10 gennaio 2025

Iran: Le donne curde a Evin pagano il prezzo più alto

 «Donne, vita, libertà» contro la repressione. Moradi, Azizi e Jalalian, dopo confessioni estorte, sono state condannate a morte

di Ester Nemo *

Dalle proteste del 2022 in seguito all’omicidio di Masha Amini da parte della polizia morale iraniana la popolazione carceraria nel braccio femminile della prigione di Evin è in aumento costante. Impossibile ottenere dati specifici su quante donne siano al momento detenute nel carcere dove la giornalista italiana Cecilia Sala è rinchiusa dal 19 dicembre, ma è certo che la risposta della repressione iraniana alle enormi manifestazioni di piazza condotte al grido in lingua curda di «Jin, jiyan, azadi» («Donna, vita, libertà») è stata procedere con numerosi arresti esemplari per scoraggiare un movimento rivoluzionario femminile partito dal Kurdistan in grado di aggregare in Iran decine di migliaia di donne.

Le attiviste curde in questo contesto soffrono di una somma di discriminazioni letale: sono donne, sono politicamente e socialmente attive e appartengono a una minoranza etnica che, assieme a quella del Balocistan, è tra le più represse del panorama iraniano. Sono tra le donne con più difficoltà ad avere accesso all’istruzione e a vedere i propri diritti fondamentali rispettati sia in libertà sia, soprattutto, nelle istituzioni carcerarie come quella di Evin.

Un dossier recentemente stilato dall’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia (la onlus Uiki) fa luce sulla storia e sulle condizioni carcerarie di tre tra le tante donne curde attualmente rinchiuse nella prigione di Evin: Verishe Moradi, attivista arrestata nel 2023; Pakshan Azizi, assistente sociale e femminista arrestata nell’agosto del 2023; e Zeinab Jalalian, attivista arrestata nel 2008. Tutte e tre sono state condannate alla pena di morte.

L’iter giudiziario di Moradi, Azizi e Jalalian segue un copione comune a centinaia di donne arrestate dalle autorità iraniane: accuse gravissime – «diffusione di propaganda» o «ribellione contro il governo» – formulate senza prove, niente accesso tempestivo a legali, confessioni fasulle estorte con torture fisiche o psicologiche.

Il caso di Moradi è emblematico: arrestata nell’agosto del 2023, ha potuto incontrare il proprio avvocato solo al termine della fase di interrogatorio in cui, secondo quanto riporta Uiki, è stata costretta a rilasciare una confessione scritta sotto minaccia e pressioni psicologiche. Confessione poi usata contro di lei in tribunale.
Secondo il Kurdistan human rights network (Khrn), poco dopo l’arresto Moradi è stata portata nel carcere di Evin, dove per cinque mesi è stata rinchiusa in una cella in isolamento. Dal maggio del 2024, sempre secondo Khrn, le autorità carcerarie non le permettono alcuna visita di amici o familiari.

Nel novembre del 2024 il Tribunale rivoluzionario di Teheran l’ha condannata a morte nonostante Moradi abbia più volte dichiarato che le accuse contro di lei erano infondate e che la sua confessione era stata estorta sotto costrizione.

La sua condanna ha portato a numerose proteste e scioperi della fame sia in Iran sia all’estero e ha spinto numerose organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty international, a chiederne immediatamente la revoca.

nella foto: Una donna nel carcere di Evin     * da il manifesto – 31 dicembre 2024

                                                               *

Iran : Confermata la condanna a morte per l’attivista curda Pakhshan Azizi

Continua la repressione della dissidenza nella Repubblica islamica. Pena capitale ad Azizi confermata dalla Corte suprema mentre Cecilia Sala veniva liberata

di Francesca Luci *

La cella, la piccola finestrina in alto, il raggio di luce, l’insonnia, l’auto-rimprovero e quel martellio del pensiero, diventeranno un ricordo nella memoria di Cecilia Sala. Il carcere di Evin rimarrà là, imponente, con i suoi abitanti, con le loro storie e dolori, con centinaia di intellettuali, scrittori, giornalisti, artisti e attivisti colpevoli delle loro idee, col grigio del carcere che tenta di sbiadirne i colori. Per loro il dramma si consuma anche dopo la liberazione: rinunciare o rischiare di tornarci. Chi abbandona il paese salva la voce ma porta con sé la ferita del taglio delle radici, che non si rimarginano mai.
I molti attivisti e giornalisti iraniani gioiscono insieme all’Italia per la liberazione di Cecilia Sala, ma sanno che la strada per l’affermazione della libertà di parola e di opinione nel loro paese è lunghissima e piena di insidie. Scrivere sull’Iran e sulla Repubblica islamica non è mai stato facile, né per chi risiede nel paese né per chi non si accontenta di rimanere dietro la sua scrivania e osservare il paese da lontano. Per fortuna, nonostante tutto, nel panorama dell’informazione e dell’arte iraniana palpitano numerosi talenti che fanno salti mortali per conservare la loro integrità morale, essere critici e onesti senza cadere nella rete della censura del sistema.

Ma alcuni rischiano di non tornare più. Quando Cecilia Sala lasciava il carcere di Evin dopo 21 giorni di prigionia, arrivava la notizia che la Corte suprema aveva confermato la condanna a morte di Pakhshan Azizi, attivista per i diritti delle donne e assistente sociale. Azizi era stata condannata dal Tribunale rivoluzionario di Teheran il 24 luglio con l’accusa di «ribellione armata contro lo Stato» e per il suo coinvolgimento in gruppi di opposizione al regime. L’accusa di appartenenza ai gruppi separatisti curdi o beluci è ripetutamente utilizzata dai tribunali iraniani per non provocare empatia tra la popolazione.
Azizi, nata a Mahabad, nell’Iran nord-occidentale, fu arrestata per la prima volta nel 2009 durante una manifestazione di protesta degli studenti curdi dell’Università di Teheran contro l’esecuzione di un prigioniero politico curdo. Dopo quattro mesi di detenzione fu rilasciata su cauzione. All’epoca era una studentessa di scienze sociali presso l’Università Allameh Tabatabai di Teheran. In precedenza aveva collaborato con associazioni non governative attive nel campo sociale e in quello delle problematiche relative alle donne.
Nel 2008 faceva parte di un gruppo che conduceva ricerche e studi sul tema della «circoncisione femminile». Insieme a un gruppo di attivisti per i diritti delle donne nel Kurdistan iracheno, e in collaborazione con alcune ong e il governo della regione del Kurdistan, raccoglie informazioni significative su questo tema. Si trasferì nel Kurdistan iracheno dopo aver completato gli studi e iniziò a collaborare con associazioni femminili coinvolte nelle attività sociali. Nell’autunno del 2014 si recò nel nord della Siria, nella città di Qamishli, per prestare aiuto nei campi dei rifugiati, assistendo donne e bambini traumatizzati.

Nell’estate del 2023, dopo circa dieci anni, tornò in Iran per incontrare la sua famiglia. La mattina del 5 agosto fu arrestata insieme al padre e a altri due membri della sua famiglia. Fu sottoposta a interrogatori presso l’intelligence detention center prima di essere trasferita al reparto 209 della prigione di Evin e successivamente al reparto femminile. In una sua lettera pubblicata dai media Kurdpa riferì che le avevano legato le mani dietro la schiena e le avevano puntato un’arma alla testa.
Nessuna delle obiezioni sollevate riguardo al suo caso ha ricevuto attenzione dalla Corte suprema, scrive l’avvocato dell’attivista Reisiian: «La Corte non ha preso in considerazione che le sue attività nel nord della Siria, nei campi dei rifugiati di Shengal e in altri campi dei rifugiati della guerra contro Isis, sono state azioni pacifiche, senza alcun aspetto politico, finalizzate ad aiutare le vittime degli attacchi di Isis», conclude l’avvocato.
Il premio Nobel per la pace Narges Mohammadi, in congedo per malattia dal carcere di Evin, ha scritto sul suo account Instagram: «Con l’esecuzione di una “donna prigioniera politica” il regime vuole punire il movimento di Donna, Vita, Libertà. Gli iraniani, i sostenitori della libertà in tutto il mondo, le organizzazioni internazionali per i diritti umani e le Nazioni unite devono unirsi contro la politica delle esecuzioni. È nostro dovere non rimanere in silenzio».

nella foto: Pakhshan Azizi

* da il manifesto – 10 gennaio 2025

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