3 marzo 2020

La pace impossibile di Trump in Afghanistan


Il presidente americano è ottimista rispetto ad un accordo con i Taliban. Accordo però che rischia di far ripiombare il paese nel caos. E di fornire a Trump un argomento per le elezioni di novembre.



di  Beniamino Natale *

Anticipo subito la conclusione di quest’articolo. Le probabilità che il piano di pace di Donald Trump per l’Afghanistan funzioni sono di molto poco superiori allo zero. Questo, se si ritiene che lo scopo sia quello di arrivare ad un Afghanistan pacifico, nel quale tutte le minoranze abbiano garantiti i loro diritti e le cui istituzioni, se non proprio democratiche, siano almeno improntate ad un Islam moderato e di larghe vedute. Se invece, come sospetto sia per il presidente americano e i suoi collaboratori, il successo è misurato esclusivamente dal ritiro dei soldati americani – in modo che lo stesso Trump, nella campagna elettorale, possa dire di aver mantenuto almeno una delle promesse fatte ai suoi elettori – il discorso cambia.
Partiamo dai Taliban: sono cambiati, sono moderati, sono pronti a fare concessioni, eccetera, eccetera. Questo è quello che dicono loro stessi e i sostenitori americani del processo di pace. Difficile crederlo. Lasciando da parte la credibilità dei Taliban stessi – sulla quale, direi, i dubbi sono legittimi – i Taliban non sono mai stati un gruppo indipendente. Sono nati e cresciuti per volontà dell’esercito pakistano, che ancora li finanzia e li guida. Un esercito che non ha mai rinnegato la teoria della cosiddetta “profondità strategica”. Vale a dire che, per la sua “sicurezza”, il Pakistan deve controllare l’Afghanistan. Questa sciagurata teoria, che a mio parere non ha fondamento nella realtà – la sicurezza del Pakistan dipende prima di tutto dalla sua capacità di avere buone relazioni con i vicini – è nata molti anni fa, ai tempi della jihad contro gli invasori sovietici. Quella guerra, voluta e finanziata da tutto il mondo – Stati Uniti, Cina, Europa, paesi arabi, ecc. – fu gestita dall’esercito di Islamabad che usò i mujaheddin, buona parte dei quali si convertirono poi in Taliban sotto la guida del torvo mullah Omar, amico e alleato del leader terrorista responsabile del 9/11, lo sceicco Osama bin Laden (che, ricordiamo, fu ucciso dai navy seals americani in un rifugio in territorio pakistano, che con tutta probabilità era noto da anni ai militari pakistani).

L’invenzione dei Taliban si deve ai cervelli dell’esercito pakistano, come l’ex-capo dei servizi segreti militari Hamid Gul e l’ex-generale ed ex-ministro degli interni Nasirullah Babar. Il loro ragionamento fu semplice: nel mosaico etnico dell’Afghanistan, i pashtun sono l’etnia più numerosa e storicamente dominante. Per mettere fine al caos, alla sanguinosa guerra civile seguita al ritiro dei sovietici era necessario creare una forza militare in grado di soverchiare tutti gli altri gruppi di guerriglieri tribali, come i tajiki di Ahmad Shah Massoud, gli uzbeki di Rashid Dostum, gli hazara di Karim Khalili. Ed ecco che miracolosamente appaiono i Taliban. Pashtun – come i milioni di pashtun che vivono in Pakistan -, bravi combattenti ma pessimi politici, che possono essere con facilità “guidati” dal Pakistan. Il gioco è fatto fino a quando i Taliban non scoprono lo “sheik” Osama e quest’ultimo non organizza gli attentati alle Torri Gemelle con tutto quello che ne è seguito.

Alcuni dei protagonisti della storia che ho sommariamente raccontato qui sopra – come Hamid Gul, Nasirullah Babar, il mullah Omar e Osama bin Laden – sono morti. Ma altri – come Rashid Dostum e Karim Khalili – sono vivi. E quelli scomparsi hanno dei successori che non sembra si discostino dalle loro idee di fondo. Uno degli attuali leader dei Taliban, Sirajuddin Haqqani, figlio di uno degli eroi della jihad anti-sovietica, ha scritto in un articolo pubblicato dal New York Times, che saranno “consultazioni tra gli afghani” a decidere che tipo di governo si installerà a Kabul dopo il ritiro delle “truppe straniere” – cioè americane e alleate – dal paese. Questo mentre il mondo, per così dire, “istituzionale” dell’Afghanistan è diviso tra i sostenitori del presidente rieletto Ashraf Ghani e quello del suo concorrente Abdullah Abdullah, che ha affermato di non riconoscere i risultati delle elezioni presidenziali e che, di conseguenza, ritiene di essere lui il “vero” presidente dell’Afghanistan.

Troppo facile prevedere che la guerra civile riprenderà con forza. Il Pakistan non intende rinunciare al diritto, che si è auto-attribuito molti anni fa, a controllare l’Afghanistan garantendosi così la “profondità strategica”. I sostenitori degli altri gruppi – l’Iran, l’India, le repubbliche ex-sovietiche, la Russia – riprenderanno a finanziare e ad armare i gruppi a loro fedeli – cioè quelli che possono impedire ai Taliban, ai pashtun e ai pakistani – di assumere il controllo totale del paese. Riprenderanno a combattere. Ognuno usando la sua milizia locale, perché i tentativi di creare un “esercito nazionale” afghano, basato su una “coscienza nazionale” afghana sono miseramente falliti. Non credo che siano molti gli afghani che si sentono rappresentanti dal governo di Kabul e dai suoi protettori stranieri. L’identità e le fedeltà di ciascuno sono determinate dall’appartenenza ad una famiglia, ad una tribù, ad un’etnia. L’unica possibilità di ricreare uno Stato afghano unitario era affidata al ritorno del popolare re Zahir Shah (morto nel 2007) e della sua famiglia. Questo non è stato possibile perché i gruppi tagiki che hanno aiutato gli americani nella guerra contro Osama bin Laden e i Taliban sono repubblicani. Amen. 
Il risultato è comunque che non esiste un esercito afghano in grado di opporsi ai Taliban sostenuti come sempre dai militari pakistani. Non c’è lotta. Solo le varie milizie etniche, qualsiasi nome le venga dato, possono bloccare Islamabad nella ricerca del dominio totale sul paese. E quelle milizie, guidate da vecchi o nuovi “signori della guerra”, torneranno presto sulla scena. Un brillante ritorno alla casella numero uno, all’Afghanistan abbandonato nel caos dalle “truppe straniere”, allora sovietiche, oltre trent’anni fa. Ben fatto, Donald!

* da www.ytali.com , 23 febbraio 2020

 Beniamino Natale si occupa di Asia dalla fine degli anni Settanta Dal 1992 al 2002 è stato corrispondente dell’ ANSA da New Delhi. In questo periodo ha stretto un’amicizia con Tiziano Terzani, col quale ha condiviso una serie di importanti esperienze professionali e umane, tra cui la copertura della guerra in Afghanistan del 2001. Ha scritto tre libri: "L'Uomo che Parlava coi Corvi" e "Apocalisse Pakistan" (con Francesca Marino), e "Cina, la Grande Illusione", pubblicato online. Dall’inizio del 2016 vive a Hong Kong.

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