21 gennaio 2016

Frammenti di riflessione politica per il nuovo anno



di Giovanni Chiambretto e Massimo Marino

Nuove guerre, vecchi conflitti. Con le guerre ci guadagnano tutti

Un fatto nuovo, fra i tanti della crisi del pianeta, è questa curiosa inedita epoca dello scontro armato: fino a ieri si scontravano due antagonisti, due nazioni, due etnie, due tendenze politiche o religiose che, se potevano, aggregavano alleati e supporters. Oggi, su vecchi conflitti proliferano nuove guerre, ma gli antagonisti sono tre o quattro. Come se sul ring salissero quattro boxeurs che se la dessero di santa ragione ciascuno contro gli altri tre. Il pubblico non riesce a rendersi conto di cosa succede, anche perché a poche centinaia di chilometri di distanza, gli stessi attori manifestano antagonismi diversi.
Naturalmente non esiste più il monopolio degli stati nazionali nell’uso sistematico della violenza. Gli attori possono sempre essere stati nazionali, ma anche gruppi etnici, correnti religiose, organizzazioni politiche o gruppi economici.  Progressivamente sono accantonate le norme classiche di comportamento in guerra:  la crudeltà e la barbarie sono un corollario ormai consueto ( ad esempio gli stupri di massa e il ripristino dello schiavismo, precursori moderni i giapponesi in Cina ) ma ci sono anche vere innovazioni mediatiche come le decapitazioni  con accompagnamento hip-hop a sfondo religioso.

Pensavamo che con la fine della guerra fredda si aprisse un era di pace. Invece negli ultimi 100 anni , dal 1915 ad oggi, le guerre non sono mai  cessate : sono solo cambiati modi, luoghi e protagonisti: prima le due guerre mondiali ( 17 e 70 milioni di morti ), poi due grandi guerre regionali : Corea nel 1953 ( 2,8 mil. di morti ) e Vietnam nel 1960-75 ( 7 mil. di morti ). 
Finita la guerra fredda guerre diluite nello spazio e nel tempo,  compresa la pulizia etnica e i movimenti armati a sfondo religioso e/o tribale. Fra queste Hutu e Tuczi in Ruanda nel 1994 ( 1 mil di morti ), guerre nella ex Jugoslavia  del 1992-95 ( 200mila morti ) , le quattro guerre arabi-israeliani dal 1948 al 1973 e la diaspora palestinese che permane irrisolta ( almeno 30mila morti ) , la guerra siriana e anti jihadisti in corso dal 2011, quasi 300mila morti di cui almeno 40mila nelle file di Isis e affini. Almeno altrettanti in Irak ( 3-400mila morti fra il 2003 e il 2011 ) e ancora l’Afghanistan dal 2001 ad oggi ( almeno 150mila morti ). Con il tempo la componente civile fra i morti è sempre più all’evidenza. Per completare il quadro vanno aggiunti ovviamente milioni di feriti e invalidi e decine di milioni di profughi permanenti , cioè che hanno definitivamente persa la propria abitazione e residenza originaria. 
 
La rappresentazione mediatica che ci viene proposta delle crisi  è talmente semplificata e banalizzata da rendere incomprensibile la dinamica di ciò che si svolge quotidianamente sotto i nostri occhi. Chi sta facendo davvero la guerra all’Isis ? E con quali obiettivi ? La prima domanda che andrebbe fatta è: dove si prendono così tanti soldi, armi, volontari per tutte queste guerre? E chi sono i destinatari ultimi di tutti questi soldi ?   Ricordiamo a mo’ di esempi come ci sono state  spiegate le cause delle guerre in Vietnam, in Iraq, in Afghanistan, in Libia.  Non è facile dire se i giornalisti lo fanno apposta o proprio non ci arrivano loro stessi a capire cosa succede. Naturalmente ci sono anche giornalisti più capaci, spesso sono messi a lato, a volte anche eliminati. 

Altre osservazioni vanno fatte a scopo di riflessione generale:
In tutto il dopoguerra e fino ad oggi il ruolo dell’ONU nel mantenere la pace è stato scarso , deludente, sostanzialmente impotente; mentre il ruolo dei principali paesi che formalmente ne fanno parte, specie quelli occidentali, al di qua e al di la dell’Atlantico è quasi sempre stato rilevante nei conflitti: o complice o responsabile o volutamente indifferente. Come indifferente è in genere il colore politico dei governanti coinvolti , ad esempio fra conservatori e socialdemocratici in Europa ( da Blair a Cameron , da Sarkozy a Hollande, da Berlusconi a Renzi ) nell’affrontare le crisi.
Fra le cose taciute la più importante è il retroterra economico di questo caos. Spesso , quasi come battuta scontata, si parla del petrolio. Non siamo in grado di renderci conto in maniera compiuta di questo retroterra proprio per il silenzio tombale che avvolge questo argomento, ma qualche spunto c’è. Il giro d’affari che ruota attorno alle guerre  (petrolio, ma anche noli, armi, munizioni, vestiario, attrezzature, stipendi dei combattenti, pensioni alle vedove, rapimenti, etc.) non è quantificabile con certezza ma è enorme e duraturo se le guerre durano. Il sistema di approvvigionamento di contante, garanzie di pagamenti, cambi di valuta, trasferimenti e distribuzione dei fondi, contabilizzazioni, assicurazioni, non possono che essere gestiti dal sistema bancario nel suo insieme. La guerra richiede una infrastruttura finanziaria abbastanza sofisticata ed affidabile, per vendere e comprare di tutto, armi, vettovagliamenti, carburanti... Come farà ad esempio l’Isis a dare lo stipendio mensile ad alcune decine di migliaia di combattenti, assimilabili almeno da questo punto di vista ad un enorme esercito di mercenari ai quali, come salariati, va dato lo stipendio a fine mese ?   
Quindi abbiamo l’ONU, abbiamo superato la guerra fredda e il bipolarismo, ma non abbiamo leader capaci di proporre politiche di pace nei maggiori focolai di guerra presenti da decenni.  Iniziando dal chiudere tutti i rubinetti che alimentano i belligeranti.

Concludendo abbiamo guerre di tipo nuovo, che si prolungano nel tempo senza risolvere alcun conflitto, nelle quali gli unici vincenti sono coloro che dal prolungamento delle guerre ci guadagnano sempre. Il loro colore politico, etnico, religioso non sembra molto rilevante.  

Restano pochi Stati nazionali credibili ,  molti  sono screditati o sono relitti

Fuori dal ciclone delle crisi economiche o delle avventure di guerra che li coinvolge direttamente   restano pochi  gli stati nazionali che appaiono ancora in grado di vantare regimi virtuosi e controllare le dinamiche interne in modo razionale.  Non sono in genere da prendere come esempi di regime democratico paesi pur stabili come Russia e Cina,  democrazie (?) autoritarie eredi di culture di regimi comunisti. Ne entità statali basate su forza e repressione dove  coincidono lo stato, il potere economico e quello  religioso come il noto esempio dell’Arabia Saudita  wahlabita. Non possiamo prenderli ad esempio. Il Giappone ha mostrato l’irresponsabilità dei propri governanti e delle proprie istituzioni di fronte al mondo in tutta la vicenda di Fukushima. L’India,  superata la fase gandhiana, è ancora oggi  un paese costituzionalmente suddivido in caste con diritti, privilegi e ruoli diversificati dalla nascita.  In una gran parte dei paesi asiatici, mediorientali  e africani permangono differenze sociali enormi che non sono giustificate da elementi di scarsità  delle risorse. In molti casi permane una  totale assenza di diritti, in particolare per le donne. Quasi relitti inutili di stati, invece, sono ormai Somalia, Libia, Siria, Iraq, Yemen... Tantomeno possiamo prendere questi ad esempio. Gli Stati Uniti restano in qualche modo il paese egemone nel mondo ma solo per l’enorme impegno nelle spese militari, con interventi armati o presenza diretta in decine di paesi del mondo ma con  grandi difficoltà a trovare soluzioni equilibrate neanche dopo decenni ( Palestina, Iraq, Afghanistan.. ); e con una guerra permanente in più, quella interna legata alla diffusione incontrollata delle armi, che provoca più di 30mila morti all’anno. Il sistema elettorale è demenziale e l’assenteismo cronico. Una percentuale variabile di eletti dei due unici partiti è foraggiata o direttamente espressa dalle principali lobby economiche del paese. Alla larga. 

L’Europa sembra ormai un caso da studiare per la mancanza di leader istituzionali di rilievo negli ultimi due decenni e per il desolante fallimento delle due componenti politiche, conservatori e socialdemocratici,  che si sono alternati in gran parte dell’Europa dopo la nascita e la progressiva estensione dell’Unione Europea. Fuori dall’emotività momentanea data dai risultati di questa o quella scadenza elettorale, una cosa risulta evidente: malgrado la diffusione e spesso l’imposizione di sistemi elettorali maggioritari  in buona parte degli stati europei, giustificati dal mito della governabilità a rischio ( per primi Francia, Gran Bretagna, Italia ), la sfiducia nelle istituzioni dilaga e porta spesso la metà del corpo elettorale ad astenersi, mentre i fantasiosi giochini sulle regole elettorali adottati qua e là inducono ad una sostanziale alterazione della rappresentanza. La recente riforma elettorale e quella istituzionale del governo  Renzi  bene si inseriscono in questa corrente di pensiero. Considerando che i voti espressi sono ormai mediamente quasi la metà del corpo elettorale nel suo insieme  e si ripropone sempre un forzoso bipolarismo, si può dire che difficilmente in questi paesi chi alla fine governa ha il consenso di più di un quarto del corpo elettorale. Nel caso di applicazione dell‘Italicum il sistema italiano andrebbe considerato forse il più iniquo dell’intera area europea ed uno dei più illiberali ( ma creativi)  del mondo, a prescindere anche da chi possa essere il vincitore. Che è però pressoché predefinito attraverso giravolte nelle alleanze fra i soliti partiti.

E’ utile ricordare che già negli anni ’80 erano state teorizzate ipotesi che valutavano come la democrazia potesse essere più efficiente con una minore partecipazione degli elettori. Kissinger, e da noi una attenta rilettura di Licio Gelli, si sposano con questa impostazione. L’impressione è che comincino a manifestarsi in maniera travolgente le conseguenze di processi che originano fra gli anni ottanta e novanta, dopo la crisi dell’URSS e la caduta del muro di Berlino. Caduto l’equilibrio del terrore (che era comunque un equilibrio) si sono messe in moto forze economiche e gruppi che, liberi dalla necessità di mantenere quel consenso interno e quella coesione necessari a sostenere il confronto est-ovest, hanno trovato maggiore libertà di manovra nei paesi occidentali. E’ l’epoca in cui si sviluppa una sostanziale modifica del sistema bancario mondiale con l’abolizione del Steagal Act, che era nato per contenere la speculazione,  e col favore di nuove tecnologie viene globalizzato il sistema finanziario, riformate le borse ed introdotti surreali strumenti derivati. I due  tradizionali schieramenti,  popolari e socialdemocratici, che mediavano nella fase della guerra fredda, si sono trovati impreparati , o forse addirittura inutili nella nuova situazione, pressati da lobby dallo straordinari potere corruttivo alle quali si sono totalmente affidati, angosciati dal proprio declino e dal prevedibile affondamento del sistema , anche di privilegi, in cui hanno prosperato per decenni. Diventando quindi obbligati e disponibili a qualunque cosa pur di stare a galla. E qui, se c’era, ha chiuso la sinistra europea.

Con il nuovo secolo quindi anche l’Unione Europea comincia a cambiare rotta. Sempre meno popoli solidali, sempre più burocrazia pilotata che stabilisce regole, tempi, indirizzi, all’insaputa dei popoli. Per quanto i referendum sulla costituzione europea  siano stati un fiasco per le oligarchie, nessuno ai piani alti della politica si interrogò sul senso di questo rifiuto. Seguirono i cosiddetti accordi di Lisbona che introdussero in via surrettizia molto di quello che doveva essere istituzionalizzato con la Costituzione (accordi fra governi dopo che alcuni paesi via referendum avevano rifiutato). Il processo è proseguito attraverso forzature e manomissioni dello spirito e della lettera degli accordi europei diventate oggi evidenti a tutti. Basti pensare che il cosiddetto “Eurogruppo”, che ci viene presentato dai media come una istituzione europea apicale coi suoi rituali pubblici, in realtà non esiste come istituzione, non è previsto in alcun trattato, non redige nemmeno verbali delle sue riunioni. E stiamo parlando di un’istituzione (che non c’è) che ha gestito tutti i principali passaggi della disarticolazione economica di parte dell’Europa, ultimamente  della Grecia.

Democrazia rappresentativa o diretta : e se la abolissero del tutto ?

Il senso funzionale della democrazia rappresentativa dovrebbe consistere nell’individuare un ambito qualificato di mediazione e decisione fra un numero circoscritto ma plurale di soggetti politici delegati con il voto, dove si possa tenere conto della complessità sociale e dei rapporti di forza senza dovere, per ogni scelta, scendere in piazza per fare valere i propri bisogni o diritti. Se questo spazio viene impedito, se i due terzi del corpo sociale non è rappresentato o è costretto ad un voto non libero, se interi gruppi sociali sono esclusi, non sarà più possibile una efficace mediazione, né una decisione equilibrata. Si è inventato ultimamente che se un partito non ha la maggioranza assoluta al voto, attraverso svariate regolette truccate, siamo di fronte ad una anomalia, perché la sera del voto si deve sapere chi a vinto: una barzelletta che viene ripetuta così tanto che molti ci abboccano. 

Il sistema proporzionale, con qualche limite alla frammentazione attraverso un quorum , anche sostenuto, non è un sistema fra gli altri, ma è il sistema della democrazia nel definire le forme della rappresentanza delegata dove i diversi soggetti, in base al consenso ricevuto ed ai programmi indicati agli elettori trovano le forme della mediazione. In Germania ed in alcuni altri paesi del centro-nord Europa almeno la rappresentanza formale  è ancora salvaguardata e alla fine si concordano programmi di coalizione, i partiti sono 4 o 5 in tutto. Ma l’Europa, checché si dica sul ruolo della Germania, va in altra direzione. 

Accanto alle forme di rappresentanza delegata , e non in alternativa a questa, possono essere sviluppate forme di consultazione diretta dell’intero corpo sociale ( referendum anche propositivi o consultivi accanto a quelli abrogativi) già presenti in alcuni paesi. Oltre all’uso della rete per valutare il giudizio degli aderenti alle formazioni politiche e associative con una opportuna discussione preventiva dei contenuti.
La scuola di pensiero che ritiene superabile la democrazia rappresentativa sta invece debordando dai meri aspetti elettorali dove si trucca il voto attraverso i “premi di governabilità” di vario tipo, ai ben più corposi aspetti delle garanzie costituzionali. Per citarne alcuni che per il momento hanno un impatto differenziato sui diversi stati europei: la riduzione delle garanzie legali a fronte di un problema di sicurezza interna, il ridimensionamento della tutela del risparmio a fronte della salvaguardia del sistema bancario, l’accantonamento della tutela del paesaggio contro la libertà d’impresa, il deperimento dei servizi sociali per la salute giustificata da una ambigua efficienza economica del comparto sanitario, la dequalificazione dell’istruzione pubblica in nome della concorrenza. E ultimo esempio con COP21 la derubricazione di fatto della crisi climatica a tema di seconda linea rispetto alle leggi dell’economia di mercato e degli interessi delle multinazionali dei fossili che praticamente influenzano, a suon di dollari,  parti non marginali del sistema politico in gran parte del pianeta.

Leggere il libro-mattone di Piketty sul capitale nel XX secolo è molto istruttivo. Un lavoro di ricerca gigantesco che ha spaziato dal medio evo ad oggi spulciando dichiarazioni dei redditi, successioni, bilanci statali, tassi di crescita, di inflazione, e quant’altro, certificando scientificamente quanto qualunque persona di buon senso da tempo sospetta: che il processo di concentrazione delle ricchezze in poche mani sta rapidamente riportandoci ad una situazione simile a quella dell’ancient regime precedente alla rivoluzione francese. E’ di questi giorni la stima che alcune decine di famiglie nel mondo possiedono più ricchezza di tutto il resto del pianeta. Ricordate Occupy Wall Street? Gruppi economici o addirittura singole famiglie dispongono di ricchezze pari al bilancio di una piccola nazione. E’ ovvio che la quantità si trasforma in qualità. Il controllo di banche, sistemi logistici, approvvigionamento di energia, processi industriali, brevetti, va di pari passo con una capacità di controllare o comunque influenzare in maniera decisiva parte delle istituzioni.

La crisi del vecchio sistema fa emergere nuovi protagonisti: difficile vincere se non se ne hanno i requisiti

La catastrofe del vecchio sistema fa emergere nuovi protagonisti del teatro della politica che si qualificano, in relazione alla cultura ed alla storia di ciascuna nazione, come oppositori di sinistra, di destra, ... o di altrove- come il M5S italiano. In alcuni paesi, anche importanti,  movimenti nuovi si stanno trasformando da sintomo della malattia della democrazia, in progetto di gestione alternativa dello stato. I successi elettorali sono anche consistenti e gli spostamenti di consensi non hanno precedenti nella storia del dopoguerra, segno che qualcosa si muove ed è capito dal pubblico nonostante tutto. Il radicalismo di estrema destra e di estrema sinistra a volte suonano  per un tratto le stesse note. Come si fa a essere contrari alle accuse della Le Pen francese contro gli aspetti di corruzione della casta clientelare che ha permeato l’era di Sarkozy e quella di Hollande ? E le recenti critiche da sinistra a Tsipras nei confronti della Troika ?  Potevamo non essere solidali con i ragazzi di Occupy anche se l’idea che l’1% sovrasti l’altro 99% della società può diventare una semplificazione che non coglie come una minoranza consistente e attrezzata sia capace cinicamente di costruire alleanze e soprattutto abilmente disgregare qualunque tentativo di fronte avverso?

Ma appena si gratta un po’ sotto la superficie vengono fuori i limiti: l’intolleranza e la miseria culturale delle destre estreme anche quando sono celate sotto il caschetto biondo di una quarantenne italiana o di una cinquantenne francese, così come il trasformismo e l’assimilazione alle logiche di casta che hanno ridotto ai minimi termini la sinistra cosiddetta radicale  e l’ambientalismo all’italiana.
Non troviamo nulla di attrattivo ne negli uni ne negli altri. Non c’è qui alcuna tendenza al pessimismo, c’è poco da discuterne. Per i secondi la loro irrilevanza non è una nostra opinione, è un dato di fatto evidente per chiunque, ma nessuno ne spiega il motivo.  Possiamo ormai affermare che non c’è più vita a sinistra nel nostro paese  anche perché nei pochi momenti in cui la nostra variegata sinistra all’italiana ha dato qualche sussulto  ha mostrato solo trasformismo o la propria inutilità:  da Bertinotti in poi che si auto relegò, invece di tentare di governare, a gestire i lavori della Camera prima di sparire nell’irrilevanza . Può sembrare incredibile che la recente  fuoriuscita a sinistra di alcuni esponenti del PD, ognuno dei quali ha subito costruito il suo micro partitino, ha ulteriormente frammentato e paralizzato qualunque ipotesi di autonoma costruzione politica di sinistra capace di restare fuori dalle tentazioni uliviste, invece sempre presenti,  che in realtà hanno avviato la progressiva disgregazione di qualunque sinistra alternativa. Che, almeno in Italia, sembra ormai un episodio chiuso del secolo scorso. 
   
Le aristocrazie politiche europee sono un sistema sterminato, tendenzialmente ormai autoreferenziale e sempre più contiguo ai disegni dei poteri che più contano. Non è un caso che negli ultimi anni si alleano anche fra di loro per difendersi, violino le regole, tarocchino con ogni scusa le costituzioni, alterino le forme di rappresentanza, si accaparrino mezzi economici, corrompano l’informazione, in alcuni paesi svuotino senza scrupoli le casse delle amministrazioni locali a favore di mafie e clientele. 

Quello che è ancora in gioco è la possibilità dei popoli europei di ritornare protagonisti del proprio futuro ed, al momento, questa possibilità è rappresentata dal riappropriarsi del controllo democratico dei singoli stati dal momento che hanno distorto ma non hanno ancora abolito le elezioni. Nella complessità delle società moderne non è verosimile pensare di costituire una rete di soviet o immaginare una democrazia diretta irrealistica a cui trasferire il potere conquistando un palazzo d’inverno difficile da identificare.  Gli stati nazionali attuali possono accogliere  tutti gli strumenti giuridici innovatori, una nuova legislazione credibile,  un efficiente sistema di servizi e beni comuni gestiti virtuosamente in un corretto rapporto fra pubblico e privato, una progressiva conversione ecologica stesa sull’intero assetto sociale, un sistema di tutele di cittadinanza che non lasci indietro nessuno e garantisca la sicurezza di tutti,  per controllare ed invertire questa deriva verso la legge della giungla che stiamo vivendo. Il nostro paese ha bisogno di grandi e vere riforme sociali , ambientali, istituzionali perché quelle di cui si parla, con i loro camuffamenti mediatici, sono tutt’altro.

Apparentemente ogni paese ha la sua storia e diverse, a volte opposte, appaiono le forme e i soggetti del cambiamento. In particolare in Europa i movimenti politici più interessanti che si affacciano alla storia chiedendo riforme radicali del sistema ruotano attorno a tre grandi temi:

1)    l’opposizione al sistema inefficiente e spesso corrotto delle caste della politica che hanno occupato stabilmente tutti gli ambiti della società. 

2)    la palese disuguaglianza sociale che arriva a portare ai limiti della sopravvivenza aree consistenti di popolazione perfino in paesi considerati  ricchi e che comunque lascia indietro settori sociali che perdono progressivamente tutele.

3)     la preoccupazione e la critica per la distruzione degli equilibri ambientali i cui effetti si manifestano ormai in modo evidente sulla salute e sul mutamento del clima, che impongono una generale conversione ecologica dell’intero pianeta. 

Movimenti di sinistra  e di  ambientalisti, ma anche di destra,  possono dichiararsi sostenitori, in parte più o meno larga e più o meno convincente e sincera, di questi grandi temi con i loro numerosi corollari collegati che caratterizzano le società moderne. Ma il centro del problema è la capacità di coniugare e collegare insieme questi temi in un unico e coerente progetto politico e culturale che sia compreso e sostenuto da larghe maggioranze sociali che sono indifferenti  agli schemi delle ideologie del secolo scorso.  Se si ritiene improbabile riformare  l’attuale sistema dei partiti il cambiamento richiede un movimento di liberazione che assuma l’insieme delle contraddizioni indicate e su di esse proponga un progetto che possa interessare la maggioranza della società perché viene riconosciuto più idoneo del vecchio sistema sociale per tanti . Per questo non hanno futuro movimenti di destra per quanto, sui temi dell’immigrazione e della sicurezza,  possano allargare nell’immediato la propria presenza; ma sembra anche molto improbabile che si possa rifondare una sinistra dalle macerie di tutte quelle che hanno fallito; neppure l’ambientalismo politico nato con i verdi europei negli anni ’80 ha poi adeguato la propria consistenza culturale al tempo presente. 

Tutti i movimenti che emergono dalle crisi degli ultimi anni stanno combattendo per definire il proprio essere allontanandosi poco o tanto dagli schemi del passato, gli ultimi Syriza in Grecia e Podemos in Spagna; altri che non sono stati in grado di definire un progetto duraturo sono già finiti, come i Pirati in Germania o si sono alla lunga  ridimensionati come i Verdi , con l’esemplare crisi di  Europe Ecologie quando ha sanzionato la propria alleanza con i socialisti senza risultati percepibili,  in Francia. 

E’  significativo che in Italia un consenso elettorale rilevante, del tutto anomalo nel panorama generale,  vada al M5S che ha assunto anche in modo inconsapevole tutti e tre i temi indicati nella propria azione, in parallelo con il disintegrarsi di tutte le forme di opposizione politica che hanno avuto le loro radici nei decenni passati. Proprio l’assunzione di questo insieme di temi, in gran parte espressi per frammenti dai diversi movimenti sociali dell’ultimo decennio, e la sottrazione ai tentativi strumentali di classificarlo come di estrema destra o di estrema sinistra, pone il M5Stelle in una posizione privilegiata. Quella di movimento di cambiamento moderno,  e non riducibile dentro le nicchie della destra e della sinistra estrema del secolo scorso.
Il successo elettorale e lo spazio mediatico conquistato è tanto rilevante quanto fragile. Esposto a crisi repentine non avendo fino ad oggi definito nuovi criteri di funzionamento interno adeguati alle dimensioni raggiunte ed alle aspettative, forse eccessive, di chi lo sostiene e lo vota. 

Un percorso diverso, per certi versi opposto, è quello che impegna Podemos in Spagna, ben collegato a vari  movimenti sociali recenti, con i quali ha mostrato la capacità di allearsi, ma sempre a rischio di essere riclassificato nell’alveo della vecchia estrema sinistra dalla quale in parte proviene ed in parte si è culturalmente distinto.
In evidente difficoltà a ridisegnare una propria moderna connotazione sono invece i movimenti  politicamente organizzati che facevano riferimento all’ecologismo la cui impronta genetica si è formata in particolare con i Verdi  in Germania e nel centro nord europeo degli anni 80-90. La crisi definitiva, sanzionata dopo il triennio 2009-2011, ha portato al ridimensionamento, quasi alla loro scomparsa in diversi paesi, specie dove i sistemi elettorali sono costruiti apposta per rendere difficile l’emersione autonoma di nuovi movimenti e nuove culture. E questo malgrado la problematica ecologica mantenga una forte centralità sui destini del pianeta a tutte le latitudini e si concentri alla fine nella espansione della crisi climatica come terreno su cui si scontrano tutte le differenti tendenze dello sviluppo. 

Più ci si libera dei fantasmi del passato e ci si preoccupa del futuro di tutti,  costruendo alleanze e solidarietà diffuse invece di recinti invalicabili,  più si ha la possibilità di promuovere un cambiamento condiviso. L’elenco degli atti necessari è lunghissimo: basti pensare che oggi concetti come correttezza ed onestà, interesse pubblico, efficienza, rispetto delle regole sono in realtà quasi considerati eversivi. Oppure che l’intero sistema bancario e le regole della finanza su cui ruota il pianeta andrebbero capovolte riportandole a strutture  di servizio della collettività invece che di centri di potere impenetrabili. 

Se ci concentrassimo su questi temi apparentemente invalicabili e buttassimo via tutti i ruderi arrugginiti del passato con l’occhio invece alle generazioni future, tutto diventerebbe possibile.

gennaio 2016

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