29 aprile 2023

Turchia al voto, sfida al sultano Erdogan: la “missione impossibile” del “Gandhi” Kılıçdaroğlu. L’ago della bilancia? I giovani indecisi

 di Futura D'Aprile *

Il 14 maggio sarà una data decisiva per la storia della Turchia. A cento anni dalla nascita della Repubblica, gli elettori sono chiamati a rinnovare il Parlamento e ad eleggere il prossimo presidente. I principali sfidanti per il posto di capo di Stato sono Recep Tayyip Erdogan, leader del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) da vent’anni alla guida del paese, e Kemal Kılıçdaroğlu, segretario della formazione repubblicana di ispirazione kemalista (chp). 

 Ad aspirare alla carica di presidente sono anche altri due politici, Muharrem İnce e Sinan Oğan, le cui possibilità di vittoria però sono decisamente basse, stando ai sondaggi delle ultime settimane. La sfida dunque sarà tra Erdogan e Kılıçdaroğlu, due uomini molto diversi tra di loro sia caratterialmente che politicamente, con visioni differenti sul futuro della Turchia e sulla gestione stessa del potere. Gli ultimi sondaggi fanno emergere l’indecisione dei giovani e un lieve vantaggio per il presidente in carica. Secondo la rilevazione realizzata da al-Monitor e Premise Data, l’11.3% dei giovani non ha ancora deciso per chi votare e il sostegno a uno o all’altro candidato sarà certamente determinante nel momento in cui a separare Erdogan e Kılıçdaroğlu sono solo pochi punti. Sempre secondo al-Monitor, il presidente uscente dovrebbe ottenere il 45.2% delle preferenze, contro il 44.9% del leader del Chp. Il risultato delle elezioni, dunque, non è per nulla scontato e anche una manciata di voti potrebbe essere decisiva per il futuro della Turchia.

La Turchia di Erdogan – Il presidente uscente, leader dell’Akp, è al potere ormai da più di venti anni. Il suo primo mandato da premier risale infatti al 2002 e ha già ricoperto per due volte la carica di presidente, dal 2014 ad oggi. Il Consiglio elettorale supremo però gli ha permesso di ricandidarsi per quello che sarebbe a tutti gli effetti un terzo mandato, in violazione quindi del limite imposto dalla Costituzione, iniziando a contare i suoi incarichi dal 2017 in poi, anno della riforma costituzionale che ha trasformato la Turchia in una repubblica presidenziale. A sostenere la candidatura di Erdogan è ancora una volta il partito di estrema destra nazionalista Mhp, ma in questa tornata elettorale il presidente uscente ha deciso di allearsi anche con Huda-Par, il partito di estrema destra curdo-sunnita, e con il Nuovo partito del benessere (Yrp) di Fatih Erbakan, figlio del mentore dell’attuale presidente e leader dell’islam politico Necebettin Erbakan. L’Huda-Par è l’erede dell’Hezbollah turco (che non ha alcun legame con Hezbollah sciita del Libano), ed è noto per aver seminato il terrore nelle comunità curde di sinistra alla fine degli anni Novanta; l’Yrp invece è temuto da una parte della società turca per le sue posizioni particolarmente misogine. In cambio di questa alleanza, Fatih Erbakan ha chiesto a Erdogan di cancellare la legge n. 6284 che tutela le donne contro la violenza di genere e previene il fenomeno delle “spose bambine”.

Nel suo programma elettorale, però, Erdogan ha volutamente tralasciato questo dettaglio, promettendo invece un futuro radioso ai suoi elettori. Nello specifico, il presidente uscente si è impegnato a ridurre l’inflazione e i costi dell’energia grazie al nuovo giacimento di gas del mar Nero e alla centrale nucleare appena inaugurata; ad accrescere l’export e il turismo; ad offrire una serie di agevolazioni agli studenti, alle famiglie e alle fasce della popolazione più indigenti. A chi è stato colpito dal terremoto del 6 febbraio, invece, ha promesso nuove abitazioni entro la fine dell’anno. Il rafforzamento dell’economia e una maggiore indipendenza sul piano energetico sono anche utili per perseguire una politica estera più assertiva e che permetta al presidente di accrescere il ruolo della Turchia nello scacchiere internazionale. Per raggiungere questo obiettivo Erdogan ha anche intenzione di continuare a puntare sulla Difesa, un settore ampliamento sostenuto dal presidente e che ha registrato un’importante crescita negli ultimi anni. Con grande soddisfazione del leader turco, che ha giocato la sua campagna elettorale anche su droni, jet, elicotteri e portaerei realizzati interamente o quasi dalle industrie nazionali.

Kılıçdaroğlu e il Tavolo dei sei – Principale sfidante di Erdogan è Kemal Kılıçdaroğlu, segretario del Chp del 2010 e candidato del cosiddetto Tavolo dei sei, formato da partiti che vanno dal centro-sinistra alla destra nazionalista. Considerato un uomo dai toni pacati e conciliatori, Kılıçdaroğlu non è un politico particolarmente carismatico ma è riuscito a conquistarsi la fiducia degli elettori proprio grazie ad un carattere e a uno stile di vita molto diversi rispetto al presidente uscente. In Turchia è anche noto con il nome di “Gandhi turco” per aver organizzato nel 2017 una “Marcia della giustizia” in risposta all’arresto per motivi politici del suo vice, Enis Berberoglu. In quell’occasione Kılıçdaroğlu ha percorso a piedi 450 chilometri andando da Ankara a Istanbul e organizzando diversi comizi durante il suo cammino grazie ai quali è riuscito ad aumentare la sua popolarità.

La mancanza di carisma però aveva inizialmente messo in pericolo la sua leadership all’interno della coalizione, anche se alla fine tutti i partiti del Tavolo lo hanno accettato come loro candidato. I vice di Kılıçdaroğlu, in caso di vittoria, saranno due personaggi popolari dell’opposizione: il sindaco di Ankara, Mansur Yavaş, e il primo cittadino di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, entrambi del Chp. A sostenere la candidatura di Kılıçdaroğlu, seppur indirettamente, è anche il partito filo-curdo Hdp, che ha deciso di non presentare un proprio esponente per la carica di presidente. A unire tutti questi partiti è il desiderio di mettere fine all’era Erdogan e di ritornare al sistema parlamentare, ripristinando l’equilibrio tra poteri dello Stato e garantendo ai cittadini quei diritti che Erdogan ha invece sempre più ridotto. Tutte misure che dovrebbero avvicinare la Turchia all’Europa e consentire la riapertura del tavolo delle trattative per l’adesione di Ankara all’Unione. Sul piano economico, Kılıçdaroğlu ha promesso invece una maggiore ortodossia e l’abbandono delle politiche monetarie imposte da Erdogan, ripristinando anche l’autonomia della Banca centrale. In politica estera, invece, il leader dell’opposizione promette un riavvicinamento alla Nato, pur mantenendo un rapporto «bilanciato e costruttivo» con la Russia e continuando a mettere al primo posto gli interessi nazionali.

Gli altri candidati e i sondaggi – A contendersi la carica di presidente sono anche Muharrem İnce, ex leader del Chp e fondatore del Partito della patria, e Sinan Oğan, per lungo tempo membro dell’Mhp e sostenuto da una coalizione di partiti di destra nazionalisti. Nessuno dei due raggiungerà percentuali particolarmente significative, ma la loro indicazione di voto per un eventuale secondo turno potrebbe determinare l’esito delle urne. İnce, attestato intorno all’8%, sta avendo particolare successo tra i giovani, la fascia di popolazione in cui si registra ancora il maggior numero di indecisi.

* da FQ 29 aprile 2023


21 aprile 2023

Il piano tedesco per i riscaldamenti sostenibili e quello europeo che vuole vietare le caldaie a gas


di Elena Tebano*

Il governo tedesco ha approvato l'annunciato progetto di legge sull’energia degli edifici: prevede che dal 1° gennaio 2024 gli impianti di riscaldamento di nuova installazione debbano essere alimentati da almeno il 65% di energie rinnovabili. Questo di fatto esclude i riscaldamenti a gas, mentre è compatibile con le pompe di calore, il teleriscaldamento e gli impianti di riscaldamento a gas che possono essere convertiti a idrogeno (in questo ultimo caso però bisogna che il fornitore di gas presenti un piano vincolante in cui si impegna a passare all’idrogeno). La proposta di legge prevede alcune esenzioni (i proprietari di casa che hanno più di 80 anni possono continuare a installare nuovi impianti a combustibili fossili, così come le «case sotto tutela monumentale») e fondi per la transizione agli impianti sostenibili, con un sussidio che copre il 30% delle spese di conversione e può arrivare fino al 50% grazie ai bonus clima (saranno finanziati grazie al Fondo per il clima e le trasformazioni). «Questa legge non porterà nessuno a rimanere senza riscaldamento, né a dover vendere la propria casa» ha detto la ministra federale dell’Edilizia, la socialdemocratica Klara Geywitz. La riforma è stata fortemente voluta dal ministro dell’Economia dei Verdi Robert Habeck, tra le resistenze degli alleati di governo liberali. Il ministro delle Finanze e leder della Fdp Christian Lindner, racconta il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha messo a verbale di sperare che i partiti di governo «discutano intensamente la legge nell’ambito della procedura parlamentare e apportino anche le ulteriori modifiche necessarie».

La proposta di legge tedesca anticipa la riforma che la Commissione europea vuole introdurre in tutta l’Unione europea dal 1° gennaio 2029, e cioè il divieto di usare caldaie a gas (per ora è una bozza, la Commissione ne discuterà la prossima settimana). L’Unione europea progetta da tempo di imporre «limiti di progettazione ecocompatibile più rigorosi per i sistemi di riscaldamento, che implicano il 2029 come data finale per l’immissione sul mercato di caldaie a combustibili fossili autonome» (potrebbero essere ancora usati gli impianti ibridi che usano caldaie a gas insieme a pompe di calore).

In Germania i riscaldamenti ammontano al 30% di tutti i consumi energetici. In Italia secondo l’Ispra il settore residenziale e dei servizi produce il 25% di tutte le emissioni di gas serra del settore energetico, che a sua volta contribuisce per l’80% alle emissioni totali di gas serra. Significa che se si vuole combattere il surriscaldamento globale l’introduzione di impianti di riscaldamento più sostenibili è un passaggio ineludibile. Ma è anche il passaggio destinato a rendere più evidenti il prezzo della transizione verde per i “normali” cittadini. Cambiare l’impianto di riscaldamento è costoso e complicato: in molte case, soprattutto quelle più vecchie, non ci sono gli spazi per mettere le pompe di calore. E non tutti possono permettersi un investimento di migliaia di euro. Non solo: il divieto di installare nuove caldaie a gas colpirà anche tutta l’industria del settore.

La scommessa sul clima si giocherà tutta su riforme come questa. Stati ambiziosi in fatto di protezione dell’ambiente come la Germania e l’Europa tutta riusciranno a imporre una politica sostenibile solo se sapranno accompagnare i cittadini in questi cambiamenti, sostenendoli a livello pratico e finanziario. Imporre riforme così gravose dell’alto, senza aiuti, significa di fatto condannare al fallimento le politiche contro il surriscaldamento globale.

Il governo italiano finora ha dichiarato la propria contrarietà alle norme europee che obbligano all’efficientamento energetico degli edifici. «La direttiva sulle Case Green approvata in Parlamento europeo è insoddisfacente per l’Italia» ha detto a marzo il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin. «Individuare una quota di patrimonio edilizio esentabile per motivi di fattibilità economica è stato un passo doveroso e necessario, ma gli obiettivi temporali, specie per gli edifici residenziali esistenti, sono ad oggi non raggiungibili per il nostro Paese». Pesa il precedente del Superecobonus, che per come è stato formulato e messo in pratica ha dato adito a sprechi e truffe. Ma non fare niente per la protezione del clima è egualmente costoso. Il Consiglio dell’Unione europea stima che negli ultimi 40 anni le perdite finanziarie causate da fenomeni meteorologici e climatici estremi nell’Ue abbiano superato i 487 miliardi di euro, «un importo considerevolmente maggiore di quello sborsato dall’Ue in due anni per tutte le sue politiche e i suoi programmi». I Paesi europei che hanno pagato di più per le conseguenze del surriscaldamento globale sono Germania, Italia e Francia. Adattarsi ai cambiamenti climatici e prevenirli è dunque l’unica soluzione. È anche per questo che il governo dovrebbe usare il Pnrr per sostenere la transizione verde e renderla il più possibile sostenibile per cittadini e imprese. 

nella foto:  il ministro dell’Economia dei Verdi Robert Habeck

* da Corriere della Sera  - 21 aprile 2023 Rassegna Stampa 








 

13 aprile 2023

La Francia tra vecchi reattori e volontà di potenza

 Nucleare. Il governo ha chiesto a Edf, il produttore storico di elettricità che è in via di ri-nazionalizzazione, di aumentare la produzione. Ed è stato abolito il “tetto” del 50% di elettricità di origine atomica nel mix energetico, che era stato votato ai tempi della presidenza Hollande

di Anna Maria Merlo *

L’asse franco-tedesco, sia esaltato che temuto nella Ue, si spezza sul nucleare. La tensione sottotono che esiste da sempre è ormai esplosa con le conseguenze della guerra in Ucraina e la necessità di uscire dalla dipendenza dal gas russo.

La Francia non ha più remore e vuole tornare alle vecchie glorie, accusando la Germania di aver messo la Ue in una situazione di sudditanza rispetto a Mosca: il 21 marzo l’Assemblée nationale ha votato a favore del progetto di legge di “accelerazione” del rilancio del programma nucleare e il 28 febbraio Parigi, dopo aver ottenuto dalla Commissione di considerare “verde” l’idrogeno prodotto con energia nucleare, ha orchestrato nella Ue un fronte pro-nucleare (Bulgaria, Repubblica ceca, Croazia, Ungheria, Finlandia, Olanda, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia, l’Italia è paese osservatore), contro i paesi che difendono l’accelerazione delle energie rinnovabili. Oggi nella Ue un quarto dell’elettricità è di origine nucleare (con dipendenza dalla russa Rosatom per l’uranio arricchito).

Il governo francese ha chiesto a Edf, il produttore storico di elettricità che è in via di ri-nazionalizzazione, di aumentare la produzione. È stato abolito il “tetto” del 50% di elettricità di origine nucleare nel mix energetico, che era stato votato ai tempi della presidenza Hollande, anche se Macron, appena eletto nel 2017, aveva chiuso la più vecchia centrale francese, Fessenheim, una decisione presa dal suo predecessore. «Rinnoviamo la più grande avventura industriale degli anni ‘70» ha affermato la ministra dell’Energia, Agnès Pannier-Runacher. Nel paese dove la prima fonte di elettricità è nucleare con 56 reattori, il progetto è costruire 6 nuovi Epr (reattori ad acqua pressurizzata) all’orizzonte del 2035, metterne allo studio altri 8 e avviare un progetto di Smr (small modular reactor), valido anche per l’export. Inoltre, è allo studio il prolungamento a 60 anni della vita dei reattori già in funzione.

Dietro questa volontà di potenza nucleare, c’è una situazione molto meno brillante. Edf, al contrario di altri produttori di elettricità, deve fare i conti con un enorme passivo, 18 miliardi di euro. Nel 2022, Edf ha avuto la produzione più bassa da 30 anni, a causa dei vari problemi di corrosione, che hanno portato a bloccare la produzione in 4 reattori e a mettere a punto un costoso programma di revisione degli impianti: 66 miliardi di euro di costi, paragonabili ai 50-60 miliardi previsti per la costruzione dei 6 nuovi reattori. I costi, nel nucleare, gonfiano, come i tempi di costruzione: in Francia l’Epr di Flamanville dovrebbe entrare in servizio entro l’anno, con 12 anni di ritardo rispetto al previsto (i costi sono esplosi per gli Epr che Edf costruisce all’estero, in Gran Bretagna l’apertura di Hinkley Point è rimandata al 2027 e i costi sono cresciuti a 25 miliardi e in Finlandia ci sono 13 anni di ritardo).

Il governo aveva persino previsto di semplificare i controlli – con l’assorbimento dell’Istituto di radioprotezione da parte dell’Asn (Autorità di sicurezza nucleare) – ma ha dovuto rinunciare. E ora vuole aggravare le pene contro le “intrusioni” sui siti di produzione da parte degli ambientalisti

nella foto: la centrale nucleare di Bugey, a Saint-Vulbas vicino Lione

da il manifesto 12 aprile 2023

Semipresidenzialismo. Ecco com’è diventato un peso per la Francia

Intervista . Dany Cohen, SciencesPo, sui limiti istituzionali della V Repubblica «Macron è in difficoltà, la riforma delle pensioni non è legittimata»

di Anna Maria Merlo *

In Italia la maggioranza discute del semi presidenzialismo. In questi mesi, il “modello” francese mostra segni di crisi. Il presidente Emmanuel Macron è in difficoltà a far passare la riforma delle pensioni, contestata dalla piazza – già 11 giornate di mobilitazione da gennaio, con cortei e scioperi, una dodicesima ci sarà oggi – perché non ha ottenuto la maggioranza assoluta dell’Assemblée nationale alle legislative che hanno seguito l’elezione presidenziale del 2022. Dany Cohen, professore di Diritto a SciencesPo, ci aiuta a capire come funziona il sistema istituzionale francese.

La V Repubblica nel 1958 è nata per consentire un decisionismo di governo. Che cosa succede adesso con il blocco sulle pensioni?
In un regime come il nostro, più presidenziale che parlamentare, ci sono grandi difficoltà se manca la maggioranza a sostegno del presidente. Ma per rovesciare il governo ci vuole una maggioranza contraria. Ci vuole una maggioranza che appoggi il voto di censura. La prima mozione di censura votata in Francia è stata nel 1962, contro il governo Pompidou. Un fatto paradossale, tenendo conto che, dopo una IV Repubblica dove i governi cadevano spesso, con la V il presidente era stato dotato di un’arma di ritorsione, il potere di sciogliere l’Assemblée nationale. Una concentrazione di poteri che non esiste negli Usa, per esempio, dove il presidente non può sciogliere il Congresso.

Oggi in Francia tutte le critiche sono rivolte a Macron, non tanto al governo. Come mai?
Questo non dipende dal regime politico formale, ma dalla sua applicazione in chiave di monarchia repubblicana. In parte è la tendenza naturale delle istituzioni della V Repubblica, ma la monarchia repubblicana dipende molto dalla forte mediatizzazione della vita politica. Ci siamo allontanati dallo spirito della Costituzione della V Repubblica e il presidente oggi è in prima linea, più esposto. Alle origini, con De Gaulle, il primo ministro aveva libertà e potere più ampi di oggi. Le cose hanno cominciato a cambiare con Pompidou, che era stato primo ministro prima di essere presidente. E il fenomeno si è accentuato con Giscard nel 1974, anche se Chirac primo ministro conservava maggiori libertà perché il suo partito aveva molti più deputati che il partito del presidente dopo le elezioni del 1973, situazione unica nella V Repubblica.

I socialisti rappresentano una situazione particolare, erano stati fuori dal potere per un quarto di secolo, non avevano mai gestito le istituzioni. Poi Chirac ha convinto Jospin a rovesciare il calendario, mettendo prima le elezioni presidenziali e dopo le legislative. La conseguenza è stata la preminenza dell’elezione del presidente. Con Sarkozy il potere del presidente è ancora cresciuto. Per esempio, mentre prima ogni ministro aveva la libertà di nominare il proprio capo di gabinetto, con Sarkozy è lui a scegliere, imponendo così una sorta di controllore ai ministri. Macron ha fatto lo stesso, con la sola eccezione di Edouard Philippe.

Chi difende il presidenzialismo ne esalta la velocità nelle decisioni.
Non è automatico. Succede che sia sempre più utilizzata la procedura d’urgenza: le leggi passano in prima lettura all’Assemblée nationale e al Senato, poi il testo torna in seconda lettura nelle due camere, ma se si impone l’urgenza c’è una sola lettura all’Assemblée nationale. L’inconveniente è anche la riduzione della qualità nella redazione dei testi legislativi. Le leggi sono fatte per fare sensazione: sotto Sarkozy, per quasi il 90% delle leggi non erano stati pubblicati i decreti attuativi a due anni di distanza dal voto d’urgenza. Sono leggi fatte per esigenze di comunicazione. Ma questo non dipende dal regime istituzionale.

Si parla di uno scontro di legittimità: quella del presidente eletto, quella del Parlamento, che non ha votato la legge ma ha bocciato la censura, e infine quella della piazza.
In effetti la riforma delle pensioni non ha legittimità, è respinta da una grossa maggioranza della popolazione. Ma è una questione distinta dalla V Repubblica ed è indipendente dal tipo di regime. La crisi attuale assomiglia a quella dei tempi di Alain Juppé primo ministro, che nel 1997 ha portato allo scioglimento dell’Assemblée nationale e a nuove elezioni, senza passare però per un voto di censura. C’è chi ne deduce che in Francia non si possono fare riforme, che la popolazione è legata ai vantaggi sociali e che reagisce se si cerca di toccare qualcosa. Ma nei due casi, nel ’97 e oggi, si è verificato uno strappo tra quello che il candidato ha detto e quello che poi ha fatto.

Com’è andata?
Prendiamo Macron, che oggi dice: la riforma era nel mio programma del 2022. Ma nel 2017 lo stesso Macron aveva un programma con una riforma più giusta, preparata da economisti progressisti, che non prevedeva di modificare l’età pensionabile. La gente se lo ricorda. È vero che anche allora c’erano stati scioperi, ma perché oltre a passare a un regime pensionistico uguale per tutti abolendo i regimi speciali, il primo ministro, Edouard Philippe, più a destra, ne aveva approfittato per infilare un parametro sull’età, perdendo così l’appoggio del sindacato Cfdt. L’aumento dell’età pensionabile confermava infatti l’ingiustizia: chi ha cominciato a lavorare prima lavora più a lungo. Così, con la ricerca di un piccolo vantaggio, Philippe aveva reso fragile tutto l’edificio.

E nel 1997?
Allora Jacques Chirac, sfidato a destra da Edouard Balladur che era dato vincente, aveva vinto con una campagna elettorale più a sinistra, contro la frattura sociale. Ma poi con la riforma Juppé aveva fatto esattamente il contrario. I francesi hanno avuto l’impressione di essere stati imbrogliati, come oggi. I francesi dell’era Mitterrand ricordano soprattutto l’abbassamento dell’età della pensione da 65 a 60 anni. Così il progetto dei 64 anni è vissuto come un passo indietro sociale, un ritorno alla situazione di prima di Mitterrand.

Sulle pensioni adesso tutto è in mano al Consiglio costituzionale che deve dare un parere sul testo di legge, atteso per il 14 aprile?
Il Consiglio costituzionale è stato concepito per non funzionare, anche se poi le cose sono un po’ cambiate. Sotto De Gaulle era agli ordini del potere politico, poi ha preso maggiore importanza dopo la morte del generale. Ma è diverso dalla Corte di Karlsruhe in Germania, non ha la sua indipendenza, qui in Francia membri sono designati politicamente. Solo con Robert Badinter c’è stato un professore di diritto alla sua presidenza.

* da il manifesto  - 13 aprile 2023