di Giovanni
Chiambretto e Massimo Marino
Nuove guerre, vecchi conflitti. Con le guerre ci guadagnano tutti
Un fatto nuovo, fra i tanti della crisi del pianeta, è questa
curiosa inedita epoca dello scontro armato: fino a ieri si scontravano due
antagonisti, due nazioni, due etnie, due tendenze politiche o religiose che, se
potevano, aggregavano alleati e supporters. Oggi, su vecchi conflitti
proliferano nuove guerre, ma gli antagonisti sono tre o quattro. Come se sul
ring salissero quattro boxeurs che se la dessero di santa ragione ciascuno
contro gli altri tre. Il pubblico non riesce a rendersi conto di cosa succede,
anche perché a poche centinaia di chilometri di distanza, gli stessi attori manifestano
antagonismi diversi.
Naturalmente non esiste più il monopolio degli stati nazionali
nell’uso sistematico della violenza. Gli attori possono sempre essere stati
nazionali, ma anche gruppi etnici, correnti religiose, organizzazioni politiche
o gruppi economici. Progressivamente
sono accantonate le norme classiche di comportamento in guerra: la crudeltà e la barbarie sono un corollario
ormai consueto ( ad esempio gli stupri di massa e il ripristino dello
schiavismo, precursori moderni i giapponesi in Cina ) ma ci sono anche vere
innovazioni mediatiche come le decapitazioni
con accompagnamento hip-hop a sfondo religioso.
Pensavamo che con la fine della guerra fredda si aprisse un era
di pace. Invece negli ultimi 100 anni , dal 1915 ad oggi, le guerre non sono
mai cessate : sono solo cambiati modi, luoghi
e protagonisti: prima le due guerre mondiali ( 17 e 70 milioni di morti ), poi due
grandi guerre regionali : Corea nel 1953 ( 2,8 mil. di morti ) e Vietnam nel
1960-75 ( 7 mil. di morti ).
Finita la guerra fredda guerre diluite nello
spazio e nel tempo, compresa la pulizia
etnica e i movimenti armati a sfondo religioso e/o tribale. Fra queste Hutu e Tuczi in Ruanda nel 1994 ( 1 mil di morti ),
guerre nella ex Jugoslavia del 1992-95 (
200mila morti ) , le quattro guerre arabi-israeliani dal 1948 al 1973 e la
diaspora palestinese che permane irrisolta ( almeno 30mila morti ) , la guerra
siriana e anti jihadisti in corso dal 2011, quasi 300mila morti di cui almeno
40mila nelle file di Isis e affini. Almeno altrettanti in Irak ( 3-400mila
morti fra il 2003 e il 2011 ) e ancora l’Afghanistan dal 2001 ad oggi ( almeno
150mila morti ). Con il tempo la componente civile fra i morti è sempre più all’evidenza.
Per completare il quadro vanno aggiunti ovviamente milioni di feriti e invalidi
e decine di milioni di profughi permanenti , cioè che hanno definitivamente
persa la propria abitazione e residenza originaria.
La rappresentazione mediatica che ci viene proposta delle crisi è talmente semplificata e banalizzata da rendere
incomprensibile la dinamica di ciò che si svolge quotidianamente sotto i nostri
occhi. Chi sta facendo davvero la guerra all’Isis ? E con quali obiettivi ? La
prima domanda che andrebbe fatta è: dove si prendono così tanti soldi, armi,
volontari per tutte queste guerre? E chi sono i destinatari ultimi di tutti
questi soldi ? Ricordiamo a mo’ di esempi come ci sono
state spiegate le cause delle guerre in
Vietnam, in Iraq, in Afghanistan, in Libia.
Non è facile dire se i giornalisti lo fanno apposta o proprio non ci
arrivano loro stessi a capire cosa succede. Naturalmente ci sono anche giornalisti
più capaci, spesso sono messi a lato, a volte anche eliminati.
Altre osservazioni vanno fatte a scopo di riflessione generale:
In tutto il dopoguerra e fino ad oggi il ruolo dell’ONU nel
mantenere la pace è stato scarso , deludente, sostanzialmente impotente; mentre
il ruolo dei principali paesi che formalmente ne fanno parte, specie quelli
occidentali, al di qua e al di la dell’Atlantico è quasi sempre stato rilevante
nei conflitti: o complice o responsabile o volutamente indifferente. Come
indifferente è in genere il colore politico dei governanti coinvolti , ad
esempio fra conservatori e socialdemocratici in Europa ( da Blair a Cameron ,
da Sarkozy a Hollande, da Berlusconi a Renzi ) nell’affrontare le crisi.
Fra le cose taciute la più importante è il retroterra economico
di questo caos. Spesso , quasi come battuta scontata, si parla del petrolio.
Non siamo in grado di renderci conto in maniera compiuta di questo retroterra
proprio per il silenzio tombale che avvolge questo argomento, ma qualche spunto
c’è. Il giro d’affari che ruota attorno alle guerre (petrolio, ma anche noli, armi, munizioni,
vestiario, attrezzature, stipendi dei combattenti, pensioni alle vedove,
rapimenti, etc.) non è quantificabile con certezza ma è enorme e duraturo se le guerre durano. Il sistema di approvvigionamento
di contante, garanzie di pagamenti, cambi di valuta, trasferimenti e
distribuzione dei fondi, contabilizzazioni, assicurazioni, non possono che
essere gestiti dal sistema bancario nel suo insieme. La guerra richiede una
infrastruttura finanziaria abbastanza sofisticata ed affidabile, per vendere e
comprare di tutto, armi, vettovagliamenti, carburanti... Come farà ad esempio
l’Isis a dare lo stipendio mensile ad alcune decine di migliaia di combattenti,
assimilabili almeno da questo punto di vista ad un enorme esercito di mercenari
ai quali, come salariati, va dato lo stipendio a fine mese ?
Quindi abbiamo l’ONU, abbiamo superato la guerra fredda e il
bipolarismo, ma non abbiamo leader capaci
di proporre politiche di pace nei maggiori focolai di guerra presenti da
decenni. Iniziando dal chiudere
tutti i rubinetti che alimentano i belligeranti.
Concludendo abbiamo guerre di tipo nuovo, che si prolungano nel
tempo senza risolvere alcun conflitto, nelle quali gli unici vincenti sono
coloro che dal prolungamento delle guerre ci guadagnano sempre. Il loro colore
politico, etnico, religioso non sembra molto rilevante.
Restano pochi Stati nazionali credibili , molti sono screditati o sono relitti
Fuori dal ciclone delle crisi economiche o delle avventure di
guerra che li coinvolge direttamente restano pochi gli stati nazionali che appaiono ancora in
grado di vantare regimi virtuosi e controllare le dinamiche interne in modo
razionale. Non sono in genere da
prendere come esempi di regime democratico paesi pur stabili come Russia e Cina,
democrazie (?) autoritarie eredi di
culture di regimi comunisti. Ne entità statali basate su forza e repressione
dove coincidono lo stato, il potere
economico e quello religioso come il
noto esempio dell’Arabia Saudita wahlabita.
Non possiamo prenderli ad esempio. Il Giappone ha mostrato l’irresponsabilità
dei propri governanti e delle proprie istituzioni di fronte al mondo in tutta
la vicenda di Fukushima. L’India, superata
la fase gandhiana, è ancora oggi un
paese costituzionalmente suddivido in caste con diritti, privilegi e ruoli
diversificati dalla nascita. In una gran
parte dei paesi asiatici, mediorientali
e africani permangono differenze sociali enormi che non sono
giustificate da elementi di scarsità
delle risorse. In molti casi permane una totale assenza di diritti, in particolare per
le donne. Quasi relitti inutili di stati, invece, sono ormai Somalia, Libia,
Siria, Iraq, Yemen... Tantomeno possiamo prendere questi ad esempio. Gli Stati
Uniti restano in qualche modo il paese egemone nel mondo ma solo per l’enorme
impegno nelle spese militari, con interventi armati o presenza diretta in
decine di paesi del mondo ma con grandi
difficoltà a trovare soluzioni equilibrate neanche dopo decenni ( Palestina, Iraq,
Afghanistan.. ); e con una guerra permanente in più, quella interna legata alla
diffusione incontrollata delle armi, che provoca più di 30mila morti all’anno. Il
sistema elettorale è demenziale e l’assenteismo cronico. Una percentuale
variabile di eletti dei due unici partiti è foraggiata o direttamente espressa
dalle principali lobby economiche del paese. Alla larga.
L’Europa sembra ormai un caso da studiare per la mancanza di
leader istituzionali di rilievo negli ultimi due decenni e per il desolante
fallimento delle due componenti politiche, conservatori e
socialdemocratici, che si sono alternati
in gran parte dell’Europa dopo la nascita e la progressiva estensione
dell’Unione Europea. Fuori dall’emotività momentanea data dai risultati di questa
o quella scadenza elettorale, una cosa risulta evidente: malgrado la diffusione
e spesso l’imposizione di sistemi elettorali maggioritari in buona parte degli stati europei, giustificati
dal mito della governabilità a rischio ( per primi Francia, Gran Bretagna,
Italia ), la sfiducia nelle istituzioni dilaga e porta spesso la metà del corpo
elettorale ad astenersi, mentre i fantasiosi giochini sulle regole elettorali
adottati qua e là inducono ad una sostanziale alterazione della rappresentanza.
La recente riforma elettorale e quella istituzionale del governo Renzi bene si inseriscono in questa corrente di
pensiero. Considerando che i voti espressi sono ormai mediamente quasi la metà
del corpo elettorale nel suo insieme e
si ripropone sempre un forzoso bipolarismo, si può dire che difficilmente in
questi paesi chi alla fine governa ha il consenso di più di un quarto del corpo
elettorale. Nel caso di applicazione dell‘Italicum il sistema italiano andrebbe
considerato forse il più iniquo dell’intera area europea ed uno dei più
illiberali ( ma creativi) del mondo, a
prescindere anche da chi possa essere il vincitore. Che è però pressoché
predefinito attraverso giravolte nelle alleanze fra i soliti partiti.
E’ utile ricordare che già negli anni ’80 erano state teorizzate
ipotesi che valutavano come la democrazia potesse essere più efficiente con una
minore partecipazione degli elettori. Kissinger, e da noi una attenta rilettura
di Licio Gelli, si sposano con questa impostazione. L’impressione è che
comincino a manifestarsi in maniera travolgente le conseguenze di processi che
originano fra gli anni ottanta e novanta, dopo la crisi dell’URSS e la caduta
del muro di Berlino. Caduto l’equilibrio del terrore (che era comunque un equilibrio)
si sono messe in moto forze economiche e gruppi che, liberi dalla necessità di
mantenere quel consenso interno e quella coesione necessari a sostenere il
confronto est-ovest, hanno trovato maggiore libertà di manovra nei paesi
occidentali. E’ l’epoca in cui si sviluppa una sostanziale modifica del sistema
bancario mondiale con l’abolizione del Steagal Act, che era nato per contenere
la speculazione, e col favore di nuove
tecnologie viene globalizzato il sistema finanziario, riformate le borse ed introdotti
surreali strumenti derivati. I due
tradizionali schieramenti,
popolari e socialdemocratici, che mediavano nella fase della guerra
fredda, si sono trovati impreparati , o forse addirittura inutili nella nuova
situazione, pressati da lobby dallo straordinari potere corruttivo alle quali
si sono totalmente affidati, angosciati dal proprio declino e dal prevedibile
affondamento del sistema , anche di privilegi, in cui hanno prosperato per
decenni. Diventando quindi obbligati e disponibili a qualunque cosa pur di
stare a galla. E qui, se c’era, ha chiuso la sinistra europea.
Con il nuovo secolo quindi anche l’Unione Europea comincia a
cambiare rotta. Sempre meno popoli solidali, sempre più burocrazia pilotata che
stabilisce regole, tempi, indirizzi, all’insaputa dei popoli. Per quanto i
referendum sulla costituzione europea siano
stati un fiasco per le oligarchie, nessuno ai piani alti della politica si
interrogò sul senso di questo rifiuto. Seguirono i cosiddetti accordi di
Lisbona che introdussero in via surrettizia molto di quello che doveva essere
istituzionalizzato con la Costituzione (accordi fra governi dopo che alcuni paesi
via referendum avevano rifiutato). Il processo è proseguito attraverso
forzature e manomissioni dello spirito e della lettera degli accordi europei
diventate oggi evidenti a tutti. Basti pensare che il cosiddetto “Eurogruppo”,
che ci viene presentato dai media come una istituzione europea apicale coi suoi
rituali pubblici, in realtà non esiste
come istituzione, non è previsto in alcun trattato, non redige nemmeno verbali
delle sue riunioni. E stiamo parlando di un’istituzione (che non c’è) che
ha gestito tutti i principali passaggi della disarticolazione economica di
parte dell’Europa, ultimamente della
Grecia.
Democrazia rappresentativa
o diretta : e se la abolissero del tutto ?
Il senso funzionale della democrazia rappresentativa dovrebbe
consistere nell’individuare un ambito qualificato di mediazione e decisione fra
un numero circoscritto ma plurale di soggetti politici delegati con il voto, dove
si possa tenere conto della complessità sociale e dei rapporti di forza senza
dovere, per ogni scelta, scendere in piazza per fare valere i propri bisogni o
diritti. Se questo spazio viene impedito, se i due terzi del corpo sociale non
è rappresentato o è costretto ad un voto non libero, se interi gruppi sociali
sono esclusi, non sarà più possibile una efficace mediazione, né una decisione
equilibrata. Si è inventato ultimamente che se un partito non ha la maggioranza
assoluta al voto, attraverso svariate regolette truccate, siamo di fronte ad
una anomalia, perché la sera del voto si deve sapere chi a vinto: una
barzelletta che viene ripetuta così tanto che molti ci abboccano.
Il sistema proporzionale, con qualche limite alla frammentazione
attraverso un quorum , anche sostenuto, non è un sistema fra gli altri, ma è il
sistema della democrazia nel definire le forme della rappresentanza delegata
dove i diversi soggetti, in base al consenso ricevuto ed ai programmi indicati
agli elettori trovano le forme della mediazione. In Germania ed in alcuni altri
paesi del centro-nord Europa almeno la rappresentanza formale è ancora salvaguardata e alla fine si
concordano programmi di coalizione, i partiti sono 4 o 5 in tutto. Ma l’Europa,
checché si dica sul ruolo della Germania, va in altra direzione.
Accanto alle forme di rappresentanza delegata , e non in
alternativa a questa, possono essere sviluppate forme di consultazione diretta
dell’intero corpo sociale ( referendum anche propositivi o consultivi accanto a
quelli abrogativi) già presenti in alcuni paesi. Oltre all’uso della rete per
valutare il giudizio degli aderenti alle formazioni politiche e associative con
una opportuna discussione preventiva dei contenuti.
La scuola di pensiero che ritiene superabile la democrazia
rappresentativa sta invece debordando dai meri aspetti elettorali dove si
trucca il voto attraverso i “premi di governabilità” di vario tipo, ai ben più
corposi aspetti delle garanzie costituzionali. Per citarne alcuni che per il
momento hanno un impatto differenziato sui diversi stati europei: la riduzione
delle garanzie legali a fronte di un problema di sicurezza interna, il
ridimensionamento della tutela del risparmio a fronte della salvaguardia del
sistema bancario, l’accantonamento della tutela del paesaggio contro la libertà
d’impresa, il deperimento dei servizi sociali per la salute giustificata da una
ambigua efficienza economica del comparto sanitario, la dequalificazione
dell’istruzione pubblica in nome della concorrenza. E ultimo esempio con COP21 la
derubricazione di fatto della crisi climatica a tema di seconda linea rispetto
alle leggi dell’economia di mercato e degli interessi delle multinazionali dei
fossili che praticamente influenzano, a suon di dollari, parti non marginali del sistema politico in
gran parte del pianeta.
Leggere il libro-mattone di Piketty sul capitale nel XX secolo è
molto istruttivo. Un lavoro di ricerca gigantesco che ha spaziato dal medio evo
ad oggi spulciando dichiarazioni dei redditi, successioni, bilanci statali, tassi
di crescita, di inflazione, e quant’altro, certificando scientificamente quanto
qualunque persona di buon senso da tempo sospetta: che il processo di
concentrazione delle ricchezze in poche mani sta rapidamente riportandoci ad
una situazione simile a quella dell’ancient regime precedente alla rivoluzione
francese. E’ di questi giorni la stima che alcune decine di famiglie nel mondo possiedono
più ricchezza di tutto il resto del pianeta. Ricordate Occupy Wall Street? Gruppi
economici o addirittura singole famiglie dispongono di ricchezze pari al
bilancio di una piccola nazione. E’ ovvio che la quantità si trasforma in qualità.
Il controllo di banche, sistemi logistici, approvvigionamento di energia,
processi industriali, brevetti, va di pari passo con una capacità di
controllare o comunque influenzare in maniera decisiva parte delle istituzioni.
La crisi del vecchio sistema fa emergere nuovi
protagonisti: difficile vincere se non se ne hanno i requisiti
La catastrofe del vecchio
sistema fa emergere nuovi protagonisti del teatro della politica che si
qualificano, in relazione alla cultura ed alla storia di ciascuna nazione, come
oppositori di sinistra, di destra, ... o di altrove- come il M5S italiano. In alcuni paesi, anche importanti, movimenti nuovi si stanno trasformando da
sintomo della malattia della democrazia, in progetto di gestione alternativa dello
stato. I successi elettorali sono anche consistenti e gli spostamenti di
consensi non hanno precedenti nella storia del dopoguerra, segno che qualcosa
si muove ed è capito dal pubblico nonostante tutto. Il radicalismo di estrema
destra e di estrema sinistra a volte suonano
per un tratto le stesse note. Come si fa a essere contrari alle accuse
della Le Pen francese contro gli aspetti di corruzione della casta clientelare
che ha permeato l’era di Sarkozy e quella di Hollande ? E le recenti critiche
da sinistra a Tsipras nei confronti della Troika ? Potevamo non essere solidali con i ragazzi di
Occupy anche se l’idea che l’1% sovrasti l’altro 99% della società può
diventare una semplificazione che non coglie come una minoranza consistente e
attrezzata sia capace cinicamente di costruire alleanze e soprattutto abilmente
disgregare qualunque tentativo di fronte avverso?
Ma appena si gratta un po’ sotto
la superficie vengono fuori i limiti: l’intolleranza e la miseria culturale
delle destre estreme anche quando sono celate sotto il caschetto biondo di una
quarantenne italiana o di una cinquantenne francese, così come il trasformismo
e l’assimilazione alle logiche di casta che hanno ridotto ai minimi termini la
sinistra cosiddetta radicale e
l’ambientalismo all’italiana.
Non troviamo nulla di attrattivo
ne negli uni ne negli altri. Non c’è qui alcuna tendenza al pessimismo, c’è
poco da discuterne. Per i secondi la loro irrilevanza non è una nostra
opinione, è un dato di fatto evidente per chiunque, ma nessuno ne spiega il
motivo. Possiamo ormai affermare che non
c’è più vita a sinistra nel nostro paese
anche perché nei pochi momenti in cui la nostra variegata sinistra
all’italiana ha dato qualche sussulto ha
mostrato solo trasformismo o la propria inutilità: da Bertinotti in poi che si auto relegò,
invece di tentare di governare, a gestire i lavori della Camera prima di
sparire nell’irrilevanza . Può sembrare incredibile che la recente fuoriuscita a sinistra di alcuni esponenti del
PD, ognuno dei quali ha subito costruito il suo micro partitino, ha
ulteriormente frammentato e paralizzato qualunque ipotesi di autonoma
costruzione politica di sinistra capace di restare fuori dalle tentazioni
uliviste, invece sempre presenti, che in
realtà hanno avviato la progressiva disgregazione di qualunque sinistra
alternativa. Che, almeno in Italia, sembra ormai un episodio chiuso del secolo
scorso.
Le aristocrazie politiche
europee sono un sistema sterminato, tendenzialmente ormai autoreferenziale e
sempre più contiguo ai disegni dei poteri che più contano. Non è un caso che
negli ultimi anni si alleano anche fra di loro per difendersi, violino le regole,
tarocchino con ogni scusa le costituzioni, alterino le forme di rappresentanza,
si accaparrino mezzi economici, corrompano l’informazione, in alcuni paesi
svuotino senza scrupoli le casse delle amministrazioni locali a favore di mafie
e clientele.
Quello che è ancora in gioco è
la possibilità dei popoli europei di ritornare protagonisti del proprio futuro
ed, al momento, questa possibilità è rappresentata dal riappropriarsi del
controllo democratico dei singoli stati dal momento che hanno distorto ma non
hanno ancora abolito le elezioni. Nella complessità delle società moderne non è
verosimile pensare di costituire una rete di soviet o immaginare una democrazia
diretta irrealistica a cui trasferire il potere conquistando un palazzo
d’inverno difficile da identificare. Gli
stati nazionali attuali possono accogliere
tutti gli strumenti giuridici innovatori, una nuova legislazione
credibile, un efficiente sistema di
servizi e beni comuni gestiti virtuosamente in un corretto rapporto fra
pubblico e privato, una progressiva conversione ecologica stesa sull’intero
assetto sociale, un sistema di tutele di cittadinanza che non lasci indietro
nessuno e garantisca la sicurezza di tutti,
per controllare ed invertire questa deriva verso la legge della giungla
che stiamo vivendo. Il nostro paese ha bisogno di grandi e vere riforme sociali
, ambientali, istituzionali perché quelle di cui si parla, con i loro
camuffamenti mediatici, sono tutt’altro.
Apparentemente ogni paese ha la
sua storia e diverse, a volte opposte, appaiono le forme e i soggetti del
cambiamento. In particolare in Europa i movimenti politici più interessanti che
si affacciano alla storia chiedendo riforme radicali del sistema ruotano
attorno a tre grandi temi:
1) l’opposizione al sistema
inefficiente e spesso corrotto delle caste della politica che hanno occupato
stabilmente tutti gli ambiti della società.
2) la palese disuguaglianza sociale
che arriva a portare ai limiti della sopravvivenza aree consistenti di
popolazione perfino in paesi considerati ricchi e che comunque lascia indietro settori
sociali che perdono progressivamente tutele.
3) la preoccupazione e la critica per la
distruzione degli equilibri ambientali i cui effetti si manifestano ormai in
modo evidente sulla salute e sul mutamento del clima, che impongono una
generale conversione ecologica dell’intero pianeta.
Movimenti di sinistra e di ambientalisti, ma anche di destra, possono dichiararsi sostenitori, in parte più
o meno larga e più o meno convincente e sincera, di questi grandi temi con i
loro numerosi corollari collegati che caratterizzano le società moderne. Ma il
centro del problema è la capacità di coniugare e collegare insieme questi temi
in un unico e coerente progetto politico e culturale che sia compreso e
sostenuto da larghe maggioranze sociali che sono indifferenti agli schemi delle ideologie del secolo
scorso. Se si ritiene improbabile
riformare l’attuale sistema dei partiti
il cambiamento richiede un movimento di liberazione che assuma l’insieme delle
contraddizioni indicate e su di esse proponga un progetto che possa interessare
la maggioranza della società perché viene riconosciuto più idoneo del vecchio
sistema sociale per tanti . Per questo non hanno futuro movimenti di destra per
quanto, sui temi dell’immigrazione e della sicurezza, possano allargare nell’immediato la propria
presenza; ma sembra anche molto improbabile che si possa rifondare una sinistra
dalle macerie di tutte quelle che hanno fallito; neppure l’ambientalismo
politico nato con i verdi europei negli anni ’80 ha poi adeguato la propria consistenza
culturale al tempo presente.
Tutti i movimenti che emergono
dalle crisi degli ultimi anni stanno combattendo per definire il proprio essere
allontanandosi poco o tanto dagli schemi del passato, gli ultimi Syriza in
Grecia e Podemos in Spagna; altri che non sono stati in grado di definire un
progetto duraturo sono già finiti, come i Pirati in Germania o si sono alla
lunga ridimensionati come i Verdi , con
l’esemplare crisi di Europe Ecologie
quando ha sanzionato la propria alleanza con i socialisti senza risultati
percepibili, in Francia.
E’ significativo che in Italia un consenso
elettorale rilevante, del tutto anomalo nel panorama generale, vada al M5S che ha assunto anche in modo
inconsapevole tutti e tre i temi indicati nella propria azione, in parallelo
con il disintegrarsi di tutte le forme di opposizione politica che hanno avuto
le loro radici nei decenni passati. Proprio l’assunzione di questo insieme di
temi, in gran parte espressi per frammenti dai diversi movimenti sociali
dell’ultimo decennio, e la sottrazione ai tentativi strumentali di
classificarlo come di estrema destra o di estrema sinistra, pone il M5Stelle in
una posizione privilegiata. Quella di movimento di cambiamento moderno, e non riducibile dentro le nicchie della
destra e della sinistra estrema del secolo scorso.
Il successo elettorale e lo
spazio mediatico conquistato è tanto rilevante quanto fragile. Esposto a crisi
repentine non avendo fino ad oggi definito nuovi criteri di funzionamento
interno adeguati alle dimensioni raggiunte ed alle aspettative, forse
eccessive, di chi lo sostiene e lo vota.
Un percorso diverso, per certi
versi opposto, è quello che impegna Podemos in Spagna, ben collegato a
vari movimenti sociali recenti, con i
quali ha mostrato la capacità di allearsi, ma sempre a rischio di essere
riclassificato nell’alveo della vecchia estrema sinistra dalla quale in parte
proviene ed in parte si è culturalmente distinto.
In evidente difficoltà a
ridisegnare una propria moderna connotazione sono invece i movimenti politicamente organizzati che facevano
riferimento all’ecologismo la cui impronta genetica si è formata in particolare
con i Verdi in Germania e nel centro
nord europeo degli anni 80-90. La crisi definitiva, sanzionata dopo il triennio
2009-2011, ha portato al ridimensionamento, quasi alla loro scomparsa in
diversi paesi, specie dove i sistemi elettorali sono costruiti apposta per
rendere difficile l’emersione autonoma di nuovi movimenti e nuove culture. E
questo malgrado la problematica ecologica mantenga una forte centralità sui
destini del pianeta a tutte le latitudini e si concentri alla fine nella
espansione della crisi climatica come terreno su cui si scontrano tutte le
differenti tendenze dello sviluppo.
Più ci si libera dei fantasmi
del passato e ci si preoccupa del futuro di tutti, costruendo alleanze e solidarietà diffuse
invece di recinti invalicabili, più si
ha la possibilità di promuovere un cambiamento condiviso. L’elenco degli atti
necessari è lunghissimo: basti pensare che oggi concetti come correttezza ed
onestà, interesse pubblico, efficienza, rispetto delle regole sono in realtà quasi
considerati eversivi. Oppure che l’intero sistema bancario e le regole della
finanza su cui ruota il pianeta andrebbero capovolte riportandole a
strutture di servizio della collettività
invece che di centri di potere impenetrabili.
Se ci concentrassimo su questi
temi apparentemente invalicabili e buttassimo via tutti i ruderi arrugginiti
del passato con l’occhio invece alle generazioni future, tutto diventerebbe
possibile.
gennaio 2016
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