dalle élite cittadina nei settori immobiliare e tecnologico. Ha superato di misura il sindaco in carica, prima alle primarie aperte, e poi di nuovo a novembre .

Resta da chiedersi per quanto tempo l’establishment del Partito Democratico, in senso più ampio, potrà ignorare i successi della sinistra populista emergente. Pramila Jayapal, Presidente Emerita del Progressive Caucus della Camera e deputata di Seattle, aveva sostenuto Harrell, mentre i senatori Democratici di New York Chuck Schumer e Kirsten Gillibrand si sono rifiutati di sostenere Mamdani, nonostante avesse vinto la nomination del loro partito.

Sondaggio dopo sondaggio, si nota un ampio sostegno a politiche progressiste come l‘aumento delle tasse per i ricchi e le corporation, o l’istituzione dell’assistenza sanitaria universale. Le vittorie di Wilson e Mamdani dimostrano ora che le campagne costruite attorno a loro sono vincenti. “Abbiamo un futuro da pianificare. Abbiamo un futuro per cui lottare”, ha dichiarato la deputata socialista democratica Alexandria Ocasio-Cortez la sera della vittoria di Mamdani, sottolineando le crescenti tensioni tra le due ali del partito. “E o lo faremo insieme, o rimarrete indietro”.

* da La voce di New York - David Mazzucchi è un giornalista americano esperto di politica USA e internazionale. 

Seattle come New York, vince una “socialista”

di Alessandro Avvisato *

A quanto pare il “socialismo democratico” è un virus che sta contagiando le metropoli statunitensi, contraddicendo la sbornia “Maga” che sembra espressione delle campagne e del “profondo Sud” con nostalgie confederate.  La “socialista” Katie Wilson ha infatti sconfitto l’ormai ex sindaco di Seattle, Bruce Harrell, anche lui come Andrew Cuomo sostenuto dall’establishment del partito democratico, nella corsa a sindaco della città. Stiamo parlando della “capitale economica” dello Stato di Washington, sul Pacifico, porta di ingresso di quella Sylicon Valley che pareva passata dai sogni “libertari” alle paranoie “transumanistiche” più reazionarie di amministratori delegati come Peter Thiel, di Palantir (è arrivato a descrivere Greta Thurnberg come “l’Anticristo”). E invece ecco venir fuori dalla città del grunge (Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains, Soundgarden, ecc) un’altra figura che scompagni il quadro politico fin troppo ossificato tra nazi-trumpiani e inguardabili cariatidi della conservazione (“dem” o “repubblicani perbene”, le stesse persone).

L’ex sindaco Harrell ha ammesso la sconfitta solo stamattina, quando il distacco nello scrutinio, comunque abbastanza ridotto, è diventato inammissibile per chiedere il riconteggio dei voti. Lo stato di Washington prescrive infatti un riconteggio automatico solo quando il margine di voti è inferiore a 2.000 e a meno della metà di una percentuale del “numero totale di voti espressi per entrambi i candidati“.  A quel punto Harrell ha anche cambiato radicalmente atteggiamento nei confronti della Wilson, affermando che sebbene le due campagne offrissero visioni diverse per governare la città, i loro valori rimanevano gli stessi. “L’amministrazione Wilson avrà nuove idee, avrà una nuova visione. Avendo vinto le elezioni, se lo sono guadagnato. Dobbiamo ascoltare i giovani elettori“. Se non puoi batterli, cerca un’alleanza… Del resto, gli unici “risultati” che aveva potuto vantare la sua mministrazione, anche secondo i giornali locali, erano quelli di un conservatore: una diminuzione della criminalità, un aumento delle assunzioni nella polizia e la fine della supervisione federale del Dipartimento di Polizia (sotto l’offensiva di Trump contro le amministrazioni “dem”). Proprio come a New York, la Wilson aveva sconfitto Harrell in un affollato ballottaggio per le primarie “dem”. Harrell aveva comunque finanziamenti potenti, mentre la Wilson solo le donazioni popolari. Sembrava perciò una battaglia persa in partenza, e invece la voglia di “stato sociale” ha prevalso.

L’elezione della Wilson segna la seconda vittoria progressista dopo le elezioni nella Grande Mela, solo martedì scorso. La Wilson aveva incentrato la sua campagna sull’accessibilità economica – evidenziando le sue stesse difficoltà nel vivere quotidianamente a Seattle. Ha proposto una tassa sui profitti per aumentare le entrate (demonizzata da Harrell), protezioni più forti per gli affittuari e il miglioramento del trasporto pubblico. Quel messaggio ha trovato risonanza in una città dove l’alloggio è diventato fuori portata per molti cittadini.

C’è una disconnessione tra ciò che i giovani stanno vivendo nella vita di tutti i giorni oggi“, ha detto ancora Fincher. “Penso che ci sia una spaccatura nel Partito Democratico su questo, che stiamo cercando di capire“. La Wilson si è anche impegnata a fare di più per affrontare il problema dei senzatetto, inclusa l’accelerazione della disponibilità di alloggi di emergenza, ed è stata molto critica con Harrell che appoggiava lo sgombero degli accampamenti di tende dagli spazi pubblici di Seattle (una realtà di molte metropoli Usa, dove sui marciapiedi vanno crescendo autentici “villaggi” di homeless).  Anche lei in passato – come Mamdani – aveva chiesto tagli ai fondi della polizia, ma in questa campagna ha cambiato tattica, promettendo più programmi sociali, “non di polizia“.

L’insuccesso del “dem” Harrel è un colpo per i “moderati”, che lo consideravano un prototipo del “Democratico” per riorganizzare il partito dopo i deludenti risultati del 2024. Ma proprio l’appoggio dei “Ceo” della Sylicon Valley si è rivelato per lui “il bacio della morte”. “Quella foto dei dirigenti tech all’inaugurazione della sua campagna è qualcosa che si è cristallizzato nella mente degli elettori“, ha detto Dean Nielsen, uno stratega democratico di lunga data che sosteneva Harrell. “È diventata in qualche modo emblematica di ciò che sta accadendo nella gara: un sindaco dell’establishment che è supportato da molte di quelle stesse persone che sono ferocemente contrarie a questa visione di cambiamento sistemico“.

La Wilson in effetti non aveva mai ricoperto una carica elettiva ed è co-fondatrice della Transit Riders Union, un gruppo di pressione per il miglioramento del trasporto pubblico. “Abbiamo sfidato un potente titolare che si aspettava di navigare tranquillamente verso la rielezione. Abbiamo affrontato più soldi di PAC aziendali di quanti ne siano mai stati spesi per attaccare un candidato in un’elezione di Seattle. Abbiamo costruito un movimento alimentato dalle persone, radicato nella speranza per il futuro della nostra città“, ha scritto stamani in un post su X, “E abbiamo vinto“.  Quanto al confronto tra la sua piattaforma e quella del neo-sindaco di New York, la Wilson ha ammesso che “Penso che ci siano molte forze simili al lavoro in questo momento. La mia carriera è stata davvero incentrata sul rimettere i soldi nelle tasche dei lavoratori… Ho deciso di lanciarmi in questa gara perché mi sono resa conto che eravamo in un momento in cui le persone comuni sentono il costo elevato di tutto, dall’affitto all’asilo nido al cibo alla benzina“. La sua campagna, ha detto, rifletteva un crescente spostamento verso il progressismo in atto in tutti gli Stati Uniti come reazione ai fallimenti dei Democratici nello sconfiggere Donald Trump un anno fa.

Come abbiamo intravisto con la vittoria di Mamdani a New York, “E’ una rottura rivoluzionaria? Non diciamo cazzate, please… E’ una rottura irreversibile? Idem. E’ una risposta ancora molto acerba all’impoverimento di massa, e dunque alla dimensione sociale del declino statunitense come potenza egemone sul mondo. E’ il ‘sentore’, non ancora la piena consapevolezza, che ‘socialismo’ – in accezioni tanto diverse quante sono le teste, da quelle e da queste parti – è l’unica possibilità di uscire dalla corsa verso il baratro.” Poi, certo, servirà qualcosa di molto più radicale. Ma la talpa sta ora scavando con molto impegno…

* da contropiano.org - 14 novembre 2025