12 febbraio 2024

La rivolta dei trattori. Di chi è la colpa?

(di Francesca Basso e Milena Gabanelli - corriere.it - 12 febbraio 2024 )

Le proteste cominciate in gennaio in Germania si sono allargate a macchia d’olio al resto d’Europa: FranciaBelgioOlandaSpagnaPortogallo. E poi sono arrivate quelle italiane: hanno puntato su Roma ma sono arrivate fino a Sanremo. Un malcontento diffuso anche in RomaniaPoloniaUngheriaBulgariaSlovacchia. Ci sono ragioni che accomunano le proteste degli agricoltori europei, ci sono ragioni nazionali, e altre difficili da attribuire a qualcuno.

Il Green Deal diluito

Vengono contestate le soluzioni ambientali individuate da Bruxelles per tagliare entro il 2030 le emissioni di CO2 del 55% rispetto al 1990 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050: tutti i settori vi devono contribuire. Il primo motivo di scontro è stato l’aggiornamento della direttiva sulle emissioni industriali, che ha l’obiettivo di prevenire e ridurre l’inquinamento provocato dai grandi impianti, compresi quelli zootecnici: «la stalla deve comportarsi come una fabbrica, con tutti gli adempimenti sulla sostenibilità». Il mondo agricolo si è messo di traverso e nell’accordo finale raggiunto il 28 novembre scorso gli allevamenti intensivi di bovini sono stati stralciati dal testo. Il secondo è la legge sul ripristino della natura, proposta dalla Commissione Ue il 22 giugno 2022, per riparare almeno il 20% delle superfici terrestri e marine dell’Ue che versano in cattive condizioni. Per il comparto agricolo chiedeva di portare dall’attuale 4% fino ad almeno il 10% la superficie di terreno agricolo da non coltivare entro il 2030 (ma era a discrezione degli Stati indicare la percentuale ). Lo scopo è favorire la riproduzione della fauna e degli insetti impollinatori (api, coleotteri, sirfidi, falene, farfalle e vespe). Senza impollinazione è a rischio la crescita delle piante e la sicurezza alimentare. Per gli agricoltori il provvedimento metteva invece a rischio la produttività dell’Ue. Questa parte è stata stralciata dal testo finale nel novembre scorso. Il Parlamento Ue ha invece rigettato il 22 novembre il regolamento che puntava a dimezzare l’uso dei pesticidi entro il 2030, a favore di metodi alternativi. Una misura necessaria a proteggere la fertilità dei terreni, la salute dei coltivatori e la salubrità dei prodotti, ma gli agricoltori l’hanno contestata in tutte le sedi, e il 6 febbraio la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ne ha annunciato il ritiro. Sempre il 6 febbraio la Commissione Ue ha anche annunciato i nuovi obiettivi climatici Ue al 2040, che prevedono un taglio del 90% delle emissioni rispetto al 1990, ma ha evitato di indicare quel 30% per l’agricoltura che invece era presenti in una bozza iniziale.


 

Mercosur e prodotti ucraini

L’accordo di libero scambio con il Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) è da sempre nel mirino del mondo agricolo europeo, in particolare francese, che teme l’impatto delle importazioni. Pochi giorni fa la Commissione ha ammesso che non ci sono le condizioni per chiudere il negoziato. Poi c’è la questione dei cereali ucraini diretti in Africa. Chiuso il porto di Odessa è stato aperto un corridoio di transito via terra. Il problema è che alcuni container si fermano sui mercati polacchi, ungheresi, francesi, italiani. Il grano ucraino già costa meno, in più l’abbondanza di prodotto fa calare i prezzi. Un danno per i produttori di cereali, ma un vantaggio per gli allevatori che comprano il mangime a un prezzo più basso (che tuttavia si sono uniti alle proteste). Il 31 gennaio scorso l’Ue, per proteggere le produzioni agricole comunitarie di cereali ha introdotto un meccanismo di salvaguardia rafforzata sulle importazioni dall’Ucraina di prodotti a dazio zero, ed è previsto un «freno di emergenza» anche per il pollame, uova e zucchero.

La burocrazia della Pac

La Politica agricola comune (Pac) esiste dal 1962 per aiutare i contadini, stabilizzare i prezzi e garantire la sicurezza alimentare. Nel corso degli anni ha subito molti cambiamenti, ma la svolta cruciale è del 2023: per l’erogazione dei fondi occorre una maggiore attenzione alla questione climatica, anche perché gli agricoltori, causa siccità e alluvioni, sono i primi a pagarne il prezzo. Oggi la Pac vale un terzo del bilancio dell’Ue: per il periodo 2021-2027 si tratta di 386,6 miliardi più 8 miliardi provenienti da Next Generation Eu per aiutare le zone rurali a realizzare la transizione verde e digitale. Di quei fondi 270 miliardi sono per il sostegno al reddito degli agricoltori. All’Italia andranno 37,1 miliardi, alla Francia 64,8, alla Germania 42,5, alla Spagna 45,5 e cosi via. Per ottenere questi fondi occorre rispettare le condizionalità sull’uso di fitofarmaci, terreni a riposo ecc. Il problema per i piccoli agricoltori è la burocrazia lunga e gravosa. Critica accolta: entro il 26 febbraio la presidente von der Leyen presenterà al Consiglio Agricoltura delle proposte per ridurre gli oneri amministrativi. Inoltre la Commissione ha proposto di congelare per un altro anno l’obbligo di mettere a riposo almeno il 4% delle superfici coltivate per poter ottenere gli aiuti Ue previsti dalla PAC.

Richieste nazionali

Oltre alle proteste contro le politiche Ue, dove gli agricoltori hanno portato a casa diversi risultati, ci sono quelle contro i governi nazionali. In Germania a innescare la miccia è stato lo stop al «diesel calmierato» per i trattori (su cui poi il governo ha fatto una parziale marcia indietro). In Francia non vogliono gli aumenti delle imposte sul gasolio agricolo e sanzioni alle imprese che non rispettano la «legge Egalim», che regola e protegge il guadagno degli agricoltori nei confronti della grande distribuzione. Il nuovo premier Gabriel Attal ha promesso dieci misure con effetto immediato, tra cui semplificazioni amministrative per aiutare le piccole imprese a ricevere prima gli indennizzi dalle calamità naturali, e «clausole specchio» negli accordi di libero scambio (i prodotti agricoli importati devono soddisfare gli stessi standard di produzione europei). In Olanda il malcontento è iniziato nel 2022 quando il governo Rutte decise un piano di abbattimento dei capi di allevamento del 30% per ridurre le emissioni. In Belgio i contadini valloni chiedono l’adeguamento all’inflazione e la compensazione economica per tutti i vincoli.

Le richieste in Italia

Gli agricoltori italiani, oltre alle questioni comuni a tutti i Paesi Ue, pressoché tutte superate, si sono diretti in massa su Roma. Per chiedere cosa? Prezzi più giusti all’origine. L’ortofrutta, per esempio, quando arriva sullo scaffale del supermercato ha avuto un ricarico del 300% rispetto alla miseria pagata al produttore. Non solo: quando troviamo un prodotto in offerta lo sconto viene fatto pagare sempre al produttore.

Lo hanno fatto i piccoli coltivatori di mele della Val di Non: si sono consorziati e il prezzo di vendita alla Gdo (grande distribuzione organizzata) lo decidono loro. Altro discorso sono le aste al ribasso: la Gdo decide il prezzo iniziale e chi fa il ribasso maggiore entra sullo scaffale. Una pratica sleale stoppata da una nuova direttiva europea, ma che andrebbe potenziata. Un altro tema caldo è la redistribuzione dei fondi Pac. Dei circa 37 miliardi che arrivano nel nostro Paese spalmati su 7 anni, una quota è destinata ai campi coltivati. Da decenni il regolamento europeo parla chiaro: i fondi devono essere assegnati equamente. Tutti i Paesi si sono adeguati tranne l’Italia, dove un ettaro di terreno seminato al Sud riceve meno fondi rispetto a quello del NordPer riequilibrare bisogna togliere agli agricoltori del Nord, che ovviamente si oppongono. L’inadempienza però ci espone alla procedura di infrazione. Infine il coro che da ogni parte si leva : «tasse troppo alte». Vediamo.

Irpef sul reddito agricolo

Le imprese agricole individuali e a conduzione familiare hanno sempre pagato l’Irpef sui redditi dominicali e agrari definiti dal catasto in base alla superficie e al tipo di coltura dichiarata. Si tratta di importi modesti proprio perché non calcolati sui redditi reali. Nel 2016 il governo Renzi, con la legge n. 232 decide l’esenzione totale dell’Irpef. Prorogata poi dai governi successivi fino al 31.12.2023. Nella categoria ci sono i produttori di vino e i vivai che non hanno redditi risicati all’osso. A partire da quest’anno il governo Meloni ha deciso di non prorogare, scatenando la rabbia degli agricoltori. Ma quanto pesa sulle loro tasche? Dalla relazione tecnica alla legge di bilancio 2022 sappiamo che un anno di esenzione Irpef impatta sulle casse dello Stato per 127,7 milioni di euro, più 9,4 di addizionali regionali e 3,6 comunali. Totale 140,7 milioni di euro. Considerando che dai dati Istat le imprese agricole individuali e a conduzione familiare sono 1.059.204, vuol dire che in media dovrebbero pagare di tasse ognuna, all’anno 132,9 euro. Dal loro punto di vista sono troppi. E infatti la premier ci ha ripensato. In tutti i Paesi Ue gli agricoltori pagano le tasse in base ai loro redditi reali.

Redditi in crescita

Se si esclude il 2020, quando c’è stata una battuta d’arresto a causa del Covid, a partire dal 2013 il reddito medio per agricoltore nella Ue è cresciuto. Nel 2021, secondo i dati della RICA (rete d’informazione contabile agricola), ammontava a 28.800 euro. Dentro c’è un 10% di aziende agricole con un reddito superiore a 61.500 euro e un 10% fatica a raggiungere il pareggio (con in media meno di 800 euro per lavoratore). Tra i Paesi Ue ci sono differenze significative: Danimarca, Germania nord-occidentale, Olanda e Francia settentrionale vantano i redditi per lavoratore più elevati mentre in Romania, Slovenia, Croazia e Polonia orientale sono più bassi. In Italia la media arriva a 36 mila, con le regioni del Nord a quota 40 mila.

Gli aiuti straordinari

Nel periodo 2014-2023 Bruxelles ha stanziato 500 milioni per aiutare i produttori di frutta e verdura fresca colpiti dal divieto russo sulle importazioni dall’Ue; 800 milioni per stabilizzare il mercato lattiero-caseario e sostenere il reddito complessivo degli agricoltori per far fronte alle perturbazioni del mercato; 450 milioni per sostenere il settore vitivinicolo di fronte agli impatti del Covid e alle sanzioni commerciali; 500 milioni per sostenere i produttori più colpiti dalle gravi conseguenze della guerra in Ucraina e 156 milioni per gli agricoltori di Bulgaria, Ungheria, Polonia, Romania e Slovacchia, i paesi più colpiti dall’aumento delle importazioni di cereali e semi oleosi dall’Ucraina; 330 milioni per gli agricoltori di 22 Paesi che hanno visto aumentare i costi di produzione e subito l’impatto di eventi meteorologici estremi.

Il dialogo mancato

Le ragioni di un malessere così diffuso sono tante e complesse, ma è troppo facile dire che tutte le colpe sono da addossare alle politiche europee o ai singoli governi.

La politica, che ora sta strumentalizzando le proteste in corso, dovrebbe invece mettere in campo le competenze migliori per trovare soluzioni praticabili. Significa conoscere il settore e confrontarsi con esso. Lo ha riconosciuto anche la presidente von der Leyen: «Per andare avanti sono necessari più dialogo e un approccio diverso». Poi però tutti devono fare la loro parte e non dire solo dei «no».                

 ( dataroom@corriere.it )

 

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