Un potere
enorme a tecnici che nessuno controlla e che possono imporre agli Stati la
ristrutturazione del debito: basterebbe solo questa possibilità a far scappare
gli investitori, provocando la crisi che l’organismo dovrebbe evitare. Il
governo italiano sembra orientato ad accettarlo. Sarebbe l’ennesimo errore,
stavolta forse fatale
di Carlo Clericetti *
La riforma
del cosiddetto “Fondo salva Stati”, l’Esm (European stability mechanism), è
arrivata a un passo dall’approvazione. Il lato positivo in questa vicenda è che
serve l’unanimità, e quindi l’Italia ha un potere di veto; il lato negativo è
che il governo – e soprattutto il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri –
sembra soddisfatto delle modifiche ottenute al testo originario, e quindi
appare orientato a non usare questo potere. Sarebbe l’ennesimo errore nei
nostri rapporti con gli altri partner europei, e questa volta sarebbe fatale,
perché c’è la quasi certezza (il “quasi” è solo perché a volte accadono i
miracoli, ma chi ci scommetterebbe tutto quel che ha?) che il solo fatto
dell’entrata in vigore di quel meccanismo provocherebbe per il nostro paese una
catastrofe economica.
Come dice
Carlo Cottarelli sulla Stampa: “Se
gli investitori sanno che il Fondo salva Stati chiederà probabilmente una
ristrutturazione del nostro debito come condizione per un prestito, come
pensate che si comportino? Smetterebbero di comprare titoli di Stato al primo
segnale di tensione”. In realtà Cottarelli è fin troppo ottimista, perché la
cosa più probabile è che gli investitori che possiedono titoli pubblici
italiani non solo non ne comprino più, ma comincino a liberarsene, senza
aspettare che una minaccia di crisi faccia scendere il loro valore. Ma se
vendono avviano appunto la discesa dei prezzi, con un effetto “palla di neve”
che inevitabilmente evolverebbe in valanga. E’ una cosa del tutto simile a
quello che è accaduto dopo la famosa “passeggiata di Deauville”, durante la
quale Merkel e Sarkozy decisero che gli investitori privati dovessero essere
coinvolti nei costi della crisi.
Il fatto è
che i tedeschi, i loro alleati nordici e anche i francesi dimostrano di non
aver capito – e di continuare testardamente a rifiutarsi di capire – come
funzionano i mercati finanziari. Basti ricordare la guerra fatta da Jens
Weidmann, presidente della Bundesbank, al “whatever it takes” di Draghi, che
risolse la crisi degli spread senza che la Bce dovesse intervenire con un solo
euro. E ricordare le proposte dei sette economisti tedeschi e sette francesi
che seguivano la stessa logica alla base della riforma dell’Esm. E, ancora,
ricordare il ridicolo dibattito sulla “riduzione del rischio prima della
condivisione del rischio”, altra testimonianza dell’ignoranza dei meccanismi di
mercato. In quel dibattito a un certo punto intervenne Draghi,
spiegando che la riduzione del rischio si ottiene appunto con la condivisione
del rischio: parole al vento, sono state del tutto ignorate.
Ora questi
geni della finanza vorrebbero affidare la valutazione sulla sostenibilità del
debito di un paese ai tecnici dell’Esm (il cui direttore è il tedesco Klaus
Regling). Magari sono gli stessi tecnici che hanno elaborato il metodo per
calcolare l’output gap, quello che serve per giudicare i conti pubblici dei
paesi Ue. Un metodo ridicolizzato da economisti di
tutto il mondo, non solo economisti critici, ma anche moltissimi
di quelli che lavorano nelle principali istituzioni internazionali. Un metodo
che l’Italia contesta da tempo,
ma a cui sono state apportate solo correzioni marginali che non ne hanno
cambiato in nulla la totale assurdità. Sarebbe meglio affidarsi al “testa o
croce”: almeno ci sarebbe un 50% di probabilità di avere la risposta giusta,
invece della totale certezza che sarà sbagliata.
E poi, forse
non c’è solo l’ottusità dietro a questo piano. Molti hanno sottolineato che al
Fondo potranno accedere non solo gli Stati, ma anche le banche. E che le
cosiddette recenti “aperture” del ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz
(che nella sostanza non cambiano nulla della posizione di Berlino), coincidono
con l’aggravarsi della situazione delle due maggiori banche tedesche, Deutsche
e Commerz, ormai sull’orlo del disastro. Non sarebbe male per loro, per
soddisfare i propri bisogni finanziari, poter attingere a un Fondo finanziato
pro-quota da tutti i paesi (noi siamo il terzo finanziatore).
A questo
punto l’Italia dovrebbe presentare una sua proposta, che, pur accettando i
capisaldi di principio dell’Unione, contestare
i quali suonerebbe come una inutile provocazione, ne cambi le regole di
funzionamento. Quindi, perseguimento dei conti in ordine, riduzione del
rischio-paese, riduzione del debito pubblico, ma con metodi diversi da quelli
finora seguiti.
Sul mandare
in pensione il metodo dell’output gap sembra che finalmente ci sia accordo. La
proposta sul tavolo è di sostituirlo con il controllo della spesa pubblica, che
non dovrebbe più essere aumentata. Sarebbe già un passo avanti, perché almeno
si tratta di un parametro non soggetto a conteggi arbitrari, ma introdurrebbe
l’ennesimo elemento di rigidità: ancora una volta, le regole invece della
politica, perché è scontato che la politica fa solo guai (alla faccia della
democrazia…). Si potrebbe contro-proporre che il parametro fondamentale diventi
il saldo primario di bilancio (entrate meno spese al netto degli interessi),
che misura quanto lo Stato mette o toglie dall’economia. A quello andrebbe
applicata la famosa regola del 3% di scostamento massimo, stabilita dal
Trattato di Maastricht: non perché sia una regola particolarmente intelligente,
ma, appunto, come proposta di compromesso.
A chi ha un
debito pubblico elevato non sarebbe consentito di avere un saldo primario
negativo (anche questa una proposta di compromesso). Oltre quale limite di
debito pubblico? Su questo torneremo più avanti.
Il saldo
primario positivo dovrebbe essere l’unica condizionalità per l’eventuale
accesso agli aiuti dell’Esm. Se si è in quella condizione, significa che il
paese in questione sta facendo una politica di austerità (eggià…), e non
finanza pubblica “allegra”, e questa dovrebbe essere una condizione sufficiente
per ottenere l’appoggio. Come si ricorderà, l’Italia ha un saldo primario
attivo da 27 anni, con l’eccezione del 2009, l’anno in cui la crisi è stata più
acuta. Nessun altro paese può vantare un analogo record.
Non solo. Un
paese con un saldo primario positivo non dovrebbe pagare un tasso sulle
emissioni di debito pubblico superiore alla media dell’Eurozona. Se il mercato
ne richiede uno più alto, spetterebbe alla Bce (o allo stesso Esm) provvedere
ad agire da calmiere. Anche in questo caso, come per il whatever it takes, se
l’impegno fosse credibile il mercato, con ogni probabilità, si adeguerebbe
spontaneamente, senza bisogno di interventi, almeno dopo che le prime aste
avessero confermato che si fa sul serio.
Quanto ai
debiti pubblici, bisognerebbe applicare uno dei numerosi meccanismi elaborati
per ridurli, per esempio quello chiamato P.A.D.R.E.
(Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone, ossia
"ristrutturazione del debito politicamente accettabile") o un altro
simile (ce n’è anche uno elaborato da economisti tedeschi). Quantomeno,
prendere atto che con il quantitative easing la Bce ha applicato di fatto la
parte sostanziale di questi meccanismi, ossia l’acquisto di debito pubblico in
proporzione alle quote della banca centrale possedute da ogni paese. Si
tratterebbe di formalizzare il fatto che la Bce continuerà a detenere
indefinitamente quella parte di debito. In base ai trattati alla Bce è vietato
finanziare gli Stati: il QE è stato possibile in quanto motivato con la
necessità di evitare la deflazione e perseguire l’obiettivo della banca
centrale, secondo cui la crescita dei prezzi deve essere “sotto, ma vicino, al
2%”. Un obiettivo tuttora non raggiunto e nemmeno previsto a breve termine. Se
si volesse, anche per trattenere definitivamente i titoli acquisiti con il QE
si troverebbe una motivazione compatibile con i trattati. Se si volesse…
In quel caso
si ridurrebbe d’un colpo il peso del debito pubblico per tutti i paesi
(proporzionalmente alla quota detenuta in Bce). Il livello medio europeo del
rapporto debito/Pil, oggi intorno al 90%, a occhio scenderebbe di 15-20 punti,
e quella potrebbe essere la nuova soglia. Non sarebbe uno scandalo: il famoso
60%, che peraltro non ha alcuna giustificazione teorica, fu fissato quasi 30
anni fa, in un mondo molto diverso e soprattutto prima della crisi più grave da
un secolo. L’Italia resterebbe comunque sopra la soglia, e perciò continuerebbe
ad esser tenuta a ridurre il debito (altro compromesso). Ma il compito sarebbe
assai meno impervio di quanto lo sia oggi, soprattutto nell’ambito delle nuove
regole. In questo quadro si può anche accettare che venga posto un limite al
possesso da parte delle banche di titoli del debito pubblico del proprio paese.
Ma per raggiungerlo dovrebbe essere previsto un tempo lungo, in modo da evitare
ripercussioni immediate. Inoltre sarebbe sensato che il limite non fosse
assoluto, ma, per esempio, venissero considerati risk-free i titoli all’interno
del limite, mentre per quelli in eventuale eccedenza si applicherebbe un
coefficiente di rischio-paese.
Se nella
prossima riunione l’Italia si presentasse con queste proposte, quante
probabilità ci sarebbero che venisse ascoltata? Zero. Però avrebbe presentato
un piano non provocatorio e questa sarebbe una motivazione sufficiente a porre
il veto a quello attuale, che, giova ripeterlo, avrebbe per il nostro paese
conseguenze catastrofiche.
E comunque non
si tratta solo di evitare un grave danno per noi, cosa che è già più che
sufficiente. La riforma proposta conferisce un potere enorme a un organismo
tecnico che non risponde a nessuno, a scapito del Parlamento (che di potere già
ne ha assai poco) e persino della Commissione, che ha almeno una legittimazione
indiretta. Approvare una mostruosità del genere significa ridurre i principi
democratici a un simulacro, buono solo per la retorica dei discorsi ufficiali.
Attenti, che prima o poi la Storia si vendica.
*
da Repubblica.it - 22 novembre 2019 e da nuke.carloclericetti.it
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