30 aprile 2021

Germania: «Legge sul clima da rifare», Friday for Future mette ko il governo

Corte di Karlsruhe. Una sentenza rivoluzionaria: per la prima volta il massimo organo giudiziario sancisce il diritto dei giovani tedeschi a non pagare il conto del debolissimo contrasto ai cambiamenti climatici voluto dal governo Merkel

di Sebastiano Canetta (da il manifesto 30 aprile 2021)

Un anno e otto mesi di tempo al governo federale per cambiare l’attuale legge sul Clima «perché una generazione non può consumare gran parte del bilancio di anidride carbonica sostenendo un obbligo leggero, se questo poi comporta un obbligo pesante per le successive generazioni, le cui vite saranno soggette a una grave perdita di libertà».

Così ha stabilito ieri la Corte costituzionale di Karlsruhe accogliendo il ricorso presentato da quattro cittadini (tra cui la 21enne Sophie Backsen, residente nelle Isole Frisone minacciate dall’innalzamento del livello del mare) con il supporto delle associazioni Fridays For Future, Bund e Greenpeace.

Una sentenza rivoluzionaria: per la prima volta il massimo organo giudiziario sancisce il diritto dei giovani tedeschi a non pagare il conto del debolissimo contrasto ai cambiamenti climatici voluto dal governo Merkel. «Abbiamo vinto! Oggi è un grande giorno per gli ambientalisti. La decisione dei giudici fissa finalmente il principio della giustizia intergenerazionale» riassume Luisa Neubauer, leader nazionale del Fridays For Future. Non solo, i togati di Karlsruhe hanno criticato i poteri esecutivo e legislativo con parole definitive. «La libertà dei querelanti è stata violata dalla legge sul Clima che rimanda i maggiori oneri per la riduzione delle emissioni a dopo il 2030. Per raggiungere il target previsto dall’Accordo di Parigi servirebbero dunque altre riduzioni, che però dovrebbero essere fatte in tempi troppo brevi» si legge nelle 110 pagine del dispositivo.

Di conseguenza, la norma varata da Cdu, Csu e Spd e approvata sia dal Bundestag che dal Bundesrat nel 2019 «deve essere necessariamente cambiata entro la fine del 2022 poiché nella sua forma attuale accorcia di troppo il tempo per gli sviluppi tecnico-sociali necessari per passare da uno stile di vita associato alle emissioni di CO2 a un comportamento neutro».

Dal punto di vista giuridico, ma anche politico, la sentenza è un autentico “schiaffo” ai deputati che hanno dato il via libera alla legge sul Clima ma prima ancora al governo, che ieri ha fatto incredibilmente finta di festeggiare. È il caso del ministro Cdu dell’Economia, Peter Altmeier, braccio destro della cancelliera Merkel, subito dopo la sentenza ha twittato: «Grande, significativa ed epocale decisione dell’Alta corte sulla protezione del Clima e i diritti dei giovani».

Dichiarazione «sorprendente» perfino per il ministro delle Finanze, Olaf Scholz, candidato-cancelliere della Spd alle elezioni del prossimo 26 settembre, pronto a rinfrescare la memoria al collega seduto dietro lo stesso banco del governo: «A quanto ricordo siete stati esattamente tu e la Cdu-Csu a impedire ciò che contesta la Corte costituzionale» gli rammenta Scholz, gettando ulteriore benzina sul fuoco della Groko. «Avevo proposto la soluzione lo scorso settembre ma tu e il tuo partito non l’avete accettata» è la secca replica di Altmeier.

Scarico di responsabilità tutt’altro che inedito nel governo rosso-nero, nonostante i giudici ieri abbiano puntato il dito sull’intero esecutivo. Spetta al segretario Cdu, Armin Laschet, candidato-cancelliere dell’Union, provare a contenere la deflagrazione fra alleati al termine della videoconferenza sul “Green Deal” con la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.

Naturalmente, anche Laschet si guarda bene dal recitare il mea culpa limitandosi a richiamare genericamente all’ordine «la politica». A sentire l’aspirante erede di Merkel «la sentenza rappresenta un chiaro mandato per un’ambiziosa protezione del clima, che poi è il dovere di tutta la politica verso i cittadini di domani».

 

Un piano con poche tracce di verde non basta

 Recovery plan. Non c’è una svolta verde, ma un collage di iniziative legate agli interessi più importanti

di Giuseppe Onufrio *

Ci sono anche delle misure positive: investimenti nelle smart grid, elettrilizzatori per l’idrogeno, agrivoltaico e per le «comunità energetiche» (ma limitate i piccoli Comuni). Ma non c’è quella svolta verde che era attesa per questa occasione storica di voltare pagina verso un futuro più sostenibile.

L’obiettivo di riferimento per le rinnovabili nel settore elettrico, citato dal Ministro Cingolani (in attesa del nuovo Piano energia e clima) è ambizioso e condivisibile del 72% al 2030 e richiederebbe di installare impianti rinnovabili per circa 6 Gw all’anno, oltre sei volte quanto fatto nel 2020.

Questo obiettivo è di fatto demandato al 90% e più al mercato: cioè a una riforma per accelerare le autorizzazioni ed evitare, ad esempio, che per un impianto eolico ci vogliano anni e anni per autorizzarli. Ma una riforma non basterà da sola, perché il settore per anni è stato bloccato con norme retroattive sugli incentivi, burocrazia lentissima e dunque incertezza.

Un trattamento mirato (con successo) a bloccare il settore e a spaventare gli investitori, che è riuscito in questi anni a riportare una quota del mercato elettrico al gas fossile, inizialmente danneggiato dai pochi anni di crescita delle rinnovabili (2008-12). In questo modo il Piano lascia lo spazio a gas e idrogeno blu (da gas con Carbon Capture and Storage proposto da Eni) mentre per l’idrogeno verde sarebbe indispensabile una spinta ben più forte e certa alle rinnovabili.

In tema di mobilità urbana le cifre sono al di sotto di quello che servirebbe per far decollare il mercato dell’auto elettrica, mentre sulla mobilità urbana collettiva le cifre sono minimaliste e ai treni locali vanno una quota marginale rispetto all’alta velocità. Siccome gran parte delle emissioni di Co2 dal trasporto passeggeri si produce proprio in ambito urbano e metropolitano, l’ispirazione del Piano non sembra esattamente quella di dare priorità agli investimenti che riducono di più le emissioni (mobilità urbana elettrica pubblica e privata).

Sull’efficienza, mai citata nei capitoli riferiti all’industria, si proroga il superbonus per il settore edile senza vincolarlo, come sarebbe necessario, a un salto di almeno tre categorie di efficienza e non alle due attuali. L’agricoltura evidentemente non è considerata affatto un capitolo importante per gli aspetti ambientali e la parola agricoltura biologica non è mai nemmeno citata, eppure sarebbe un elemento qualificante di un «piano verde».

Così mentre si continuano ad autorizzare nuove trivellazioni a mare e impianti a gas, il rilancio delle rinnovabili necessarie a raggiungere gli obiettivi deve attendere una riforma che speriamo sia efficace: dunque la parte «green» è sospesa a questi cambiamenti. Nel frattempo, il Ministro Cingolani continua a far dichiarazioni scorrette sulla mobilità elettrica: certo, quando avremo il 72% di rinnovabili sulla rete sarà ancora meglio, ma già oggi con il mix energetico attuale, le auto elettriche consentono di ridurre le emissioni sia di Co2 che evitare quelle che sotto i nostri nasi attentano ai nostri polmoni. E questo vale anche in termini di ciclo di vita. Un messaggio, non nuovo da Cingolani, che suona come una dissuasione e, dati gli impegni limitati nel Piano, a rallentare il settore e a perder tempo. Forse è quello che serve a chi non ha mai puntato sulla mobilità elettrica e ora è in affannoso ritardo?

Dunque, non c’è una svolta verde, ma un collage di iniziative legate agli interessi più importanti. Così ieri gli attivisti di Greenpeace in una azione di protesta hanno rinominato i diversi ministeri, a partire dal «Ministero della finzione ecologica». La speranza è sempre quella di vedere qualche seria correzione di rotta.

* direttore di Greenpeace Italia - 30 aprile 2021

( la pubblicazione dell'intervento non conporta la totale condivisione dei contenuti)