Parley for the
Oceans. Un
nome che così com’è non ci suona familiare e che, se lo traduciamo in italiano
con un generico “Spazio di discussione per gli Oceani” ci lascia intravedere il
focus principale, ma poco altro. Diverso è se diciamo che si tratta di una community
di “ambientalisti creativi” che ha recentemente sottoscritto un partenariato
con una ben più nota azienda: Adidas. Per quale ragione? Per concepire
una nuova sneaker, quasi interamente prodotta da riciclo di rifiuti in
plastica e reti da pesca recuperati dagli Oceani.
Conosciamo purtroppo bene, e ne abbiamo già parlato
anche noi di Unimondo, il grave problema dell’inquinamento dei nostri mari
dovuto agli scarti delle attività umane. Abbiamo sentito parlare delle plastic island, abbiamo visto gli effetti provocati sulla fauna marina, abbiamo provato a
calcolare che cosa significhino più di 20 tonnellate di frammenti di plastica
che galleggiano nelle acque del pianeta e… ribadiamo ancora una volta la
gravità del fenomeno legato, ahinoi, anche alla pesca. Le reti utilizzate
per operazioni a strascico, infatti, oltre a rappresentare un serio pericolo
per l’ecosistema marino e per molte specie a rischio (tartarughe, delfini,
etc.), disturbano il delicato equilibrio dei fondali e costituiscono anche una
significativa minaccia dal punto di vista dell’inquinamento. Ecco quindi la
scelta di riutilizzarne gran parte riciclandone le fibre e recuperando, grazie
all’aiuto di Sea Shepherd,
circa 72 chilometri di tramagli che i “pastori del mare” hanno
raccolto mentre erano da più di 110 giorni sulle tracce di pescatori di frodo ricercati dalla polizia,
mentre li stavano inseguendo lungo le coste dell’Africa occidentale: quando la
barca dei “predatori” è affondata, gli attivisti li hanno salvati e… consegnati
nelle mani delle autorità.
Dalle reti sono nate fibre ricilate che andranno a
costituire, proprio con la collaborazione di Adidas, un paio di sneakers
completamente sostenibili. L’azienda era stata infatti, insieme ad altri
nomi illustri dell’industria dello sport come Nike e Puma, accusata da Greenpeace di contribuire in maniera
significativa all’inquinamento del pianeta, utilizzando sostanze tossiche
per la produzione dei loro prodotti. La speranza è quindi che questo sia da
parte di Adidas un passo necessario nella giusta direzione, anche se, per
adesso, nessun paio di questa nuovo modello è stato prodotto, ma si è solo
strappata la promessa che le fibre derivanti dal riciclo delle plastiche marine
dovrebbero entrare nel ciclo della produzione dall’inizio del 2016.
Sul sito l’attenzione punta alla sostenibilità per quanto riguarda il riciclo delle proprie calzature dismesse, ma ora sembra
approfondire l’impegno anche nelle prime fasi della catena di assemblaggio:
la parte superiore della calzatura, quella morbida, sarà infatti completamente
“lavorata a maglia” utilizzando le reti di riciclo, compresi fili e fibre, e
l’aspirazione è quella di realizzare l’intero processo senza produzione di
rifiuti.
Non si tratta quindi solo di riciclo e riuso, che pure
sono e rimangono ottime ragioni da considerare nelle fasi sia di costruzione
che di acquisto delle calzature. Si tratta anche di evitare la produzione del
rifiuto plastico che, per essere smaltito, chiede il tempo di circa 450 anni.
Una scarpa da ginnastica che, dunque, nel gergo della moda si chiamerebbe concept
shoe e che non si esclude possa essere il prodotto di lancio di una linea completa che includa
anche magliette, pantaloncini e altri indumenti sportivi.
Che un’azienda come Adidas abbia virato la rotta verso
prodotti più sostenibili e interessanti da un punto di vista di materie prime
utilizzate fa ben sperare: certo, non si raggiungono ancora i livelli del
marchio Patagonia,
per citare l’esempio più significativo, ma speriamo che sia solo una questione
di tempo. Ripulire gli oceani non significa solo proteggere numerosi ecosistemi
interconnessi, ma vuol dire anche impegnarsi per una migliore redistribuzione
delle risorse alimentari, per lavori che rispettino i diritti di chi li compie
e per il sostegno delle economie locali.
Fonte: Unimondo.org 9 settembre 2015
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