Migrazioni: Intervista a David Yambio, fondatore del collettivo Refugees in Libya. Nel paese nordafricano anche tutti quelli che non sono imprigionati vivono nella paura continua di essere arrestati, ricattati, stuprati o usati come schiavi
di Giansandro Merli *
David Yambio, 27enne originario del Sud Sudan, ha prima guidato la rivolta dei rifugiati in Libia davanti agli uffici dell’Unhcr di Tripoli, tra 2021 e 2022, e poi fondato il collettivo Refugees in Libya una volta arrivato in Europa. Per continuare ad aiutare tutti coloro che subiscono abusi dall’altro lato del mare e «far risuonare la voce dei senza voce». Ha raccontato le violenze di Elmasry e Al Kikli quando sono venuti in Italia, è finito nello scandalo Paragon scoprendo che il suo cellulare era spiato.
Chi era Abdel Al Kikli, capo della milizia Stability support apparatus ucciso lunedì a Tripoli?
Non l’ho incontrato personalmente, altrimenti forse non sarei qui. Ma conosco Al Kikli perché lui condizionava la mia vita in Libia con torture, ricatti, intercettazioni in mare, detenzioni arbitrarie. In quel paese era noto come un criminale responsabile di massacri ed esecuzioni extragiudiziali.
Refugees in Libya fornisce quotidianamente informazioni sul sistema delle milizie. Che ruolo giocherà negli equilibri tra i vari gruppi l’esecuzione di Al Kikli?
Sicuramente c’è del nepotismo. Il capo del governo della Tripolitania, Abdul Dbeibeh, prova a portare entità affini dalla sua regione di provenienza. Sembra voglia solo soggetti leali. Ma ciò non risolverà alcun problema per la popolazione. Si ripeteranno le stesse dinamiche di violenza. Sembra che si stiano pulendo i file di molti criminali e capi milizia ricercati dalla Corte penale internazionale o soggetti alle sanzioni Onu. È lo stile della mafia: quando una persona è catturata o sovraesposta la soluzione finale è la morte. Questo sta accadendo in Libia. Ieri con Al Bija. Oggi con Al Kikli. E chissà domani, magari con Elmasry o altri. Sappiamo che si sta formando un’alleanza tra i clan di Zintan e Misurata, da dove viene Dbeibeh. Gruppi che non meritano nessuna fiducia, per quello che ho potuto vedere direttamente durante la guerra con Haftar in cui erano in conflitto tra loro. Tutto quello che sta succedendo ruota intorno al potere che il governo vuole acquisire su tutta la Tripolitania e ai soldi che vengono dal petrolio. Ci sono grossi scandali di corruzione, anche perché le milizie sono finanziate con i soldi dei cittadini libici, tirati fuori dalle banche. Non sono un politico, ma con la mia esperienza in quel paese vedo anche l’ingerenza di forze esterne.
Per esempio?
Questo devono indagarlo i giornalisti. Ma sappiamo che all’Italia non piacciono i «dossier sporchi»: al Kikli è stato in Italia e aveva ricevuto attenzioni della Corte penale internazionale. È sconveniente per alcuni paesi questa esposizione su crimini gravissimi. Che magari hanno favorito.
Cosa produce il sistema delle milizie sui rifugiati intrappolati in Libia?
Qualcosa di orribile. Omicidi dilaganti, schiavitù nel pieno del Ventunesimo secolo, donne ridotte a oggetti sessuali. Ho parlato con tantissime ragazze che hanno subito di tutto e non possono cercare aiuto da nessuno. I migranti, poi, sono usati come la forza lavoro nascosta dell’economia libica, a Tripoli e oltre. A oggi contiamo 28 centri di detenzione sotto il controllo delle autorità governative sostenute dall’Italia. Bisogna immaginare che ognuno di questi è pieno di rifugiati. A Tajoura 2.700, ad Ain Zara 4mila, in altre strutture fino a 7mila. Parliamo di numeri enormi che, complessivamente, potrebbero sfiorare le 100mila persone. Poco meno del 10% dei 900mila stranieri stimati in Libia. Ma anche tutti quelli che non sono imprigionati vivono in una paura continua di essere arrestati, ricattati, stuprati o usati come schiavi. Senza accesso a ospedali, scuole, bisogni fondamentali. Questo è la Libia di oggi.
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Libia, omicidi mirati: Tripoli azzera la milizia di al Kikli
Lunedì sera l’esecuzione del capo di uno dei gruppi armati più potenti dell’area. Forse per frenate la sua crescente influenza
di Alessandra Fabbretti *
Oggi le lezioni sono riprese a Tripoli, via lo stato d’emergenza, dopo che la «situazione è tornata alla normalità»: lo ha confermato il ministero della Difesa già ieri mattina, annunciando che «l’operazione militare» si era «conclusa con successo». Ma questo non vuol dire che la Libia sia davvero un Paese sicuro. L’assassinio di Abdel Ghani al-Kikli, meglio noto come Gheniwa, dimostra che il Paese nordafricano è ancora preda delle milizie armate, collegate a vario titolo ai centri del potere istituzionale con cui dialoga – e fa accordi – la comunità internazionale.
Lo testimonia la morte di Gheniwa, lunedì sera. Disponibile sui social network anche una foto, a riprova di quella che assumerà i toni dell’esecuzione: il corpo del militare riverso a terra, supino, il volto coperto di sangue. E poi la pistola adagiata accanto alla mano destra – e non in pugno. Gheniwa era a capo di uno dei gruppi armati più potenti di Tripoli, la Stability Support Authority (Ssa), istituita nel 2021 a protezione dei funzionari e dei palazzi del Governo di Unità nazionale (Gnu) di Tripoli, riconosciuto dall’Onu. Ma non fu un corpo di sicurezza costituito per l’occasione: come denunciò tra gli altri Amnesty International, il Gnu «promosse» una milizia che per oltre un decennio (dall’inizio della guerra civile del 2011, scoppiata dopo l’uccisione di Mohammar Al-Gheddafi) aveva «terrorizzato la popolazione del quartiere tripolino di Abu Salim mediante sparizioni forzate, torture, uccisioni e altri crimini di diritto internazionale».
Proprio nell’area di Abu Salim si sono concentrati gli scontri di lunedì, come riporta la testata Libya Observer, secondo cui l’Ssa ha dovuto vedersela con la Forza congiunta di Misurata, la 444sima e l’111sima Brigata di combattimento, e la Western Directorate Support Force, il corpo di polizia tripolino specializzato in operazioni anti-terrorismo. Dopo l’uccisione di Al-Kikli, il governo ha annunciato lo smantellamento dell’Ssa e il pieno controllo della sua “roccaforte” nei quartieri Abu Salim. Di «importante risultato» ha parlato il premier Abdulhamid Dbeibah: «Un passo decisivo verso la fine dei gruppi armati irregolari». Nessuna dichiarazione ufficiale sul motivo degli scontri.
Gira voce che Gheniwa sia stato attirato verso una riunione con alti funzionari del Gnu e quindi ucciso, mentre militari e mezzi pesanti circondavano le postazioni dell’Ssa. Lotfy Al-Harari, capo della potente Agenzia per la Sicurezza Interna, uomo vicinissimo a Gheniwa, risulta scomparso da lunedì e pare sia stato preso dalle milizie affiliate al Gnu. All’origine dell’operazione, la necessità di frenare la crescente influenza di Al-Kikli nel settore delle telecomunicazioni. Ma per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty, «sembra un regolamento di conti tra milizie. Gheniwa prendeva soldi dal ministero dell’Interno, fino a 40 milioni di euro solo nel 2023, che però ad Amnesty disse di non averlo sotto il suo controllo. Insomma, è il tipico caso del signore della guerra che diventa istituzione. Nel 2022 chiedemmo alle autorità libiche di destituire sia lui che Al-Harari, a sua volta colpito da accuse di abusi e torture. Non ci hanno risposto».
Immediata la reazione della Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil), che ha invocato la de-escalation. Ma il Paese non sembra trovare una via d’uscita all’instabilità. La prospettiva di elezioni generali capaci di ricomporre il Paese, spaccato in est e ovest anche a livello di organi istituzionali, si allontana sempre di più. Un report Onu di dicembre suona l’allarme sul rafforzamento delle milizie a partire dal «contrabbando sistematico di petrolio», così come il traffico di armi o esseri umani dai confini sud, con Niger e Ciad. In questo è particolarmente affermato il figlio del generale e “signore della Cirenaica” Khalifa Haftar, Saddam.
Oggi l’Unsmil è dovuta intervenire anche per plaudire alla visita del Procuratore generale libico a Bengasi, che indaga sulla scomparsa di Ibrahim Al-Darsi, membro della Camera dei rappresentanti libica, scomparso un anno fa: aveva criticato lo strapotere di Saddam Haftar nell’est.
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Resa dei conti tra milizie: a rischio anche Elmasry
Chi molla il boia L'intreccio con l'Italia. Il sistema di Juma al tramonto. Mediterranea: «Non è democrazia, è metodo mafioso»
di Mario Di Vito *
Come una guerra di mafia. Dove la mafia controlla quasi la totalità dell’apparato statale. Il comandante Abdel Al Kikli è morto in un agguato: attirato nel campo militare di Tekbali, a sud di Tripoli, da un altro militare di rango, Mahmoud Hamza, nella notte di lunedì ha trovato ad attenderlo gli uomini di una milizia salafita chiamata 444° Reggimento, in passato vicina alla Turchia e ora fedelissima truppa del governo libico. Tre colpi di arma da fuoco e per l’uomo conosciuto anche con il nome di Gheniwa è stata la fine. Con lui si esaurisce anche la storia dello Stability Support Apparatus, la banda accusata da più parti di crimini contro l’umanità, dal 2021 posta sotto il controllo del governo di unità nazionale. Lo scorso agosto a Gianzur era stato ucciso Abdurahmans Salem Ibrahim Milad, detto Bija, comandante della guardia costiera di Tripoli, tra i più noti trafficanti di esseri umani al mondo. Adesso, sostengono fonti libiche, il prossimo obiettivo sarebbe a Mitiga, dove è di stanza Osama Elmasry, il capo della polizia giudiziaria arrestato in Italia lo scorso gennaio su mandato della Corte penale internazionale e, nel giro di due giorni, liberato e rimandato a casa perché il ministro della Giustizia Carlo Nordio non ha mai firmato le carte necessarie a trattenerlo.
IL REGOLAMENTO di conti in atto sembrerebbe dunque ai principali responsabili degli ultimi anni di torture e nefandezze ai danni di migranti in transito, oppositori, civili inermi: sia Al Kikli sia Bija sia Elmasry risultano tutti legati a vario titolo al ministro Adel Juma, che a febbraio è stato gambizzato da un misterioso commando mentre si trovava a poca distanza da Tripoli e poi ha scelto di farsi curare a Roma, in una clinica privata di via Portuense. Il premier Abdelhamid Dbaibaba, sui social, conferma che qualcosa sta succedendo e infatti ha definito gli scontri della notte che è stata fatale per Al Kikli come «un passo decisivo verso l’eliminazione dei gruppi irregolari». Il fatto è che questi gruppi fino a poco fa erano del tutto regolari: Bija è rimasto in servizio per anni mentre Gheniwa è stato un pezzo molto grosso del sistema di Dbaibaba. Prova ne sia, tra le altre cose, che insieme ad altri esponenti della classe dirigente libica, a marzo era stato anche a Roma a trovare il convalescente Juma. Poco dopo la stessa cosa ha fatto anche il premier. Da lì qualcosa si è incrinato. O forse aveva già cominciato a farlo. Non è un caso che nell’operazione dell’altra notte erano pure coinvolti uomini legati al ministro dell’Interno Mustafa Trabelsi, che ora possiamo considerare come il nuovo dominus dell’universo delle milizie. Fatto sta che quando a fine anno l’Italia e la Libia dovranno rinegoziare il memorandum sui migranti e il controllo dei confini, la situazione sarà diversa rispetto al recente passato. Questo almeno dal punto di vista di chi andrà a fare la trattativa, perché nei campi di prigionia del paese gli orrori continuano e non sembrano destinati a finire. L’ong Refugees in Lybia, giusto ieri, ha diffuso le immagini di quanto accade nel centro di Al Nasr, che almeno fino a ieri era controllato dalla milizia di Al Kikli: un museo degli orrori dove migranti e profughi vengono trattenuti, torturati e talvolta pure uccisi. Sono gli ostaggi di una guerra per bande che si sta consumando ormai da mesi.
DALL’ALTRA PARTE del Mediterraneo, l’intelligence italiana segue da vicino gli sviluppi della situazione: sta venendo meno l’apparato vicino al ministro Juma, ma questo non vuol dire che non si potranno rinnovare gli accordi nel nome di una ricetta stabile almeno dal 2017: informazioni e apparecchiature in cambio del controllo delle partenze verso il nostro paese. «Mi sembra che più che verso una stabilizzazione democratica, la Libia vada verso una notte di San Valentino – la chiosa finale del portavoce dell’ong Mediterranea, Luca Casarini – . Il metodo mafioso, non la democrazia, è l’orizzonte verso cui è stato spinto quel paese».
nella foto: Il centro di detenzione di Zawiya in Libia – Ansa
* da il manifesto 14 maggio 2025