15 maggio 2025

«In Libia stile mafioso: per chi è sovraesposto la soluzione è la morte»

Migrazioni: Intervista a David Yambio, fondatore del collettivo Refugees in Libya. Nel paese nordafricano anche tutti quelli che non sono imprigionati vivono nella paura continua di essere arrestati, ricattati, stuprati o usati come schiavi

 di Giansandro Merli *

David Yambio, 27enne originario del Sud Sudan, ha prima guidato la rivolta dei rifugiati in Libia davanti agli uffici dell’Unhcr di Tripoli, tra 2021 e 2022, e poi fondato il collettivo Refugees in Libya una volta arrivato in Europa. Per continuare ad aiutare tutti coloro che subiscono abusi dall’altro lato del mare e «far risuonare la voce dei senza voce». Ha raccontato le violenze di Elmasry e Al Kikli quando sono venuti in Italia, è finito nello scandalo Paragon scoprendo che il suo cellulare era spiato.

Chi era Abdel Al Kikli, capo della milizia Stability support apparatus ucciso lunedì a Tripoli?

Non l’ho incontrato personalmente, altrimenti forse non sarei qui. Ma conosco Al Kikli perché lui condizionava la mia vita in Libia con torture, ricatti, intercettazioni in mare, detenzioni arbitrarie. In quel paese era noto come un criminale responsabile di massacri ed esecuzioni extragiudiziali.

Refugees in Libya fornisce quotidianamente informazioni sul sistema delle milizie. Che ruolo giocherà negli equilibri tra i vari gruppi l’esecuzione di Al Kikli?

Sicuramente c’è del nepotismo. Il capo del governo della Tripolitania, Abdul Dbeibeh, prova a portare entità affini dalla sua regione di provenienza. Sembra voglia solo soggetti leali. Ma ciò non risolverà alcun problema per la popolazione. Si ripeteranno le stesse dinamiche di violenza. Sembra che si stiano pulendo i file di molti criminali e capi milizia ricercati dalla Corte penale internazionale o soggetti alle sanzioni Onu. È lo stile della mafia: quando una persona è catturata o sovraesposta la soluzione finale è la morte. Questo sta accadendo in Libia. Ieri con Al Bija. Oggi con Al Kikli. E chissà domani, magari con Elmasry o altri. Sappiamo che si sta formando un’alleanza tra i clan di Zintan e Misurata, da dove viene Dbeibeh. Gruppi che non meritano nessuna fiducia, per quello che ho potuto vedere direttamente durante la guerra con Haftar in cui erano in conflitto tra loro. Tutto quello che sta succedendo ruota intorno al potere che il governo vuole acquisire su tutta la Tripolitania e ai soldi che vengono dal petrolio. Ci sono grossi scandali di corruzione, anche perché le milizie sono finanziate con i soldi dei cittadini libici, tirati fuori dalle banche. Non sono un politico, ma con la mia esperienza in quel paese vedo anche l’ingerenza di forze esterne.

Per esempio?

Questo devono indagarlo i giornalisti. Ma sappiamo che all’Italia non piacciono i «dossier sporchi»: al Kikli è stato in Italia e aveva ricevuto attenzioni della Corte penale internazionale. È sconveniente per alcuni paesi questa esposizione su crimini gravissimi. Che magari hanno favorito.

Cosa produce il sistema delle milizie sui rifugiati intrappolati in Libia?

Qualcosa di orribile. Omicidi dilaganti, schiavitù nel pieno del Ventunesimo secolo, donne ridotte a oggetti sessuali. Ho parlato con tantissime ragazze che hanno subito di tutto e non possono cercare aiuto da nessuno. I migranti, poi, sono usati come la forza lavoro nascosta dell’economia libica, a Tripoli e oltre. A oggi contiamo 28 centri di detenzione sotto il controllo delle autorità governative sostenute dall’Italia. Bisogna immaginare che ognuno di questi è pieno di rifugiati. A Tajoura 2.700, ad Ain Zara 4mila, in altre strutture fino a 7mila. Parliamo di numeri enormi che, complessivamente, potrebbero sfiorare le 100mila persone. Poco meno del 10% dei 900mila stranieri stimati in Libia. Ma anche tutti quelli che non sono imprigionati vivono in una paura continua di essere arrestati, ricattati, stuprati o usati come schiavi. Senza accesso a ospedali, scuole, bisogni fondamentali. Questo è la Libia di oggi.

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Libia, omicidi mirati: Tripoli azzera la milizia di al Kikli

Lunedì sera l’esecuzione del capo di uno dei gruppi armati più potenti dell’area. Forse per frenate la sua crescente influenza

 di Alessandra Fabbretti *

Oggi le lezioni sono riprese a Tripoli, via lo stato d’emergenza, dopo che la «situazione è tornata alla normalità»: lo ha confermato il ministero della Difesa già ieri mattina, annunciando che «l’operazione militare» si era «conclusa con successo». Ma questo non vuol dire che la Libia sia davvero un Paese sicuro. L’assassinio di Abdel Ghani al-Kikli, meglio noto come Gheniwa, dimostra che il Paese nordafricano è ancora preda delle milizie armate, collegate a vario titolo ai centri del potere istituzionale con cui dialoga – e fa accordi – la comunità internazionale.

Lo testimonia la morte di Gheniwa, lunedì sera. Disponibile sui social network anche una foto, a riprova di quella che assumerà i toni dell’esecuzione: il corpo del militare riverso a terra, supino, il volto coperto di sangue. E poi la pistola adagiata accanto alla mano destra – e non in pugno. Gheniwa era a capo di uno dei gruppi armati più potenti di Tripoli, la Stability Support Authority (Ssa), istituita nel 2021 a protezione dei funzionari e dei palazzi del Governo di Unità nazionale (Gnu) di Tripoli, riconosciuto dall’Onu. Ma non fu un corpo di sicurezza costituito per l’occasione: come denunciò tra gli altri Amnesty International, il Gnu «promosse» una milizia che per oltre un decennio (dall’inizio della guerra civile del 2011, scoppiata dopo l’uccisione di Mohammar Al-Gheddafi) aveva «terrorizzato la popolazione del quartiere tripolino di Abu Salim mediante sparizioni forzate, torture, uccisioni e altri crimini di diritto internazionale».

Proprio nell’area di Abu Salim si sono concentrati gli scontri di lunedì, come riporta la testata Libya Observer, secondo cui l’Ssa ha dovuto vedersela con la Forza congiunta di Misurata, la 444sima e l’111sima Brigata di combattimento, e la Western Directorate Support Force, il corpo di polizia tripolino specializzato in operazioni anti-terrorismo. Dopo l’uccisione di Al-Kikli, il governo ha annunciato lo smantellamento dell’Ssa e il pieno controllo della sua “roccaforte” nei quartieri Abu Salim. Di «importante risultato» ha parlato il premier Abdulhamid Dbeibah: «Un passo decisivo verso la fine dei gruppi armati irregolari». Nessuna dichiarazione ufficiale sul motivo degli scontri.

Gira voce che Gheniwa sia stato attirato verso una riunione con alti funzionari del Gnu e quindi ucciso, mentre militari e mezzi pesanti circondavano le postazioni dell’Ssa. Lotfy Al-Harari, capo della potente Agenzia per la Sicurezza Interna, uomo vicinissimo a Gheniwa, risulta scomparso da lunedì e pare sia stato preso dalle milizie affiliate al Gnu. All’origine dell’operazione, la necessità di frenare la crescente influenza di Al-Kikli nel settore delle telecomunicazioni. Ma per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty, «sembra un regolamento di conti tra milizie. Gheniwa prendeva soldi dal ministero dell’Interno, fino a 40 milioni di euro solo nel 2023, che però ad Amnesty disse di non averlo sotto il suo controllo. Insomma, è il tipico caso del signore della guerra che diventa istituzione. Nel 2022 chiedemmo alle autorità libiche di destituire sia lui che Al-Harari, a sua volta colpito da accuse di abusi e torture. Non ci hanno risposto».

Immediata la reazione della Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil), che ha invocato la de-escalation. Ma il Paese non sembra trovare una via d’uscita all’instabilità. La prospettiva di elezioni generali capaci di ricomporre il Paese, spaccato in est e ovest anche a livello di organi istituzionali, si allontana sempre di più. Un report Onu di dicembre suona l’allarme sul rafforzamento delle milizie a partire dal «contrabbando sistematico di petrolio», così come il traffico di armi o esseri umani dai confini sud, con Niger e Ciad. In questo è particolarmente affermato il figlio del generale e “signore della Cirenaica” Khalifa Haftar, Saddam.

Oggi l’Unsmil è dovuta intervenire anche per plaudire alla visita del Procuratore generale libico a Bengasi, che indaga sulla scomparsa di Ibrahim Al-Darsi, membro della Camera dei rappresentanti libica, scomparso un anno fa: aveva criticato lo strapotere di Saddam Haftar nell’est.

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Resa dei conti tra milizie: a rischio anche Elmasry

Chi molla il boia L'intreccio con l'Italia. Il sistema di Juma al tramonto. Mediterranea: «Non è democrazia, è metodo mafioso»

 di Mario Di Vito *

Come una guerra di mafia. Dove la mafia controlla quasi la totalità dell’apparato statale. Il comandante Abdel Al Kikli è morto in un agguato: attirato nel campo militare di Tekbali, a sud di Tripoli, da un altro militare di rango, Mahmoud Hamza, nella notte di lunedì ha trovato ad attenderlo gli uomini di una milizia salafita chiamata 444° Reggimento, in passato vicina alla Turchia e ora fedelissima truppa del governo libico. Tre colpi di arma da fuoco e per l’uomo conosciuto anche con il nome di Gheniwa è stata la fine. Con lui si esaurisce anche la storia dello Stability Support Apparatus, la banda accusata da più parti di crimini contro l’umanità, dal 2021 posta sotto il controllo del governo di unità nazionale. Lo scorso agosto a Gianzur era stato ucciso Abdurahmans Salem Ibrahim Milad, detto Bija, comandante della guardia costiera di Tripoli, tra i più noti trafficanti di esseri umani al mondo. Adesso, sostengono fonti libiche, il prossimo obiettivo sarebbe a Mitiga, dove è di stanza Osama Elmasry, il capo della polizia giudiziaria arrestato in Italia lo scorso gennaio su mandato della Corte penale internazionale e, nel giro di due giorni, liberato e rimandato a casa perché il ministro della Giustizia Carlo Nordio non ha mai firmato le carte necessarie a trattenerlo.

IL REGOLAMENTO di conti in atto sembrerebbe dunque ai principali responsabili degli ultimi anni di torture e nefandezze ai danni di migranti in transito, oppositori, civili inermi: sia Al Kikli sia Bija sia Elmasry risultano tutti legati a vario titolo al ministro Adel Juma, che a febbraio è stato gambizzato da un misterioso commando mentre si trovava a poca distanza da Tripoli e poi ha scelto di farsi curare a Roma, in una clinica privata di via Portuense. Il premier Abdelhamid Dbaibaba, sui social, conferma che qualcosa sta succedendo e infatti ha definito gli scontri della notte che è stata fatale per Al Kikli come «un passo decisivo verso l’eliminazione dei gruppi irregolari». Il fatto è che questi gruppi fino a poco fa erano del tutto regolari: Bija è rimasto in servizio per anni mentre Gheniwa è stato un pezzo molto grosso del sistema di Dbaibaba. Prova ne sia, tra le altre cose, che insieme ad altri esponenti della classe dirigente libica, a marzo era stato anche a Roma a trovare il convalescente Juma. Poco dopo la stessa cosa ha fatto anche il premier. Da lì qualcosa si è incrinato. O forse aveva già cominciato a farlo. Non è un caso che nell’operazione dell’altra notte erano pure coinvolti uomini legati al ministro dell’Interno Mustafa Trabelsi, che ora possiamo considerare come il nuovo dominus dell’universo delle milizie. Fatto sta che quando a fine anno l’Italia e la Libia dovranno rinegoziare il memorandum sui migranti e il controllo dei confini, la situazione sarà diversa rispetto al recente passato. Questo almeno dal punto di vista di chi andrà a fare la trattativa, perché nei campi di prigionia del paese gli orrori continuano e non sembrano destinati a finire. L’ong Refugees in Lybia, giusto ieri, ha diffuso le immagini di quanto accade nel centro di Al Nasr, che almeno fino a ieri era controllato dalla milizia di Al Kikli: un museo degli orrori dove migranti e profughi vengono trattenuti, torturati e talvolta pure uccisi. Sono gli ostaggi di una guerra per bande che si sta consumando ormai da mesi.

DALL’ALTRA PARTE del Mediterraneo, l’intelligence italiana segue da vicino gli sviluppi della situazione: sta venendo meno l’apparato vicino al ministro Juma, ma questo non vuol dire che non si potranno rinnovare gli accordi nel nome di una ricetta stabile almeno dal 2017: informazioni e apparecchiature in cambio del controllo delle partenze verso il nostro paese. «Mi sembra che più che verso una stabilizzazione democratica, la Libia vada verso una notte di San Valentino – la chiosa finale del portavoce dell’ong Mediterranea, Luca Casarini – . Il metodo mafioso, non la democrazia, è l’orizzonte verso cui è stato spinto quel paese».

nella foto: Il centro di detenzione di Zawiya in Libia – Ansa

* da il manifesto 14 maggio 2025

2 maggio 2025

Amianto: La strage infinita della fibra serial killer - Nella fabbrica dei treni dove 350 operai hanno perso la vita per un mesotelioma

 Inquinamento L’amianto non smette di uccidere, miete vittime nonostante sia stato messo al bando: 200mila nel mondo. In Ue il caso Italia: «7mila morti in un anno»

di Mauro Ravarino *

La bonifica va a rilento e di amianto si continua a morire. L’Osservatorio nazionale amianto (Ona) ha calcolato 7 mila morti in Italia lo scorso anno per malattie amianto correlate (60 mila in 10 anni). E sarebbero 200 mila l’anno quelle in tutto il mondo, secondo le stime di Oms e Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro): un dato, però, sottostimato perché non tutti i Paesi sono virtuosi nel registrarle, soprattutto quelli che ancora lo lavorano e commercializzano.

«SONO NUMERI che non appartengono al passato. Sono volti, storie, famiglie spezzate oggi – sottolinea Ezio Bonanni, presidente dell’Ona, evidenziando l’attualità di un’emergenza ambientale e sanitaria – molti non sapevano, altri sono stati ignorati. Troppi sono stati sacrificati nel nome del profitto. Non è più ammissibile che ci governi la lobby dei produttori del minerale killer e che le bonifiche vadano a rilento, nonostante la chiara presa d’atto di tutte le istituzioni. Il bando globale dell’amianto che semina morte resta ancora una utopia».

L’ITALIA HA IL TRISTE RECORD EUROPEO per decessi da mesotelioma, davanti a Germania e Francia. È considerato il tumore dell’amianto per eccellenza, colpisce soprattutto la pleura e ha un indice di mortalità molto alto (93%). L’Istituto Superiore di Sanità nel recente rapporto Istisan sull’impatto dell’amianto sulla mortalità in Italia ha stimato che, tra il 2010 e il 2020, ogni anno sono decedute per mesotelioma in media 1.545 persone, 1.116 uomini e 429 donne. Dei decessi osservati ogni anno, 25 (l’1,7%) avevano un’età uguale o inferiore ai 50 anni. Il rapporto, pubblicato dall’Iss lo scorso ottobre, riporta infatti una diminuzione del numero dei decessi per mesotelioma tra gli under 50.

UN ASPETTO, REGISTRATO NEGLI ULTIMI anni, che potrebbe rappresentare – vista anche la lunga latenza della malattia (circa 40 anni) – un primo effetto positivo della legge 257/92 con la quale l’Italia vietò l’utilizzo dell’amianto e la produzione di manufatti contenenti amianto. Ma è forse ancora presto per dirlo e non si può certo abbassare la guardia: «Il problema amianto rimane tra le priorità di sanità pubblica», ha affermato il presidente dell’Iss Rocco Bellantone. Le regioni Piemonte, Lombardia, Valle d’Aosta e Liguria presentano un numero di decessi per 100 mila abitanti maggiore della media nazionale, ma i casi sono distribuiti sull’intero territorio italiano.

LUNEDÌ 28 APRILE È STATA CELEBRATA la Giornata mondiale delle vittime dell’amianto, istituita nel 2025 in concomitanza con la Giornata mondiale per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Nonostante l’Italia lo abbia messo al bando 33 anni fa (primo tra i Paesi europei), «l’amianto non ha ancora messo al bando l’Italia», precisa Bonanni. «Questa giornata – aggiunge il presidente dell’Ona – non è solo memoria. È un grido, un richiamo alla responsabilità, alla bonifica, alla giustizia per le vittime e alla tutela di chi oggi vive, lavora, studia in luoghi contaminati. In questa giornata, ricordiamo i caduti invisibili dell’amianto. E riaffermiamo un impegno: mai più profitto sulla pelle delle persone. Mai più silenzio, mai più vittime».

CI SONO LEGGI IN GRAN PARTE inattuate, quella storica del 1992 già contemplava la bonifica, ma anche quella sulla mappatura completa del territorio italiano, la legge 93 del 2001, sosteneva che le regioni avevano l’obbligo di coordinarsi con il Ministero dell’Ambiente. Ci sono regioni in linea con le richieste sia a Nord che a Sud, ma ad esempio la Lombardia non invia dati dal 2014. E anche per questo la mappa risulta ancora incompleta. In base ai dati riportati dal Ministero risultano, censiti al 31 dicembre 2023, 155 mila siti circa interessati dalla presenza di amianto. Lo stato delle bonifiche dei siti di origine antropica registra, invece, 16.500 siti bonificati e 1.700 parzialmente bonificati. Finché non si completerà la bonifica non cesserà il rischio d’esposizione.

IN ITALIA SONO PRESENTI 40 MILIONI di tonnellate di amianto all’interno di un milione di siti e micrositi, di cui 50 mila industriali e 42 di interesse nazionale. «La situazione è ancora più drammatica – precisa l’Ona – in quanto il pericoloso cancerogeno è presente anche negli edifici di 2.500 scuole (stima 2023), all’interno delle quali sono esposti più di 352 mila alunni e 50 mila lavoratori, tra personale docente e non. Ancora 1.500 biblioteche ed edifici culturali compresi e almeno 500 ospedali (stima per difetto perché la mappatura dell’Ona è ancora in corso) hanno componenti in amianto nelle strutture e negli impianti tecnici, in particolare termici, elettrici e termoidraulici».

IL MAGNATE SEPHAN SCHMIDHEINY dell’Eternit chiuse per fallimento nel 1986 lasciando dietro di sé una scia di veleni. Il 17 aprile la Corte di assise d’appello di Torino, nel filone del processo riguardante i morti di Casale Monferrato, lo ha condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione per omicidio colposo riducendo la pena di primo grado, inflittagli nel giugno del 2023 a Novara, di 12 anni di carcere.

IL PROCEDIMENTO RIGUARDAVA inizialmente la morte di 392 persone, di cui 62 lavoratori e 330 cittadini che non avevano mai messo piede nella fabbrica della morte. Al netto di prescrizioni e assoluzioni, è stato condannato in secondo grado per 91 morti. Un nuovo capitolo si giocherà in Cassazione, dove aleggia per l’ennesima volta la scure della prescrizione. Sono comunque numeri insufficienti a spiegare una strage continua perché a Casale si è continuato a morire: sono 414 i morti di mesotelioma nella cittadina piemontese dal 2017, quando fu chiusa l’indagine relativa all’Eternit bis. Tutti morti che sono fuori dal processo e di cui il movimento contro l’amianto chiederà conto.

AL PROPOSITO, DOMENICA A CAVAGNOLO – piccolo comune torinese dove c’era un sito Eternit – sono stati insigniti della cittadinanza onoraria il magistrato Raffaele Guariniello, i sindacalisti e attivisti Bruno Pesce e Nicola Pondrano e alla memoria Romana Blasotti Pavesi, morta lo scorso settembre dopo una vita dedicata alla lotta all’amianto. Tutti protagonisti di una lunga battaglia che chiede ancora giustizia.

nella foto:  Sacchi di rifiuti speciali contaminati da amianto 

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Nella fabbrica dei treni dove 350 operai hanno perso la vita per un mesotelioma

Bologna Dietro il muro di cinta che dalla stazione di Bologna arriva in via Saffi ci sono 20 mila metri quadri di capannoni che fino al 2018 hanno ospitato la Ogr

 di Giuditta Pellegrini *

Il lungo muro di cinta che dalla stazione centrale di Bologna arriva fino a via Saffi, nei pressi dell’Ospedale Maggiore, continua a celare i 20.000 metri quadri di capannoni che hanno ospitato fino al 2018 l’Officina Grandi Riparazioni, OGR. «Una città nella città», ricordano i suoi ex lavoratori, in cui oltre mille operai specializzati erano impiegati in tutte le fasi della ricostruzione dei treni delle Ferrovie dello Stato e che furono protagonisti, a partire dagli anni ‘70, di una delle vertenze più impegnative e tragiche dei nostri tempi: quella per un lavoro libero dall’amianto.

CIRCA 13 ETTARI DI STRUTTURA sono stati classificati tra i SIN (siti di interesse nazionale) del nostro paese, in attesa di bonifica per rischio sanitario e ambientale a causa della massiccia presenza della fibra letale. Dal suo ingresso sulla scena industriale negli anni ‘50, l’amianto, grazie alla sua capacità ignifuga, era utilizzato nelle coibentazioni dei vagoni e quando questi si deterioravano arrivavano all’OGR per essere interamente ricostruiti. «Su ogni macchina c’erano da 250 a 300 kg di amianto» racconta Antonio Matteo, occupato all’OGR dal 1970 al 2002, uno dei protagonisti della battaglia all’interno dell’azienda: «Andava smontato tutto l’arredamento interno, i pannelli del soffitto, delle pareti, i pavimenti, rimaneva la lamiera e nient’altro. All’inizio l’amianto sembrava un sogno perché era facile da togliere quando lo raschiavi, lo mettevamo nei sacchi e poi spazzavamo via la polvere con la ramazza».

MA L’ENTUSIASMO PER IL MATERIALE dai molteplici impieghi nell’officina si spense quando si iniziarono a contare i decessi, complice un capannone senza divisioni, dove la polvere che scaturiva dalla rimozione a secco dei pannelli in fibra poteva propagarsi senza ostacoli nell’intera area produttiva e tra i suoi circa 700 lavoratori.

SONO 350 LE PERSONE DELL’OFFICINA che hanno perso ad oggi la vita dopo aver contratto il mesotelioma maligno. «Un tumore raro ma di grande interesse scientifico per la ben documentata correlazione con un’esposizione professionale e/o ambientale ad amianto», si legge nell’ultimo report del Centro Operativo Regionale (COR) del Registro Nazionale dei Mesoteliomi (RENAM), che monitorizza la malattia come «evento sentinella» delle esposizioni.

NEL 2024 IL CENTRO HA REGISTRATO 121 nuovi casi di mesoteliomi da esposizione pregressa all’asbesto solo in Emilia Romagna, in cui ad oggi risultano archiviati 3.650 casi dalla messa al bando dell’amianto, nel 1994. Il problema è che per questa «malattia temibile con sopravvivenza alquanto ridotta – come ricorda il report – «l’insorgenza si manifesta, in genere, dopo oltre 40 anni». I dati sottolineano come nell’88,1% dei casi l’origine dell’esposizione sia ricondotta ad attività professionali mentre il restante ad esposizione ambientale o alla convivenza dei soggetti con altri professionalmente esposti, è il caso di molte donne.

LE STESSE PERCENTUALI SI RIFLETTONO a livello nazionale: secondo il Rapporto Istisan dell’Istituto Superiore di Sanità, tra il 2010 e il 2020 ogni anno in Italia sono decedute per mesotelioma in media 1.545 persone. Pur nella diminuzione del numero dei decessi tra gli under 50 come primo effetto della legge 257/92, l’eventuale trend discendente è ancora da verificare nel tempo, e al momento per l’ISS «l’amianto rimane una priorità di sanità pubblica».

FU ANCHE GRAZIE ALLA NASCITA del Servizio Sanitario Nazionale, nel 1978, che i lavoratori hanno iniziato a rendersi conto del pericolo a cui erano esposti e a Bologna, aiutati anche dai primi medici del lavoro, hanno intrapreso un lungo percorso perché le attività avvenissero in modalità più sicura. «Nel ’79 abbiamo preso in mano la situazione. Inducemmo l’azienda a costruire dei binari protetti in cui si lavorava 6 ore al giorno e al massimo per 2 turni all’anno», racconta ancora Matteo, non senza un certo orgoglio nel ricordare la messa a punto da parte degli operai di un percorso di protezione che l’Enea, nel 2002, ha riconosciuto come protocollo generale di sicurezza da adottare nel lavoro delle coibentazioni.

«LE MORTI PER GLI EFFETTTI DELL’AMIANTO, che le aziende hanno provato a minimizzare e a nascondere, pagano il prezzo della logica del profitto», ci dice Milco Cassani, presidente dell’Associazione Famigliari e Vittime dell’Amianto (AfeVa) dell’Emilia Romagna: «La vicenda dell’OGR, nella sua drammaticità, è anche la storia di una grande vertenza sindacale che i lavoratori, dopo aver scoperto che cominciavano a morire, sono riusciti a portare avanti per mantenere le attività produttive rischiose sfruttando le loro competenze e il fatto di lavorare per un grande gruppo, piuttosto che esternalizzarle a piccole realtà produttive dove gli operai sarebbero stati meno protetti». AfeVa ER si è costituita nel 2014 a seguito della vicenda OGR e non solo, in sostegno dei lavoratori e dei famigliari che continuano ad essere colpiti. L’associazione ha ricordato più volte come l’amianto sia ancora presente in moltissimi edifici, nelle tubature, all’interno dei muri e la sua mappatura sempre più difficile.

COME HA DENUNCIATO ANCHE LEGAMBIENTE in un’inchiesta, «oggi appena il 25% della fibra killer è stato rimosso e a questi ritmi per liberarsene serviranno altri 75 anni, cui sommare ulteriori 40 anni di latenza del mesotelioma. Da Nord a Sud, del resto, le bonifiche vanno a rilento sia per quanto riguarda i grandi siti industriali dell’amianto che per gli edifici pubblici e privati che espongono spesso inconsapevolmente le persone a questa pericolosa fibra».

COLLEGARE QUELLA STORIA EMBLEMATICA ai nostri giorni è quindi importante ed è il motivo per cui AfeVa ER e le RSU che hanno raccolto quell’eredità di lotta nell’attuale costola dell’officina di Bologna (oggi denominata Officina Manutenzione Ciclica, OMC) chiedono che venga istituito un museo dell’OGR nei locali originari in via Casarini, 25. E’ li davanti che lunedì scorso lavoratori, pensionati, associazioni, AfeVa e istituzioni si sono ritrovati per una momento di commemorazione e rivendicazione nella giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro e le vittime dell’amianto.

nella foto: L'ex Ogr di Bologna

* da Il manifesto – 1 maggio 2025