di Vincenzo Martino *
Sono passati
ormai due anni dal decreto
Poletti, primo
capitolo del Jobs Act con il quale è stato liberalizzato il ricorso ai
contratti a tempo determinato. Da allora il diritto del lavoro italiano è stato
riscritto e completamente destrutturato. In attuazione della legge delega
n. 183/2014, sono stati emanati dal governo ben otto decreti legislativi
delegati, con i quali tra l’altro:
- è stato
pressoché abolito
l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori per gli assunti con contratto a tutele crescenti
(cioè tutti gli assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015), i quali
non potranno praticamente mai essere reintegrati nel loro posto di lavoro in
caso di licenziamento illegittimo;
- è stato
introdotta in molti casi la possibilità
di demansionare il dipendente;
- è stato
legittimato il controllo
a distanza sugli strumenti di lavoro, prevedendo anche l’utilizzabilità a fini disciplinari
dei dati raccolti.
Le norme su
demansionamento e controlli a distanza si applicano non solo ai nuovi assunti,
ma a tutti e da subito. Non si può certo dire, dunque, che il governo
Renzi non abbia fatto le riforme. Il problema è: come le riforme sono
state fatte? Gli obiettivi propagandati dal governo erano quelli di
creare nuova occupazione e di combattere il precariato. Quanto al primo
obiettivo, i dati ci dicono che, al formidabile aumento di potere attribuito al
datore di lavoro, non si è accompagnato un significativo
aumento dell’occupazione complessiva.
E dire che
il governo è stato generosissimo con le imprese, regalando incentivi a
pioggia. La decontribuzione è già stata peraltro ridotta: quando cesserà
del tutto l’effetto boomerang sarà inevitabile. Quelle ingenti risorse potevano
dunque essere meglio impiegate. Anche il secondo obiettivo, quello di
limitare il ricorso a forme di lavoro precario, sembra essere destinato ad un
flop clamoroso. Già il contratto a tutele crescenti, per come è strutturato,
costituisce esso stesso una sorta di ossimoro negoziale: è un contratto
stabile e precario nello stesso tempo.
Ma i dati
confermano nel contempo la tenuta delle assunzioni a termine e l’esplosione del lavoro
accessorio, forma estrema di precariato. Se a ciò si aggiunge la scarsità di risorse
destinate agli ammortizzatori sociali, si può tranquillamente affermare che la flexsecurity
in salsa nostrana è ben lontana dai modelli nord europei ai quali si è finto di
ispirarsi.
Preso atto della gravità dell’attacco ai diritti dei
lavoratori, la Cgil non si limita a protestare, ma finalmente formula una
propria autonoma proposta di nuovo Statuto del lavoro.
Si tratta di
una proposta molto complessa e ambiziosa, composta di ben 95 articoli (qui
il testo integrale) destinata
a divenire una proposta di legge di iniziativa popolare dopo la
consultazione di cinque milioni di iscritti, ai quali in queste settimane viene
richiesto il mandato per sostenerla anche con specifici quesiti
referendari. Il testo, molto articolato anche perché vuol dare una
risposta all’altezza dei tempi, si compone di tre parti.
Il titolo I
sancisce diritti dei lavoratori a portata universale, configurabili in gran
parte come diritti di cittadinanza, che valgono per tutti a prescindere
dalla natura subordinata, parasubordinata ovvero autonoma del rapporto. Si
tratta di norme tendenzialmente precettive, che garantiscono il diritto ad un lavoro
dignitoso; ad un compenso equo e proporzionato; a condizioni ambientali sicure;
al riposo ed alla conciliazione tra vita professionale e familiare; alla non
discriminazione ed alle pari opportunità tra generi; alla riservatezza ed
all’informazione; a forme di tutela assistenziale e pensionistica; ed altri
diritti ancora.
Nel titolo
II, destinato al diritto sindacale, si affronta finalmente la storica questione
della piena attuazione dell’art. 39, seconda parte, della Costituzione, al fine
di restituire centralità ed effettività alla rappresentanza sindacale e nel
contempo di garantire l’efficacia generale (erga omnes) della
contrattazione collettiva.
Nel titolo
III , infine, si ripristinano i diritti cancellati o ridotti in questi anni, a
cominciare dall’apparato sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo, nella
cui disciplina riacquista piena centralità la reintegrazione nel posto di
lavoro.
Un progetto
ambizioso e di lungo respiro, dunque, che speriamo abbia le gambe per
marciare. Ci sarà certo chi dirà che si vuole ritornare al passato: ma è
indice di modernità togliere i diritti, incentivare la precarietà e
l’insicurezza, dare il via libera ad ogni possibile abuso da parte delle
imprese? Ed inoltre: è servito a qualcosa?
* Avvocato
giuslavorista, vice-presidente di AGI, Avvocati Giuslavoristi Italiani. Da numerosi
anni opera a Torino in difesa dei diritti dei lavoratori.
di Area pro labour (Giuristi per il lavoro ) - 10
febbraio 2016
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