27 marzo 2023

«A Israele serve una nuova democrazia, che sia di tutti»

Israele. Parla Orly Noy, attivista del Mizrahi Civic Collective. «Respingiamo la riforma di Netanyahu ma anche il vecchio ordine, la democrazia deve essere uguale per tutti, anche per i palestinesi in Israele»

di Michele Giorgio *

 Ieri sera centinaia di migliaia di israeliani hanno tenuto raduni di massa e cortei a Tel Aviv e in altre180 città e centri abitati contro il progetto di riforma giudiziaria avviata dal governo Netanyahu alla Knesset. E a partire da oggi attueranno una «settimana di paralisi» del paese. Abbiamo intervistato Orly Noy, storica attivista dei diritti degli ebrei mizrahim (mediorientali).  Noy lancia un appello per una democrazia israeliana nuova, non più ebraica ma per tutti i cittadini.

Incurante delle proteste e delle tensioni, anche nelle forze armate, il governo Netanyahu nei prossimi giorni accelererà l’iter alla Knesset in modo da far diventare legge al più presto la riforma della giustizia. Poi cosa accadrà?

Non lo sappiamo. La Corte suprema, cioè l’organo di controllo che è tra i principali bersagli della maggioranza, potrebbe non dare la sua approvazione alle nuove leggi. Il ministro della giustizia ha già minacciato i giudici. Non osate respingere la riforma, ha avvertito. Se invece lo faranno cosa accadrà, avremo due fonti di autorità nel paese, governo e Corte suprema? Giuristi ed esperti non hanno una risposta precisa a questi interrogativi.

Al centro di questo scontro ci sono la Corte suprema e l’autonomia dei giudici. Ma c’è anche un aspetto di cui si parla poco. La riforma punta a dare un peso maggiore al ruolo delle corti rabbiniche, religiose.

Si tratta di un punto centrale che la protesta tocca solo in piccola misura. L’espansione delle competenze dei tribunali rabbinici sarà devastante soprattutto per le donne più deboli socialmente, come le mizrahi. Darà più potere agli uomini. Già ora gli uomini sono in grado di estorcere condizioni favorevoli in caso di divorzio davanti ai giudici religiosi che (sulla base della legge ebraica) non garantiscono pari diritti a uomini e donne. Molte donne rinunciano ai loro diritti pur di ottenere il divorzio, persino alla custodia dei figli pur di separarsi da mariti violenti. Dopo la riforma peggiorerà tutto.

Sono previsti cambiamenti anche nell’istruzione.

Quelli del governo puntano alla privatizzazione del sistema scolastico. Le conseguenze saranno negative soprattutto per le comunità tenute ai margini, come i palestinesi (cittadini di Israele) e gli ebrei etiopi. Finiranno per allargare il gap educativo tra bambini di famiglie benestanti e quelli a basso reddito e più in generale tra ebrei e arabi.

Il quotidiano Haaretz qualche giorno fa scriveva che la contestazione di massa di Netanyahu è molto importante ma che questa è la protesta dei privilegiati, sottolineando l’assenza dalle strade della minoranza araba-palestinese così come gli ebrei etiopi e di parte di quelli mizrahim.

Protestano coloro che trovano accettabile la cosiddetta democrazia ebraica e vorrebbero riportare la situazione a prima dell’ascesa al potere dell’estrema destra. Perché i palestinesi (in Israele) non partecipano alle proteste? Per rispondere a questa domanda è sufficiente osservare le manifestazioni. Un mare di bandiere israeliane sventolate da centinaia di convinti sionisti, sì schierati contro Netanyahu ma fortemente nazionalisti. Un mondo al quale la minoranza araba (21% del totale della popolazione, ndr) sente di non appartenere. Le personalità che gli organizzatori delle proteste invitano a parlare durante i raduni sono quasi sempre ex alti ufficiali delle Forze armate ed ex capi della polizia che si descrivono come i veri patrioti a difesa di Israele, ebraico e democratico. Intervengono persone come l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz che ha dedicato la sua vita combattere i palestinesi. La Corte suprema, non lo dimentichiamo, ha approvato la legge che proclama Israele lo Stato della nazione ebraica e non di tutti i suoi cittadini. La comunità araba, perciò, non si sente coinvolta dalla protesta contro Netanyahu, pur sapendo che questo governo di estrema destra la colpirà duramente. Allo stesso modo si tengono a distanza dalle piazze gli ebrei etiopi. Sono contro Netanyahu e consapevoli che l’indipendenza del sistema giudiziario per loro è una protezione. Ma ricordano che la Corte suprema è rimasta in silenzio di fronte alla inaudita violenza della polizia contro la loro comunità. Così come la Corte suprema non è intervenuta davanti alla rimozione di tante famiglie ebree mizrahi povere da Kfar Shalem, Givat Amal e altre aree soggette a una gentrificazione spietata finalizzata a favorire i grandi investimenti edilizi. Queste e altre comunità ai margini chiedono vera giustizia, vera democrazia, vera uguaglianza, non il vecchio ordine.

Quale democrazia propone il Mizrahi Civic Collective di cui lei fa parte.

Siamo un gruppo di attivisti che guarda con orrore alla rivoluzione che sta attuando il governo Netanyahu. Allo stesso tempo non crediamo nella democrazia israeliana alla quale inneggiano nelle strade. Pensiamo che la lotta contro la discriminazione (da parte degli ebrei ashkenaziti, di origine europea, ndr) che ancora colpisce gli ebrei di origine mediorientale debba unirsi a quella dei palestinesi in Israele e nei Territori. Chiediamo una nuova democrazia che includa tutti, senza eccezioni, dai cittadini arabi agli ebrei etiopi, i mizrahi poveri, anche i lavoratori migranti, su di un piano di completa uguaglianza, di giustizia sociale ed economica. Chiediamo che abbia fine subito l’occupazione militare dei Territori e che i palestinesi possano godere di tutti i loro diritti come popolo e come individui. Questo è l’Israele del futuro che vogliamo.

 nella foto: Tel Aviv. Manifestazione contro il premier Netanyahu

* da il manifesto 26 marzo 2023

25 marzo 2023

«Macron, ascesa e caduta dell’ultimo neoliberale»

Stefano Palombarini, economista politico all'università Parigi 8: "Il presidente francese, come Blair o Renzi, applica un modello fallito miseramente ovunque. Una parabola di apparente innovazione  che è stata seguita da una crisi distruttiva"

Intervista di Filippo Ortona *

Stefano Palombarini è ricercatore in economia politica all’università Parigi 8 – Vincennes. Con Bruno Amable ha scritto L’illusion du bloc bourgeois: Alliances sociales et avenir du modèle français (2017, non tradotto), una delle prime e più approfondite analisi sul significato politico e sociale dell’ascensione di Emmanuel Macron alla presidenza francese.

Cos’è il «blocco borghese», e cosa rappresenta Macron nella costituzione di questo blocco? 

Il blocco borghese è un’alleanza specifica – e relativamente nuova in Francia – che nasce dalla crisi dei due blocchi storici della politica francese: la destra di tradizione gollista e il blocco di sinistra emerso negli anni Settanta. Entrambi entrati in crisi nel corso delle trasformazioni neoliberali degli anni Ottanta, sono definitivamente precipitati nel 2017, tagliati fuori al primo turno delle presidenziali. Dentro a questa crisi si è aperta un’ipotesi di un’alleanza sociale nuova, che mettesse assieme i gruppi sociali favorevoli alle riforme neoliberali, che è esattamente quello che ha fatto Emmanuel Macron. L’abbiamo chiamato «blocco borghese» perché se è vero che da un punto di vista politico sta al centro, da un punto di vista sociale sta in alto, raccogliendo al suo interno la parte delle classi medio-alte di entrambi i vecchi blocchi di cui sopra. È costruito attorno all’agenda neoliberale, ed è caratterizzato dal debole sostegno tra i ceti popolari e dal fatto di essere minoritario nella società.

La protesta contro la riforma delle pensioni, e i sondaggi, hanno mostrato un’opposizione pressoché totale alla politica di Macron. C’è un erosione del suo consenso?

In realtà il consenso a Macron e al blocco che rappresenta è stabile. Storicamente, il consenso alle riforme neoliberali in Francia è sempre stato attorno al 20-25%. E quelli sono anche i numeri di Macron, secondo i sondaggi. È la sua dimensione, elettorale e sociale.

Cosa rappresenta il movimento sociale attuale per il blocco borghese e per il blocco di sinistra che gli si oppone? Stiamo assistendo alla crisi del primo, e alla rivincita del secondo?


In un certo senso. Il blocco borghese è composto soprattutto da persone che pensano di trarre vantaggio dalle promesse di promozione sociale con cui i governanti cercano di «vendere» le riforme neoliberali: la retorica sul merito, la competizione, l’abbattimento della fiscalità. Là dove queste ricette sono state applicate, le corrispettive promesse non sono state mantenute, in particolare per quanto riguarda le classi medie. Quindi la crisi del blocco borghese è inevitabile, e vi stiamo in parte assistendo. La questione è cosa viene dopo. Da un lato, il movimento sociale attuale ha fatto in modo di rimettere i temi della politica economica al centro del dibattito, impedendo ai media di riferimento del blocco borghese di saturare l’aria con temi quali l’immigrazione, la sicurezza, l’Islam, cosa positiva per il blocco della sinistra anti-liberista rappresentata dalla Nupes. Dall’altra, tuttavia, le manifestazioni attuali hanno un aspetto di reazione alla negazione dei meccanismi democratici. Questi sono terreni fertili per l’estrema destra. È una situazione aperta, cosa che è già di per sé una buona notizia, se guardiamo ad altri paesi, per esempio l’Italia.

Macron incarna una contraddizione, campione dei liberali europei da un lato, e autore di mosse autoritarie dall’altro. Come la spiega?
Macron è l’ultimo neoliberista, come da titolo della traduzione inglese del nostro libro (The Last neoliberal, Verso, 2021). L’ultimo di quei leader come Blair, Zapatero, Schroeder o Renzi, politici che hanno incarnato un modello – la riforma neoliberale – che è fallito miseramente ovunque è stato applicato. Ognuno di questi politici è finito assai male, e non è un caso. Tutti hanno avuto la stessa parabole di apparente innovazione iniziale, seguita da una rapida crisi distruttiva. La caratteristica francese rispetto a un Renzi qualunque, è l’assetto istituzionale. Una volta entrato in crisi e perso il potere, Renzi è stato messo sostanzialmente fuori dai giochi; in Francia, invece, le istituzioni permettono a un presidente che perde il consenso di restare al potere. Allora per continuare a esercitarlo, è obbligato a non far funzionare i meccanismi democratici normali. È totalmente assurdo, ma in Francia un singolo – il presidente – può approvare la riforma delle pensioni senza che venga votata in parlamento, visto che la sfiducia è praticamente impossibile da implementare. Ma così facendo apre a un effetto-cascata, provocando proteste che deve sedare, e quindi si arriva alla repressione dei movimenti sociali, alla marginalizzazione dei sindacati. Tutto ciò ha un legame con l’assetto della Quinta Repubblica che concentra un potere incredibile nelle mani di un solo uomo.

* da il manifesto 23 marzo 2023

*

E Macron cita la riforma Fornero per dirsi buono

Francia. Mostrato il prospetto dell'età di ritiro negli altri paesi: l'Italia è nettamente in testa con 67 anni. In realtà a breve saranno 70. Chissà che qualcuno si convincerà a protestare anche qua. 

di Massimo Franchi *

L’argomento clou usato da Emmanuel Macron per convincere i francesi che la sua riforma delle pensioni in fondo non è così dura è un prospetto mostrato a favor di telecamera: «Età di pensionamento legale negli altri paesi». Si parte con gli Stati Uniti a quota 62 a cui ora è appaiata la Francia. Aumentandola, come succederà da settembre, a 64 anni Macron ha gioco facile a dimostrare come questa soglia sia ancora bassa: Giappone e Canada 65; Germania 65 e 10 mesi. E siamo ancora a metà classifica. In testa per ampio distacco c’è il tricolore italiano. Elsa Fornero e Mario Monti ci regalano il primato mondiale: 67 anni. Ben 8 mesi in più dei frugali Paesi Bassi. In realtà Macron si è dimenticato di citare il meccanismo infernale per cui l’età di pensionamento della riforma Fornero nel giro di pochi decenni sarà a quota 70 anni: l’adeguamento automatico all’aspettativa di vita. In una versione unica al mondo: qualunque aumento viene traslato totalmente sull’età di ritiro, come se tutta la vita fosse di lavoro. Nel 2018 il manifesto calcolò che la norma aveva già rubato ai futuri pensionati almeno 6 mesi. Nel 2030 saranno anni.

Chissà che la notizia dell’italico primato mondiale convinca invece a copiare le proteste francesi. A partire da un tratto poco sottolineato al di qua delle Alpi: in piazza vanno anche i giovani, sfatando il mito della guerra generazionale. Una manifestazione per la pensione contributiva di garanzia per giovani e precari sarebbe un bel primo passo. Di certo più partecipato delle sole tre ore di sciopero fatte contro la Fornero.

* (da il - il manifesto – 23 marzo 2023 )

20 marzo 2023

L’allarme delle Regioni: sanità pubblica italiana verso il collasso

di Giorgia Audiello *

Il Sistema sanitario nazionale (SSN) versa in condizioni di grave criticità a causa del definanziamento che il settore ha subito nell’ultimo decennio. Ora il rischio concreto è che, senza nuovi ingenti finanziamenti, il SSN sia vicino al collasso e costretto a tagliare importanti servizi pubblici ai cittadini. È quanto hanno denunciato le Regioni in un documento redatto dalla Commissione Salute, guidata da Raffaele Donini, in vista di un incontro con il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, e quello della Salute, Orazio Schillaci, avvenuto lo scorso 7 marzo. «Non poter disporre delle risorse sufficienti ad erogare tutta l’assistenza necessaria comporta, per la nostra sanità, il rischio, concreto, di non assistere le fasce più deboli della popolazione, con la compressione di un diritto essenziale costituzionalmente tutelato», è l’allarme che le Regioni hanno lanciato durante l’incontro. Nel documento di legge, inoltre, che «Se davvero il livello di finanziamento del SSN per i prossimi anni dovrà assestarsi al 6% del PIL, prospettiva che le regioni chiedono che venga assolutamente scongiurata, occorrerà allora adoperare un linguaggio di verità con i cittadini, affinché vengano ricalibrate al ribasso le loro aspettative nei confronti del SSN. Saranno necessarie scelte dolorose, ma non più procrastinabili, al fine di evitare che le mancate scelte producano nel sistema iniquità ancora più gravi di quelle già presenti». Una situazione che rischia di compromettere il carattere universalistico ed uniforme che ha contraddistinto a lungo il SSN, ma che da tempo sta subendo importanti contraccolpi in favore della sanità privata.

Quella denunciata dalle Regioni, dunque, non è certo una novità, quanto piuttosto l’ultimo disperato appello d’aiuto per cercare di risolvere un problema che viene da lontano e che ora sta raggiungendo l’apice con l’impossibilità di fornire ai cittadini i servizi assistenziali di base. Per questo motivo, le Regioni hanno chiesto ai ministri «l’apertura immediata di un tavolo di lavoro che possa condividere entro e non oltre la fine del mese di aprile 2023 interventi urgenti e risolutivi di ordine finanziario e legislativo attraverso cui consentire alle regioni di non interrompere la programmazione sanitaria e di evitare la riduzione dei servizi sanitari e socioassistenziali». Una proposta in realtà solo in parte condivisa da Giorgetti e Schillaci che, a quanto si apprende, hanno fatto sapere che – almeno nel breve periodo – non ci sono molti margini per nuove risorse finanziarie. Le Regioni hanno anche chiesto «di rendere esigibile il principio secondo il quale nessuna regione debba sottoporsi a Piani di rientro o di riduzione dei servizi o aumento della fiscalità generale a causa del mancato riconoscimento dell’attuale criticità finanziaria dovuta ai costi riguardanti l’emergenza pandemica ed energetica. In caso contrario ne andrebbe progressivamente ed irrimediabilmente compromesso il sistema sanitario universalistico italiano».

Nel documento sono anche spiegati i principali motivi che hanno compromesso la sostenibilità economico-finanziaria dei bilanci sanitari regionali: tra questi al primo posto vi è l’insufficiente livello di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, su cui grava, diversamente da quanto accade per le altre amministrazioni pubbliche, anche il finanziamento degli oneri per i rinnovi contrattuali del personale dipendente e convenzionato del SSN. A questo si aggiunge il mancato finanziamento di una quota rilevante delle spese sostenute per l’attuazione delle misure di contrasto alla pandemia da Covid-19 e per l’attuazione della campagna vaccinale di massa, per oltre 3,8 miliardi nell’anno 2021, a cui le Regioni hanno dovuto sopperire con risorse proprie al fine di garantire l’equilibrio di bilancio. Infine, a pesare è il considerevole aumento dei costi energetici sostenuti dalle strutture sanitarie e socioassistenziali, pari a più 1,4 miliardi rispetto al 2021. Durante l’incontro con gli esponenti del governo sono stati fatti presente i principali problemi del settore, tra cui spiccano al primo posto quello della carenza di personale e la criticità dei pronto soccorso.

Nel testo si fa presente che «le diverse manovre di finanza pubblica approvate a partire dal 2015, hanno inciso in maniera rilevante sul livello di finanziamento che si è potuto garantire in concreto al SSN, al punto che per il 2019 sono mancati all’appello più di 10 miliardi di euro, rispetto ai 125,34 programmati», raggiungendo così un’incidenza percentuale rispetto al PIL pari al 7%. Una percentuale inferiore al 9,9% della Germania, al 9,3% della Francia e all’8% del Regno Unito, secondo i dati OCSE. Ciò comporta almeno due importanti conseguenze che rischiano di smantellare definitivamente il sistema sanitario pubblico: la crescita considerevole della spesa sanitaria privata che nel 2021 ha superato i 40 miliardi di euro, infrangendo la soglia simbolica del 25% della spesa sanitaria annua complessiva; e «la preoccupante prospettiva che il livello di finanziamento del SSN per il 2025 possa atterrare nientedimeno al 6,0% del PIL».

Non si intravvedono, almeno al momento, soluzioni alla drammatica crisi in cui versa il SSN,e d’altra parte non potrebbe essere altrimenti. Di fronte a un sistema di stato sociale che necessita di cospicui rifinanziamenti per tornare efficiente vi sarebbero solo due strade possibili: la prima consiste nel violare i vincoli di bilancio europei e ricostituire l’assistenza sanitaria finanziandola in deficit (soluzione però impossibile quanto meno senza rompere con Bruxelles), la seconda invece consiste nel finanziare l’assistenza a tutti aumentando la tassazione sulle rendite finanziarie e sui grandi patrimoni (soluzione possibile, in Europa portata avanti dalla Spagna, ma a cui il centro-destra italiano è ideologicamente contrario, portando anzi avanti un progetto di riforma come la flat-tax che si muove in direzione opposta, diminuendo ulteriormente le tasse ai più abbienti). La terza opzione che rimane è quella che l’Italia sta effettivamente portando avanti: assistere senza intervenire al collasso della sanità pubblica.

 * da  www.lindipendente.online     20 Marzo 2023

15 marzo 2023

Bipolarismo, astensionismo, presidenzialismo. Il rischio di un Italia immobile da cui non si tornerebbe indietro.

di Massimo Marino

A quasi sei mesi dalle elezioni politiche del 25 settembre scorso è utile provare a farsi con serietà  una domanda del tutto banale: Dove stiamo andando?  C’è in vista un nuovo fascismo aggiornato al 21esimo secolo? C’è una sinistra o qualcun‘altro in marcia verso un cambiamento, bello o brutto che sia? Non credete che ci voglia qualcuno e qualcosa d’altro che non c’è ?

Nelle ore precedenti l’annuncio dei resultati del 25 settembre ho pubblicato il mio ultimo intervento (Elezioni, programmi, progetti. Ma una vera alternativa non c’è.) al solito non brevissimo perché’ non amo semplificare troppo a costo di perdere qualche lettore.  Vi dico come la vedo adesso dopo una pausa di sei mesi:

1) Non c’è stato nessun trionfo del centro-destra né di altri. O meglio il centro-destra è diventato destra-centro praticamente con  un risultato immutato rispetto a 5 anni fa: circa 12,9 mil di voti rispetto ai 12,5 del 2018 ma il corpo elettorale complessivo - interno + estero - è aumentato da 50,1 a quasi 50,9 milioni.

Dal 2018 al 2023 la somma di tutti gli altri votanti attivi ( quelli che hanno votato qualcuno fuori dal CDX ) è scesa da circa 22 a 17 milioni di voti (circa 5 milioni in meno) perché gli astenuti, comprese bianche e nulle, ovviamente sono saliti: da 16,1 a 21,6 milioni di elettori ( circa 5,5 mil in più). I voti effettivamente dati ai partiti sono passati da 34 a 29,2 mil. Di questi ultimi i voti dati a partiti che, come prevedibile,  non hanno eletto nessuno, sono stati rispettivamente  2 e 3,2 mil. all’incirca.

Quindi gli eletti del nuovo Parlamento sono stati votati esattamente da 31 mil. di  elettori su 50,1 (62%) nel 2018 e da 26,2 mil. su 50.9 (52%) nel 2023. Il totale degli eletti di settembre quindi non rappresenta la scelta di circa 48 elettori su 100 ( astensioni, bianche, nulle, persi).    

Se non c’è stato nessun trionfo del CDX c’è stato il previsto tonfo del M5S da 10,7 a 4,3 milioni di voti. Il CSX ( senza Calenda e Renzi) ha avuto una lieve flessione  ottenendo, comprese le liste che non hanno ottenuto seggi, circa 7,7 mil di voti (circa il 15% del corpo elettorale.) La vera novità quindi sono i 5,5 milioni in più di astenuti rispetto al 2018, tendenza peraltro accentuatasi con il voto in Lombardia e Lazio di febbraio.

Questi sono i numeri che ridimensionano sei mesi di balle, cioè buona parte delle “analisi” sull’Italia che va a destra, sul PD che ha tenuto, sui 5stelle che hanno perduto ma meno del previsto. Prima di ascoltare in tv commentatori di destra e di sinistra è utile usare una calcolatrice e ragionare sui numeri reali.

Il rosatellum, deformando e condizionando il voto vero specie con i collegi uninominali, ha fatto il suo mestiere: ha favorito l’astensionismo, ha premiato alla grande il primo polo regalandogli decine di eletti  ai quali nessuno ha dato il voto, ha moderatamente salvato il secondo polo, ha penalizzato duramente  il terzo polo di Conte. D’altronde è stato inventato dall’allora piddino Rosato e compagni per colpire i 5stelle e imporre forzatamente una logica bipolare in un paese che non lo è affatto. Se i partiti, a partire dal PD, non avessero boicottato la riforma elettorale proporzionale con quorum dei 5stelle, rispettosa della volontà espressa da chi vota, lo scenario sarebbe stato del tutto diverso. Non saremmo qui a strapparci i capelli perché ha vinto la Meloni (ha vinto la Meloni o il Rosatellum?). Resto convinto che la riforma elettorale sia la madre di tutte le battaglie per difendere davvero la democrazia. Abbiamo un modello da copiare, quello della Germania e di pochi altri, il migliore in un mondo di regole elettorali truffaldine. Le nostre regole elettorali per i Comuni eleggono dei potestà spesso squattrinati e senza idee e hanno enormi limiti con il proliferare di liste di sostegno inesistenti e inventate che spariscono dopo il voto. Quelle per le Regioni producono “governatori” eletti da minoranze e di mediocre capacità ma ottime capacità clientelari. L’ultima novità, che sembra una barzelletta, quella della Regione Sicilia che per decreto sta’ rimettendo per conto suo le vecchie Provincie. E’ una delle conseguenze di una distorta autonomia dove ogni vincente sgoverna come gli pare, fa e disfa leggi elettorali, stipendi, vitalizi e non rende conto  a nessuno. E sono impegnati ad aggravare la situazione con l’autonomia differenziata. Le regole per il Parlamento, nelle diverse versioni susseguitesi dalla metà degli anni ’90 deformano già in partenza la rappresentanza in senso maggioritario e bipolare. Neppure la Corte Costituzionale, che pure è intervenuta più volte, riesce a correggere la degenerazione della rappresentanza.

Guarda caso si salvano solo le Elezioni Europee, che di fatto hanno regole nate in ambito comunitario. Basterebbe mantenerne la proporzionalità, aumentare il quorum dal 4 al 5%, portare le circoscrizioni da 5 a 10 e avremmo il miglior sistema elettorale del mondo per eleggere i nostri rappresentanti. Si formerebbero 6-7 partiti veri e stabili, leader responsabili  meno egocentrati di quelli che specie a sinistra e nel mondo ambientalista riproducono partitini falliti in continuo da due decenni almeno. Sparirebbero in 1-2 anni decine di sigle perlopiù insignificanti o inventate. Serve il contrario esatto dell’attuale bipolarismo tendenziale da cui istintivamente tanti si allontanano abbandonando il voto. Sono convinto che gli italiani capirebbero la novità e tornerebbero in buona parte a votare.  Nel voto europeo ci sono  le preferenze, di cui non sento la mancanza  perché possono favorire mafie e clientele. Lascerei ai partiti la scelta dei primi due della lista e le preferenze per gli altri della lista per soddisfare chi è ansioso di poter scegliere.

In sintesi: gli italiani ( finora) non vanno a destra per niente. Però tendono ad andare al mare. L’esperienza decennale dei 5Stelle, affondati come in una battaglia navale dai molti nemici uniti, dalla  propria ingenuità e dal prevalere alla fine del trasformismo,  ha lasciato il segno in tantissimi che  l’avevano sostenuta. Ci sono almeno 7-8 milioni di elettori amareggiati e delusi  dalla politica che per il momento sono usciti dal campo di gioco. Almeno per metà di loro si tratta semplicemente di sopravvivenza ( voto per  chi sembra darmi ossigeno per sopravvivere, se non lo trovo non voto ). Per quelli più giovani si tratta di capire chi gli indica come sopravvivere nei prossimi decenni  alla precarietà sociale ed alla crisi ambientale. La marea di dibattiti, presunti scontri, promesse irrealizzabili, furbetti e contaballe di destra e di sinistra che mi sembrano inadeguati, quasi mai partoriscono idee socialmente condivisibili per  risolvere problemi ed emergenze  sociali  e ambientali.

2)  In quasi sei mesi il governo meloniano ha prima di tutto garantito una perfetta continuità con Draghi almeno in tre campi: a) non turbare nulla e nessuno nei rapporti europei e atlantici b) rallentare, svuotare, boicottare tutte le azioni che fossero timidamente rivolte ad avviare la necessaria transizione ecologica che presuppone una rivoluzione nelle scelte energetiche, in campo produttivo, nei trasporti, nelle abitazioni c) mantenere nella società italiana i tradizionali rapporti di forza e di potere fra la parte dominante e benestante e le aree precarie e gregarie del paese.  Rapporti gravemente turbati dall’avvento e dal successo negli ultimi dieci anni del singolare fenomeno del M5Stelle. Rapporti sociali che devono al più presto essere riequilibrati cancellando gli aspetti o le proposte di innovazione ( su giustizia, reddito, salario, corruzione, clientelismo,  privatizzazioni ..).

3) Quello che resta dopo la disgregazione del M5Stelle originario, oggi aggregato attorno  a Conte è stato  spinto a forza nell’angolo della sinistra, fra quella moderata e quella estrema, entrambe boccheggianti. Questo limbo evanescente che chiamano sinistra ha già perso  i contatti con parti rilevanti e disagiate della  società che, alle varie sinistre e a un ambientalismo mediocre, ha già dato fiducia in più occasioni e al momento non ne vuole più sapere.

L’intuizione dei grillini della prima ora li collocava giustamente né a destra né a sinistra senza però mai arrivare a definirsi con coraggio al centro della società e del sistema politico con un programma  riformatore radicale, unico presupposto dell’alternativa, che potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile dalla maggioranza del paese. Cosa diversa dal pendolare di qua e di là a seconda dei temi e dei momenti, rendendo così confuso il proprio ruolo. Dopo il successo grillino nelle elezioni politiche del 2013, più significativo di quello del 2018, quando la crisi interna era ormai avviata con le difficoltà evidenti a Roma e Torino e l’inefficienza di Rousseau, la mancanza di una esplicita collocazione ha aiutato l’azione di disgregazione. Forse tanti elettori avevano pensato che stavano solo scegliendo una sinistra o una destra un po’ più virtuosa di quelle esistenti magari gettonate fino al giorno prima. Non mi sembra che la attuale definizione di “ progressisti” ( suggerita non so da chi a Conte) sia un grande passo avanti nello sciogliere le ambiguità. Peraltro una definizione vecchia, consunta  dal 1994 quando l’Alleanza Progressista aprì la via a Berlusconi. La domanda non è retorica: Il M5Stelle 2.0 vuole essere un terzo polo autonomo ed elaborare un suo  progetto di riformismo radicale e di alternativa o essere una variante della sinistra di contorno al PD o di quello che arriverà dopo ? Io non lo so e forse neppure loro. Se non si fa chiarezza la necessità delle alleanze, che pure sono assolutamente necessarie ma non sono un olio di ricino che si deve prendere a forza, diventa un rebus micidiale.  

Le deformazioni portate dalla storia del novecento ai nostri lobi di occidentali (qualcuno  dice nell’emisfero sinistro ) impongono che fra la destra e la sinistra ci può solo stare  un centro moderato e tendenzialmente trasformista ( rivolto a destra o a sinistra a seconda della convenienza del momento). In altre aree del pianeta ritengono che si possa solo essere o sunniti  o sciiti. Oppure devoti all’islam o infedeli. Io ad esempio fra la destra che governa ormai stabilmente Israele e i gruppi di Hamas in Palestina, entrambi ostili a qualunque ipotesi di convivenza, non sceglierei nessuno.

A parte Alex Langer 30 anni fa e i verdi nei primi anni della loro comparsa, l’ipotesi che una alternativa sociale possa anche emergere al di là delle vecchie aggregazioni della destra e della sinistra nelle loro varie sfumature è del tutto incompresa, duramente osteggiata e credo faccia molta paura. Quando i verdi abbandonarono di fatto questa collocazione rientrando in posizione subalterna nella consueta nomenclatura e nelle logiche dei partiti tradizionali diventarono presto irrilevanti. Anche altri come La Rete di Orlando e il partito di Di Pietro in qualche modo seguirono un percorso simile di autoannientamento. Siamo tragicamente immersi nella crisi sociale e ambientale del nuovo secolo che avanza e la affrontiamo con i teoremi ideologici del secolo passato diluiti spesso da un interessato consociativismo.

Greta Thunberg, che ha appena compiuto 20 anni, ha fatto uscire The Climate Book, un volume eccezionale di 700 pagine con la collaborazione di cento esperti e scienziati di tutto il pianeta (nessuno italiano), che spiega in modo convincente, come mai è stato fatto fino ad oggi, la vera condizione del pianeta e quello che ci aspetta in tempi brevi. In Italia è stato praticamente ignorato dai media che hanno altro di più importante di cui riempirci la testa e le serate. E’ un libro davvero stupendo che andrebbe letto e discusso capitolo per capitolo, tema per tema. Non possiamo chiedere nulla di più a Greta e ai giovanissimi che in qualche modo ha risvegliato. Ma qualcuno deve scrivere il libro successivo dove si indichi esattamente quali sono le proposte concrete per oggi e per i prossimi decenni e su queste porre le basi dell’alternativa. Che oggi stentano ad emergere con chiarezza e diventare credibili.

Almeno in Italia non è vero che affrontiamo le crisi con due assetti ideologici contrapposti che danno soluzioni opposte ai problemi. Qui in particolare,  ma forse nell’intero Occidente, destre e sinistre con variegate sfumature, che forse sopravviveranno per anni, di fronte a temi strategici hanno in comune una preoccupante assenza di idee, di concreti progetti riformatori ( e una comune subalternità ai poteri forti che esistono eccome)  che permettano una più equilibrata convivenza sociale e il superamento delle  crisi. Queste esplodono e si aggravano mentre lo scontro avviene sulla scena mediatica su questioni di scarso peso e appunto nella totale subalternità agli interessi di pochi.

Qualche volta, travolti dai movimenti della società ci si adegua solo per non perire. Ricordo il caso del PD nel 1987 ( allora PCI ), che quando si arrivò al referendum sul nucleare, solo  qualche settimana prima del voto capovolse la propria posizione.

4) Fra i tanti esempi che si possono fare dove una posizione di alternativa non emerge ne dalle intenzioni della destra né della sinistra, per necessità di sintesi ne accenno quattro: la legge elettorale, le migrazioni, la crisi climatica e la mobilità, il reddito di sopravvivenza e il salario minimo.

a) E’ evidente che la necessaria riforma elettorale in senso proporzionale con quorum, la migliore soluzione rispettosa del voto e del nostro spirito costituzionale, è osteggiata da anni da destre e sinistre, tant’e che la troppo timida proposta grillina che ha ormai 6-7 anni ha trovato un muro di ostilità di entrambe. La conseguenza è la scarsa rappresentanza degli eletti sempre più espressione di sparute minoranze degli elettori e il forte astensionismo. Il caso ultimo di Lazio e Lombardia è impressionante: cito solo la rielezione di Fontana in Lombardia trionfatore apparente con un milione in meno di voti fra il 2018 e il 2023 ( da 2,7 a 1,7 mil.) Del recente astensionismo si è parlato per qualche giorno ma nessuno a destra e a sinistra mi risulta abbia fatto passi per intervenire sulla legge elettorale proposta né per facilitare il voto fuori sede, tranne qualche sparuta proposta atta a peggiora la situazione.

Anche la necessità di una forma ragionevole di Election Day, ad esempio concentrare solo in una volta all’anno e sempre nella stessa  data ( ad esempio nella prima settimana di novembre) qualunque tipo di votazione o referendum, non viene seriamente presa in considerazione né a destra né a sinistra. Così ad inizio aprile  si voterà in Friuli VG, a metà maggio  in centinaia di Comuni con i possibili ballottaggi, due settimane dopo in Sicilia, a  fine giugno in Molise, in autunno nella Provincia di Trento. Una vergogna: sembra quasi che si voglia apertamente invitare al voto solo i propri tifosi.

b) Di fronte all’ondata di migranti  irregolari (almeno  800mila in Italia dal 2015 ad oggi) ne destra né sinistra hanno la minima  idea di che fare tranne utilizzare a vicenda il tema per ragioni di bottega. Tant’è che nei sette  governi degli ultimi nove anni (Letta, Renzi,  Gentiloni, Conte1, Conte2, Draghi, Meloni) se si guardano anche solo i numeri ( degli ingressi, dei morti, dei rimpatri, delle forme di accoglienza, dei costi),  non è cambiato praticamente nulla tranne il volume raggiunto dalle chiacchiere. Dovremmo scegliere fra una destra cattiva e antimigranti ( ma per fortuna è solo una piccola minoranza che mostra davvero una irriducibile matrice xenofoba ) e una sinistra buona e umanitaria ma  senza proposte di cui le ONG, per il fatto che raccolgono alcune migliaia di naviganti, forse il 10% del totale, chissà perché sarebbero i migliori rappresentanti di riferimento. Proposte efficaci: zero.

Quasi tre anni fa segnalavo (Serve una terza via. Ne porti chiusi ne porte aperte ) che l’unico tentativo per affrontare un fenomeno epocale sarebbe quello di sostituire lo Stato a trafficanti e scafisti nella gestione dei viaggi aprendo corridoi umanitari, selezionando le aree più colpite da guerre, dittature e crisi ambientali. Costruendo un percorso di integrazione si potrebbe accogliere almeno 100mila persone all’anno utilizzando Ambasciate e Consolati insieme agli Enti e ONG che operano in particolare nelle aree più critiche di Africa e Medio Oriente. I decreti flussi che ci dicono utili  per il nostro apparato produttivo e le nostre strutture pubbliche, sono un'altra cosa e mi sembrano del tutto inadeguati. Una coraggiosa scelta italiana per i corridoi umanitari, con i quali andiamo noi a prendere i migranti dalle zone più critiche, costringerebbe alla fine l’intera Europa a percorrere la stessa strada. L’obiettivo non può che essere quello di eliminare con decisone le entrate irregolari, e garantire invece dignità e un sostegno minimo iniziale di sopravvivenza a tutti e solo ai migranti regolari. Indispensabile  l’istruzione scolastica, l’assistenza sanitaria e le condizioni di partenza per costruirsi una nuova vita o il ritorno volontario in patria, aprendo la possibilità di un lavoro per tutti. Cancellare trafficanti di uomini e scafisti e chi li organizza renderebbe tutti più liberi da ricatti e violenze. I corridoi umanitari sono peraltro organizzati già da alcuni anni su iniziativa di varie associazioni (Caritas, Sant’Egidio, Chiese Evangeliche e Valdesi con l’aggiunta di ARCI e altri più di recente) che hanno già accolto alcune migliaia di migranti. Per quanto ai margini di un dibattitto urlato quanto insignificante, l’idea dei corridoi comincia a farsi strada in piccole minoranze che restano però  al momento inascoltate.

c) Sembra incredibile ma a fronte di una crisi climatica che procede con evidenza e con una intensità e velocità diversa da quella aspettata, di fronte a 30 anni di appuntamenti nazionali e internazionali, di programmi e progetti tanto generici quanto costosi, si deve costatare che siamo quasi al nulla  di fatto. Dobbiamo dichiarare il fallimento delle COP (“ Conference of the parties”  dell’ONU) arrivate nel 2022 a Sharm el-Sheikh in Egitto al 27esimo appuntamento. A Sharm la delegazione più numerosa è stata quella delle lobby dei petrolieri e dell’ automotive con più di 500 membri. Sono loro che impediscono da anni qualunque decisione di rilievo nella sostituzione dei fossili e nella decarbonizzazione. A fine 2023 la COP28 si svolgerà a Dubai e la presidierà Sultan Al Jaber, ministro dell’Industria degli Emirati Arabi Uniti e amministratore delegato della compagnia petrolifera nazionale Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc). Praticamente hanno occupato e affondato le COP.

L’ultimo rapporto di Legambiente sulla mobilità in Italia ( Pendolaria 2023) rileva che dal 2018 al 2022 le aperture di nuovi binari di linee metropolitane ( il più efficace e meno costoso modo di ridurre auto circolanti, consumi, inquinamento, emissioni, costi degli utenti) sono state 0,6 km nel 2018, zero nel 2019 e 2020, 1,7 km nel 2021, 5,3 km nel 2022 con la prima tratta della M4 da Milano verso Linate. Nel mentre dilagava un finto dibattito per la transizione ecologica con al centro lo scontro su chi si prenderà i miliardi che bene o male verranno resi disponibili. Dal 2010 al 2020 sono stati realizzati 310 km di autostrade, alcune  migliaia di chilometri di nuove strade nazionali, ma solo 91 chilometri di metropolitane e 63 km di tranvie. Si calcola che mediamente trascorriamo 70-80 ore all’anno stando pressoché fermi in coda  su un auto con il motore acceso ( circa 3 giorni su 365). Non conosco nessun partito né a destra né a sinistra ( e neppure nessun gruppo ambientalista purtroppo)  che metta esplicitamente  la costruzione di metropolitane in rete e la riduzione delle auto circolanti  come obiettivo prioritario urgente per la transizione ecologica nel settore determinante della mobilità. Appena il Parlamento europeo si è accinto a confermare il  modesto impegno allo stop della vendita di auto a motore endotermico nel 2035 ( che vuol dire che circoleranno in Europa molte decine di milioni di vecchie auto tradizionali almeno fino al 2050 ) è scattata la rivolta delle multinazionali (Shell in testa) per impedirlo o chiedere deroghe e spostamenti nel tempo delle scelte, sostenute anche da Italia e Germania. Per il  momento la decisione è stata così sospesa. Lo stesso sta avvenendo in ambito UE per la conversione energetica delle abitazioni, che però richiederebbe alcuni decenni e darebbe un enorme risparmio di energia, aumenterebbe il valore degli immobili e darebbe nel tempo un forte risparmio economico e un netto miglioramento dell’inquinamento.   

Il nuovo sindaco di Torino, una sciagura di sinistra che i torinesi proprio non meritavano dopo la deludente gestione della Appendino, sostiene che la Metro 2 non potrà avere l’atteso  percorso esteso fino ai due confini estremi della conurbazione urbana, ( dove entrano ed escono più di 400mila auto nelle 24 ore) perché mancherebbero alcuni milioni di euro. Torino è stata in più occasioni indicata come la città più inquinata d’Europa ed è la città italiana con il più alto rapporto auto/abitanti. Un disastro che si aggrava con gli anni. La inutile linea ridotta che forse si farà magari pure diradando  le fermate, aumenterà di certo solo il valore di qualche edificio toccato nelle aree semi centrali del capoluogo. Sembra essere l’unica ragione rimasta che giustifichi un progetto così assurdo.

d) nel paese che  sta al fondo della graduatoria europea sui livelli salariali negli ultimi 30 anni il tema della sopravvivenza degli ultimi ha ripreso uno spazio da  quando nel 2015  il M5S presentò la prima proposta per un reddito di cittadinanza  e correttamente nella parte finale aggiunse la proposta di un salario minimo orario per contrastare il lavoro nero e permettere un minimo riequilibrio sociale. Niente di rivoluzionario considerato che quasi in tutta Europa esistono già provvedimenti simili a questi anche da parecchi anni e comunque  i salari reali, diversamente da noi, seppure lentamente sono aumentati senza interruzioni. In questi giorni emergono dati e pochi commenti che ci dicono che  dopo gli anni del Covid e poi della crisi del gas e della guerra in Ucraina i sovraprofitti  di numerose  grandi aziende sono  esplosi. Mentre scrivo questo intervento leggo che a fine anno i manager di numerose aziende, specie energetiche, hanno avuto i loro stipendi aumentati anche più del 100%. Praticamente in coincidenza con lo smantellamento  del Reddito di cittadinanza. Ne dalla destra “sociale” né dalla sinistra “proletaria” mi risultano grandi dichiarazioni di guerra contro i Robin Hood al contrario. Neppure conosco contestazioni articolate  alla falsa narrazione che attribuisce i costi del gas alla guerra. Invece che spiegare che sei mesi prima della guerra veniva promosso un evidente accordo fra le multinazionali, seguito poi a cascata da altri, per recuperare i dividendi mancati per i due anni di minori consumi a causa del Covid e dei lockdown. Una speculazione  che in Europa ha fruttato molte decine di miliardi in un anno a un manipolo di aziende, e che  poi si è prolungata prendendo al volo le conseguenze della guerra in Ucraina. Oggi di gas in giro e in vendita ce n’è in abbondanza, tant’è che per fare dividendi l’ ENI ne ha pure rivenduto una parte in Europa, e non c’è alcuna motivazione se non la rapina che giustifichi gli aumenti. Aspettiamo ancora azioni serie atte a recuperare i recenti extraprofitti dell’ultimo anno, fra gli altri di ENI, che in Italia sarebbero almeno 10-15 mld. Invece si è sostenuta la scemenza del tetto massimo del gas ( a 185 euro a megawattora, mentre oggi è già sceso a 40-50 ! ) o l’altra dei 18 centesimi per mantenere o togliere le accise sulla benzina che in entrambi i casi tanto paghiamo noi per strade diverse. Sul salario minimo oggi in molti si dichiarano a favore nei talkshow e nelle interviste ma non in Parlamento, dove il testo 5stelle continua a restare nei cassetti delle Commissioni.    

5) La tentazione della spallata finale per impedire qualunque possibilità di alternativa riformatrice e di riequilibrio delle profonde disuguaglianze sociali e della necessità di una conversione ecologica e solidale della società, prende forma attraverso il progetto del Presidenzialismo, di fatto lo svuotamento dell’assetto democratico basato sulla nostra Costituzione. Come è noto la repubblica presidenziale, con diverse possibili varianti,  è una forma di governo in cui il potere esecutivo si concentra nella figura del Presidente che è sia il capo dello Stato sia il capo del Governo. La nostra repubblica parlamentare stabilisce invece una separazione di poteri dove il Governo detiene, tranne eccezioni specifiche e provvisorie, il potere esecutivo mentre il Parlamento, eletto dai cittadini, esercita il potere legislativo e insieme ad altri, rappresentanti delle Regioni, sceglie ogni sette anni il Presidente della Repubblica garante del rispetto delle norme Costituzionali.

I paesi che hanno una Repubblica presidenziale, in alcuni  casi con l’elezione diretta del Presidente e senza un  Primo Ministro come capo del Governo sono una quarantina. Fra questi ci sono gli Stati Uniti, molti paesi sudamericani ( come Argentina, Cile, Brasile, Messico, Venezuela, Uruguay ) altri in Asia (come  Indonesia e Filippine ), vari paesi africani ( come Sud Africa, Kenya, Nigeria), la Turchia. Altri, una ventina,  hanno anche un Primo Ministro ( che però non è capo del Governo) come Russia, Bielorussia, Corea del Sud, Repubblica del Congo, Sudan. La Francia è formalmente una Repubblica semipresidenziale dove di fatto Macron esercita un ruolo egemone pur essendo stato votato da una significativa minoranza.

*

Presidenzialismo, bipolarismo, astensionismo e sistemi elettorali maggioritari di tipo diverso, sono l’insidiosa filiera che può presentarsi per la prima  volta in questo secolo anche nel nostro paese. Al momento il testo presentato da Fratelli d’Italia in Commissione si è arenato per l’assenza di alcuni esponenti di Lega e Forza Italia, malgrado ipotesi di sostegno da Renzi, senza il quale non ci sono i numeri sufficienti per procedere su un percorso che si presenta comunque lungo e complesso. Si dovrebbero modificare una decina di articoli importanti della Costituzione. Il rischio è, come insegnano i tanti casi sotto i nostri occhi anche in Occidente,  di avviarsi su una strada che dalla democrazia porta all’autoritarismo e dalla quale diventa molto difficile tornare indietro. Tutte le emergenze da affrontare attraverso la costruzione di una alternativa radicalmente riformatrice verrebbero congelate piombando per anni nel più totale immobilismo. La scena, come il campo in una partita di calcio, verrebbe occupato da minoranze di tifosi della curva nord e della curva sud rendendo la convivenza sociale impossibile, sepolta dai blablablà e dalle urla dei tifosi di questo o di quell’altro leader assoluto del momento. I movimenti esistenti o quelli possibili che vogliono e devono coalizzarsi ponendosi ben al centro dei problemi irrisolti della società reale dovrebbero uscire da questo tipo di campo di gioco e proporre  in modo puntuale il progetto, gli obiettivi ed il percorso necessari per il cambiamento.

 10 marzo 2023