( edizioni Lindau, Torino 2015
Recensione di Andrea Colombo ) *
Recensione di Andrea Colombo ) *
Wendell Berry è uno strano scrittore contadino. Abituato
a ragionare di sementi, terre da arare e concimi, ha tuttavia l’aspetto del
raffinato professore universitario. Dice di sé: «Ho coltivato da scrittore e
scritto da agricoltore». La casa editrice Lindau ha mandato alle stampe un
libro che contiene il succo della sua filosofia: una raccolta di saggi
intitolata La strada dell’ignoranza. Leggendolo, si scopre che il suo è un
pensiero con solide basi nella tradizione statunitense, da Jefferson a Thoreau.
Si definisce infatti un «autentico patriota» e difende i valori rurali di
un’America in via d’estinzione. Il suo ecologismo radicale non ha nulla a che
fare con gli slogan modaioli dei patiti del web. Berry non usa neanche il
telefono, figurarsi internet. Allo stesso tempo non è un reazionario che
vorrebbe restaurare un mondo scomparso. È al contrario, come molti americani,
un pragmatico che intende salvare la terra dall’autodistruzione, attraverso
metodi semplici, partendo dal basso, riformando prima di tutto la propria vita.
E così ha fatto: nel 1964 ha lasciato New York e, messa tra parentesi una
brillante carriera universitaria, si è trapiantato con la moglie in una
fattoria del Kentucky, in un paesino battezzato pascalianamente Port Royal.
Oggi, a 81 anni, è visto come il profeta della
decrescita felice. Dapprima solitario combattente contro le multinazionali e
l’industrializzazione selvaggia, nascosto nella profonda campagna americana, si
è ritrovato poi in ideale compagnia con i tanti ecologisti che negli ultimi
decenni hanno lottato per la salvaguardia del pianeta. E così sono arrivati i
riconoscimenti e la fama (non richiesta): nel 2013 è stato premiato da Obama
con la National Humanities Medal; il suo manifesto, «mangiare è un atto
agricolo», ha ispirato innumerevoli iniziative e movimenti, fra cui Slow Food;
due settimane fa la National Book Critics Circle Awards, il Nobel statunitense
per la letteratura, ha annunciato che gli consegnerà il premio alla carriera.
Come se non bastasse Robert Redford sta girando un film documentario su di lui.
Eppure non è una star: è rimasto restio a concedere interviste o apparire in
tv, preferisce la musica dei ruscelli e dei boschi al chiasso delle metropoli e
al clamore dei mass media. Il suo pensiero è a tratti apocalittico. Denuncia
infatti un progresso che, credendosi illimitato, ha creato deforestazioni e
deserti, anche spirituali. Berry paragona la devastazione dell’agricoltura
statunitense all’Olocausto: «Le comunità rurali, le economie e gli stili di
vita americani che prosperavano nel 1945, e che, pur imperfetti, erano pieni di
promesse per un autentico insediamento umano nella nostra terra, sono ormai
state di fatto spazzate via come le comunità ebraiche della Polonia: i mezzi di
distruzione forse non sono stati così vistosamente spietati, ma si sono
dimostrati altrettanto efficaci».
Che fare dunque? Per evitare di perseguire a tutti i
costi una crescita smisurata che ormai equivale all’autodistruzione, Berry è
certo che se l’uomo ritorna alla terra, cioè al fondamento dell’esistenza, non
tutto è perduto. Prodotti locali venduti a chilometro zero, rispetto delle aree
verdi, limitazione dei grandi centri commerciali, sono solo alcune fra le
ricette che propone e che potrebbero rivoluzionare il nostro modo di produrre,
consumare e pensare. Per cambiare rotta ci vuole «una ribellione pacifica»,
fondata su una filosofia «agrarianista», che «nasce dai campi, dai boschi e dai
torrenti». Non si tratta di un romantico e idilliaco ritorno alla natura:
avendo ampia esperienza di lavoro nei campi, Berry sa che molte insidie e
difficoltà si celano in un creato non sempre amico dell’uomo. Ma se non si
rispetta l’ambiente, per Berry tutto è perduto, anche il benessere apparente
delle città. Da questa visione sono scaturiti diversi romanzi, come Un posto al
mondo e Hannah Coulter, saghe famigliari che richiamano la grande narrativa
degli scrittori del Sud come William Faulkner. Ambientati a Port William, che
altro non è se non un nome di fantasia dato alla sua Port Royal, vogliono
dimostrare che un altro mondo è possibile, e che, cambiando i modelli
produttivi e di consumo, si può ancora non solo salvare la terra, ma recuperare
un sano spirito di comunità e di identità locale.
* da La Stampa 7 febbraio 2016
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