16 marzo 2025

Serbia: La rivoluzione di Belgrado non si ferma

 Centinaia di migliaia di persone sfilano fino al parlamento. È una delle più grandi manifestazioni nella storia moderna del Paese


Elena Kaniadakis *

Ed ecco una grande piazza europea dove si fa politica, cioè si propone un cambiamento allo stato delle cose: Belgrado, piazza del parlamento. Di bandiere blu con le stelle gialle non ce n’è neanche una, solo tanti volti giovani che chiedono una magistratura indipendente, stampa libera, rispetto dello stato di diritto e non un presidente padrone. Hanno sfilato per le strade, dandosi il tempo con i fischietti, promettendosi di buttare giù un sistema che offre come orizzonte solo insicurezza, o l’‘esilio volontario’ verso altri paesi. «Hai mai visto così tanta gente?», chiede una ragazza alla sua amica, con una grande mano rossa come il sangue dipinta sulla guancia, simbolo della protesta. «Nikad, mai» risponde quella, e soffia tutto il fiato di cui è capace nel fischietto che si porta al collo. Vucic ha fatto a lungo leva sulla paura e sulla frammentazione sociale per evitare questo tipo di rivolta, ora è sulla difensiva, nel tentativo di spegnere il fuoco


È TRA LE PIÙ GRANDI manifestazioni nella storia moderna serba. Sono centinaia di migliaia di persone, tra gli organizzatori si sussurra «mezzo milione», a riempire tutte le principali strade e piazze di Belgrado, inclusa Slavija, quella che ospita la fontana sonora, simbolo delle brutture e delle speculazioni urbanistiche in atto nel paese. Il volto di Aleksandar Vucic, presidente serbo e protagonista indiscusso degli ultimi dieci anni con il Partito progressista serbo (Sns), non figurava da nessuna parte fra i cartelli della marea umana né negli slogan: non ce n’era bisogno. Ha a tal punto incarnato il potere autoritario in Serbia da essere naturalmente il destinatario politico del movimento di protesta.

TUTTI I CHILOMETRI percorsi in questi mesi di manifestazioni partecipatissime – a partire da novembre, quando la pensilina della stazione ferroviaria appena ristrutturata di Novi Sad è crollata sui passanti, uccidendone 15 – hanno condotto qui, davanti alla sede del parlamento. Senza simboli politici o partitici, questo movimento sta dando alla Serbia la scossa più politica di tutte, e chiede partecipazione ai processi decisionali, trasparenza, a partire dalla pubblicazione di tutti i documenti relativi al progetto di rifacimento della stazione. «La nostra è una domanda rivoluzionaria, molto più delle semplici dimissioni del governo: pubblicare i documenti vorrebbe dire smascherare le responsabilità criminali del potere, chiedere che la classe politica corrotta vada in prigione», racconta uno studente con il gilet catarifrangente e il casco protettivo, che cala sulla fronte, pronto, teoricamente, a proteggere la folla dalle auto che in più occasioni, nei mesi scorsi, hanno speronato i manifestanti. I trattori dei contadini arrivati dalle campagne aprono e chiudono i cortei, bloccando le strade e assicurando protezione. «Il nostro sembrava un paese vecchio, morto, e invece…», esulta Zoran, la sigaretta spenta tra le labbra, osservando compiaciuto il fiume in piena di persone, assiso sul suo trattore.

NIŠLIJE, LOZNICA, Kraljevo, Cacak, Užice, Kragujevac: i ragazzi di tante città hanno risposto all’appello, nonostante molte linee ferroviarie siano state interrotte per due giorni, con la motivazione ufficiale di un allarme per un «pacco bomba». Hanno macinato fino a 150 chilometri, dormendo nelle palestre comunali dei piccoli centri abitati, che li hanno accolti con lunghi applausi e mestolate di zuppe calde. È una delle tante magie portate da questo vento di primavera: anche i residenti delle zone rurali, dove il controllo clientelare del potere è asfissiante, e a lungo è riuscito a bloccare la scintilla della protesta, sentono di avere nuove energie. Belgrado non appare più come la roccaforte del dissenso politico, isolata dal resto del paese, ma la destinazione finale di una staffetta liberatoria. Anche le nonnine serbe davanti al parlamento premono a tutto spiano sulle trombette da stadio.

Nei giorni precedenti era stato tutto un tambureggiare bellico di dichiarazioni: «Ci aspettiamo violenze», «c’è un piano per scatenare la guerra civile», aveva dichiarato la presidente del parlamento, Ana Brnabic. Toni apocalittici di chi, più che temere lo scontro, sembrava auspicarlo.

Loschi figuri si erano accampati in piazza dai giorni scorsi, i bicipiti e qualche cicatrice bene in mostra: «Studenti impazienti di tornare sui banchi dell’università», li ha presentati il governo. Sono perlopiù scagnozzi prezzolati del Sns, ultras della squadra di calcio del Partizan, in cui sono confluiti alcuni ex riservisti dell’Unità per le operazioni speciali durante l’era Miloševic, tra i cui ranghi fu rintracciato l’assassino del primo ministro serbo Zoran Dindic nel 2003. Nella messa in scena, che avrebbe anche qualcosa di comico se non fosse per la violenza insita in essa, non potevano mancare i «trattori senza conducenti», fatti arrivare in fretta da un’azienda fuori città, per creare un cordone a difesa dell’accampamento, sulla falsariga di quanto avevano fatto i contadini «veri», a protezione degli studenti «veri». Nel tardo pomeriggio, fra «desiderosi di apprendere» e alcuni manifestanti c’è stato uno sporadico lancio di fumogeni, e gli organizzatori hanno spostato la parte finale del concentramento in una piazza più decentrata per allentare la tensione.

GLI SQUILLI DI TROMBA, gli applausi e le urla di incoraggiamento degli studenti coprono così il silenzio dell’Unione europea, al cui consesso la Serbia rimane candidata. Le proteste oceaniche sono state finora sostanzialmente ignorate da Bruxelles. Solo venerdì la rappresentanza Ue in Serbia ha invitato al «rispetto dei diritti democratici».

Qualcuno, più spiritoso, sventola in corteo le bandiere dei regni mitici del Signore degli anelli per incoraggiare la lotta contro Vucic, «l’oscuro signore». Perché un mondo letterario sia da preferire all’Ue è presto detto. «L’Europa è complice», attacca Milos, uno studente che si trascina dietro una gigantografia con la copertina della costituzione serba. «In tutti questi anni ha sostenuto Vucic, convinta che fosse il solo capace di assicurare la stabilità e lasciare campo libero agli investimenti che le stanno a cuore. La Germania vuole che venga aperta qui la più grande miniera di litio d’Europa, la Francia ha firmato un accordo per vendere i suoi jet Rafale… lo stato di diritto, per cui noi ci battiamo, viene calpestato in nome della ‘stability’».

VUCIC, IL LEADER POLITICO alto due metri che sognava di fare il pivot ed è stato invece ministro dell’Informazione negli anni novanta, durante la presidenza di Miloševic, ha addolcito da tempo i toni da giovane radicale nazionalista, quale era, e si è accreditato come il leader pragmatico, abile nel destreggiarsi su più tavoli da gioco, non solo con Bruxelles, ma anche con la Cina e ovviamente la Russia, di cui la Serbia rimane storica alleata (Belgrado non si è unita alle sanzioni contro Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina). «Ha fatto a lungo leva sulla paura e sulla frammentazione sociale per evitare questo tipo di rivolta – spiega Ivica Mladenovic, ricercatore presso l’Istituto di filosofia dell’Università di Belgrado – ora è sulla difensiva, costretto a destreggiarsi tra repressione e concessioni limitate nel tentativo di spegnere il fuoco». Finora ha preso tempo, tenendo nella manica la carta delle elezioni anticipate che in più occasioni ha fornito la scappatoia ideale, grazie alla forte presa esercitata sugli impiegati statali, dopo le dimissioni del primo ministro avvenute a gennaio. Ma nessuno, tra i manifestanti, ha urgenza di tornare alle urne, proprio perché sa che la libertà di voto rischia di non essere garantita (Vucic ha annunciato un discorso alla nazione in tarda serata, dopo la chiusura del giornale).

TRA LE AULE OCCUPATE delle 60 facoltà, negli estenuanti dibattiti che si susseguono prima degli eventi di protesta, serpeggiano le opzioni più disparate: chiedere un governo di transizione, fondare un nuovo partito, rimanere fuori dall’arena parlamentare. La protesta ha anime politiche variegate e finora ha tratto vigore dall’aver convogliato il grande risentimento nei confronti della corruzione.

«Non c’è ancora una forza strutturata che possa incarnare l’alternativa» riflette Milos, proteggendosi con una bandiera serba dalle sparute gocce di pioggia che bagnano la festa.
«Dobbiamo organizzarci al di là delle strade, costruire una base militante nelle campagne, nelle assemblee locali, nei sindacati». La strada è in salita, ma la Serbia si è risvegliata giovane, si è affacciata sulla piazza del proprio futuro, e pretende che nessuno le chiuda la finestra in faccia.

* da il manifesto 16 marzo 2025

 

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