Germania. Nove mesi dopo la
chiusura dell’ultima centrale il cancelliere Olaf Scholz pronuncia la sentenza
di morte definitiva per l’energia atomica
di Sebastiano
Canetta *
«Il nucleare è un cavallo
morto». Nove mesi dopo la chiusura dell’ultima centrale il cancelliere Olaf
Scholz pronuncia la sentenza di morte definitiva per l’energia atomica in
Germania. «Non tornerà mai più» è la promessa alla radio pubblica Deutschlandfunk,
supportata dai dati incontrovertibili che dimostrano come il Paese più
industrializzato d’Europa abbia perfettamente digerito lo storico “phase out”,
al contrario di quanto pronosticavano i nuclearisti.
Il mix energetico tedesco nei
primi sei mesi del 2023, appena certificato dall’Istituto Fraunhofer di Monaco,
restituisce la generazione di watt da fonti rinnovabili ormai a quota 57,7%
(era il 51,8% nello stesso periodo del 2022) con il drastico calo della
produzione da lignite (- 21%), carbone fossile (- 23%) e gas naturale (- 4%).
Insomma, dati alla mano,
Berlino ha completato il distacco dall’atomo con successo. Anche se rimangono
le accuse di «autolesionismo» e «suicidio economico» dei liberali di Fdp e
dell’estrema destra di Alternative für Deutschland, gli unici rimasti a difendere
l’atomo morto ma non definitivamente sepolto.
Rimane sotto terra,
lontanissima dai riflettori, la tossica eredità del programma nucleare civile
tedesco avviato in pompa magna negli anni Sessanta e chiuso nel 2011 da Angela
Merkel all’indomani del disastro di Fukushima, dopo anni di proteste degli ambientalisti
del Sole che Ride.
Il lascito alle generazioni
future sono tonnellate di metri cubi di scarti altamente radioattivi stivati
«temporaneamente» da decenni nelle miniere fra la Bassa Sassonia e il
Brandeburgo. In ambiente tutt’altro che sicuro, vista la fretta del governo federale
di trovare il famigerato «Endlager» (il deposito finale) entro il 2030: un buco
sotto terra «profondo almeno un chilometro con tenuta stagna per minimo un
milione di anni» come si legge nell’inquietante relazione tecnica presentata
dagli esperti ai governatori dei 16 Land.
Solo su questo d’ora in poi in Germania verterà il dibattito sul nucleare, con
buona pace del ministro Christian Lindner, segretario di Fdp e falco delle
finanze perfettamente consapevole che al di là degli annunci i margini per il
ritorno dell’atomo sono pari a zero: mancano investitori e compagnie di
assicurazione disposti a sobbarcarsi impianti che in media funzionano poco più
di metà anno, la cui vita tecnica viene prorogata d’ufficio per rientrare dei
costi faraonici.
In altre parole senza più
aiuti pubblici il nucleare non ha l’energia per stare in piedi, è il sottotesto
del cancelliere Scholz (che ieri ha messo sui social una buffa foto con benda
da pirata a causa di un incidente), pronto a sottolineare come «anche volendo
chiunque oggi volesse costruire centrali nucleari avrebbe bisogno come minimo
di tre lustri per farlo e dovrebbe spendere dai 15 ai 20 miliardi ciascuna».
Dal punto di vista del
business come puntare su un ronzino, anzi un «cavallo morto» che non corre più
nemmeno a Parigi, come evidenzia la ripetuta esportazione di energia tedesca
verso la rete francese colpita da continue interruzioni.
* da il manifesto - 5
settembre 2023
*
Perché il nucleare pulito è
una chimera
Energia. Mentre la Germania
spegneva le sue centrali atomiche, l’Italia ha partecipato da «osservatore» a
un meeting dei paesi nuclearisti
di Gruppo
di ricerca Energia per l'Italia * (
27 aprile 2023 )
Il 15 aprile la Germania ha
spento i suoi ultimi tre reattori nucleari ancora in funzione (Isar 2, Emsland
e Neckarwestheim), con quattro mesi di ritardo rispetto alla scadenza
originaria. Lo stop è giunto a conclusione di un percorso che ha portato la Germania
ad abbandonare l’opzione nucleare fin dopo il grave incidente di Fukushima e a
privilegiare la produzione elettrica da fonti rinnovabili: nel primo trimestre
del 2023, queste hanno infatti coperto il 51% del fabbisogno di energia
elettrica contro un risicato 4% del nucleare. L’obiettivo al 2030 è ancora più
ambizioso: ottenere un mix energetico composto per l’80% da rinnovabili.
A Parigi, pochi giorni prima,
l’Italia invece si univa, in qualità di osservatore, assieme a Belgio e Olanda,
ai paesi appartenenti all’Alleanza Nucleare, che concordavano «sulla necessità
di un quadro industriale e finanziario favorevole per i progetti nucleari»,
sottolineando l’importanza dei piccoli reattori modulari che, come scritto nel
comunicato finale, «possono contribuire, insieme alle grandi centrali nucleari,
al raggiungimento degli obiettivi climatici dell’Ue e alla sicurezza
energetica, sviluppando competenze e indipendenza tecnologica». Secondo fonti
governative, l’Italia non avrebbe sottoscritto alcun documento, ma l’aver
partecipato alla riunione resta pur sempre un fatto politicamente significativo
e coerente con quanto dichiarato dalla Presidente Meloni al termine del
Consiglio Europeo del 24 marzo.
L’ITALIA SI AGGANCIA AL TRENO del
cosiddetto nucleare pulito e sicuro, seguendo il miraggio della produzione di
energia elettrica da fusione nucleare. Tanto ottimismo appare fuori luogo:
produrre energia dalla fusione nucleare è tutt’altro che facile.Realizzare il
processo di fusione nucleare è stato paragonato a mettere il sole in bottiglia,
sicuramente una frase d’effetto, capace di colpire la fantasia del pubblico,
che però nasconde cosa in realtà ciò significhi. Allora, vale la pena
confrontare quello che davvero avviene nel nucleo del sole a 150 milioni di km
da noi rispetto a quanto possiamo disporre noi sulla piccola Terra che gli
ruota attorno. All’interno della nostra stella c’è un plasma di protoni che, a
quattro per volta, grazie a temperatura e pressioni elevatissime (16 milioni di
gradi centigradi e 500 miliardi di atmosfere) fondono per dare un nucleo di
elio, con un difetto di massa di 0,007, che si traduce in un’enorme quantità di
energia secondo la famosa formula di Einstein E = mc2.
Poiché queste estreme
condizioni non possono essere riprodotte, nei laboratori terrestri più avanzati
si cerca di ovviare all’impossibile replicabilità del processo di fusione
solare, imitandone solo il principio. Si ricorre, infatti, ai nuclei di due isotopi
dell’idrogeno – il deuterio e il trizio – che, però, non hanno alcuna voglia di
fondersi perché, essendo entrambi carichi positivamente, si respingono
violentemente. Tuttavia, se si riesce in qualche modo a portarli a contatto,
entra in gioco una forza nucleare attrattiva che agisce solo a cortissimo
raggio, ma che è molto più intensa della repulsione elettromagnetica: i due
nuclei fondono con la formazione di un nucleo di elio (He), l’espulsione di un
neutrone e l’emissione di una grandissima quantità di energia che si manifesta
sotto forma di calore. Il problema è che, al fine di costringere i nuclei di
deuterio e trizio a scontrarsi per poi incollarsi, occorre mantenere confinato
il tutto per il tempo necessario a produrre la fusione.
PER OTTENERE CIÒ SI
UTILIZZANO principalmente due approcci. Uno si basa sul confinamento
magnetico del plasma caldissimo formato dai nuclei di deuterio e trizio: un
campo magnetico potentissimo generato dall’esterno costringe questi nuclei a
muoversi lungo traiettorie circolari in modo che, giro dopo giro, acquistano
l’energia necessaria per dare il processo di fusione. La difficoltà è che il
campo magnetico deve essere intensissimo e per mantenerlo tale ci vogliono dei
magneti superconduttori che devono lavorare a temperature molto basse (-268
°C). L’altro approccio è quello basato sul confinamento inerziale che consiste
nel bombardare con dei potentissimi impulsi laser un piccolo contenitore in cui
è presente una miscela solidificata (in quanto freddissima) di deuterio e
trizio: si verifica così una intensissima compressione che fa salire
contestualmente la pressione e la temperatura (fino a una sessantina di milioni
di gradi), tanto da innescare la fusione.
IL PRIMO APPROCCIO È QUELLO che
si sta affrontando a Cadarache in Francia da parte di un folto gruppo di paesi,
compresi Usa, Ue, Cina e India, noto come il progetto Iter. La dice lunga il
fatto che sono già stati spesi 20 miliardi di euro senza essere ancora riusciti
a produrre quantità di energia maggiori di quelle utilizzate.
PRESSO LA NATIONAL IGNITION
FACILITY (NIF) del Laurence Livermore National Laboratory in
California (Usa) si sta invece studiando il secondo approccio. Il 13 dicembre
dello scorso anno i giornali di tutto il mondo hanno riportato con grande
enfasi che il NIF ha ottenuto un importante risultato: l’energia di 192 laser
focalizzata su una sferetta (pellet) contenente deuterio e trizio ha indotto in
pochi nanosecondi la loro fusione, generando una quantità di energia (3,15 MJ)
leggermente maggiore a quella iniettata dai laser nella sferetta (2,05 MJ).
La cosa passata sotto
silenzio è che i 192 laser hanno consumato circa 400 MJ, ai quali va aggiunta
l’energia richiesta dalle altre apparecchiature costruite e utilizzate per
preparare e seguire l’esperimento. Oltre a vincere la sfida energetica (produrre
più energia di quella consumata), per generare energia su scala commerciale si
deve vincere un’altra sfida praticamente impossibile: modificare
l’apparecchiatura per far sì che produca energia non per una piccolissima
frazione di secondo, ma in modo continuo. La maggioranza degli esperti concorda
sul fatto che con questo metodo così complicato è impossibile generare
elettricità a costi commerciali competitivi. C’è allora il dubbio che i
laboratori di ricerca, per assicurarsi gli ingenti finanziamenti pubblici
necessari, cercano di vendere ai decisori e ai cittadini i risultati conseguiti
come successi strepitosi e, anche, che la competizione presente da decenni tra
confinamento magnetico e confinamento inerziale spinge a dimostrare di essere i
più bravi. Resta sullo sfondo l’inquietante spettro militare, perché il compito
primario del NIF non è quello di studiare la fusione per ottenere energia, ma
di sfruttarla a fini bellici.
LA FUSIONE NUCLEARE HA MOLTI
ALTRI MA. Il primo riguarda il fatto che, indipendentemente dal
modo con cui verrà ottenuto questo processo (ammesso che ci si riesca), occorre
disporre dei due isotopi dell’idrogeno. Mentre il deuterio è abbastanza
abbondante, il trizio è molto raro (è radioattivo e decade con un tempo di
dimezzamento di soli 12 anni). Quindi, problema non da poco, ci si imbarca in
un’impresa titanica sapendo già in partenza che manca la materia prima. Chi
lavora nel settore dice che il trizio potrà essere ottenuto in situ bombardando
con neutroni il litio 6, cosa che però aggiunge complessità a complessità.
UN ULTERIORE MA È CONNESSO alla
radioattività che i neutroni prodotti nella fusione inducono nei materiali che
li assorbono, il che vuol dire che la struttura stessa del reattore diventa
radioattiva e che, in fase di dismissione, crea scorie. Anche se in questo caso
i tempi di decadimento degli isotopi radioattivi non sono così lunghi come
quelli creati dalla fissione, è un falso in atto pubblico definire il nucleare
da fusione una tecnologia pulita, perché lascia comunque il problema della
difficile gestione delle scorie.
C’È POI UN GROSSO MA LEGATO al
confinamento magnetico e, in particolare, al fatto che i superconduttori devono
essere raffreddati a elio liquido, un gas molto raro e sicuramente non
sufficiente per la gestione dei futuri reattori a fusione dal momento che già
ora sta scarseggiando. Qualcuno teme addirittura che a breve non sarà più
possibile utilizzare la tecnica Nmr, così importante nella ricerca scientifica
e, soprattutto, in ambito diagnostico, proprio perché usa come liquido di
raffreddamento l’elio.
LA STORIA DELLA FUSIONE
NUCLEARE, dagli anni Cinquanta a oggi, dimostra che questa
tecnologia non riuscirà a produrre elettricità a bassi costi e in modo
attendibile in un futuro ragionevolmente vicino. Nonostante ciò, l’11 marzo di
quest’anno, i giornali hanno riportato che Eni vuole puntare tutto sulla
fusione nucleare«perché – ha detto l’ad Claudo Descalzi – permette di ottenere
energia pulita, inesauribile e sicura per tutti: una vera rivoluzione capace di
superare le diseguaglianze fra le nazioni e di favorire la pace». Questa affermazione
lascia alquanto perplessi dal momento non si capisce come i paesi poveri
potranno accedere a una tecnologia così sofisticata e costosa.
Descalzi ha poi aggiunto che
nel 2025 sarà pronto un impianto pilota a confinamento magnetico in grado di
ottenere elettricità dalla fusione e che nel 2030 sarà operativa la prima
centrale industriale basata su questa tecnologia. Sembra che all’improvviso e
velocemente verranno risolti i tanti problemi incontrati dagli scienziati che
lavorano nel settore da decenni: un vero miracolo! C’è il dubbio, non tanto
remoto, che questa sia un’ulteriore mossa di Eni per sottrarre risorse alle già
mature ed efficienti tecnologie del fotovoltaico e dell’eolico.
* coordinato dal professor
Vincenzo Balzani