Una cosa sola mi sembra sicura a proposito del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, lo strumento di programma di spesa con il quale dovremmo prendere respiro dalla crisi pandemica, rilanciare l’economia, garantire un futuro sostenibile: che, come nel resto del mondo in altre forme, sarà uno scontro pesante e lungo; quindi che il primo problema è rendere trasparente e far capire che cosa esattamente stiamo decidendo di lasciare in dote alle prossime generazioni e cosa stiamo decidendo di negargli. Almeno per questo intero terzo decennio del secolo che, guarda caso, è considerato da molti osservatori quello decisivo per riprendere il controllo della crisi climatica planetaria o arrendersi alla lenta degenerazione delle condizioni di sopravvivenza della vita dei popoli del pianeta e dei suoi stessi equilibri millenari.
Non si tratta soltanto della ovvia costatazione che la guerra sarà spietata perché c’è un malloppo da conquistare e sono tante le lobby, alcune magari anche dignitose, che chiederanno la loro parte ( dai gruppi mafiosi alle lobby confindustriali, dai partiti novecenteschi ai sindacati, dalla sanità privata alle congregazioni religiose, dalle associazioni cooperative ai gruppi che controllano l’informazione e i media, non tralasciando, ovviamente in prima fila su tutti, l’apparato militare, i gestori del sistema energetico e quelli dell' automotive privato). Ovvio che parecchi di questi soggetti un Recovery Fund con venature green lo vedono come fumo negli occhi e non hanno alcuna intenzione di lasciarlo passare.
Il malloppo si rileverà più modesto di quello presentato sui media: per due terzi ( circa 130 mld) si tratterebbe di prestito diluito nell’arco di sei anni (2021-2026) e di cui dal 2028 si dovrebbe avviare una molto graduale restituzione. Per un terzo ( circa 70 mld) si tratta di un sussidio che non prevede formale restituzione ed è in parte una partita di giro. Noi contribuiamo annualmente al bilancio europeo che poi ci restituisce i soldi in misura un po’ più elevata del solito e soprattutto con minori contropartite apparenti, almeno per il momento.
Alla fine, la novità del Recovery Fund sarà la disponibilità aggiuntiva di almeno 20 miliardi all’anno per sei anni. Non è tanto ma neanche poco perché saranno nuove risorse di spesa non prenotata che avremo a disposizione per uscire prima o poi dall’incubo sanitario ed economico della pandemia.
In teoria l’UE ha definito in modo abbastanza rigido le direzioni della spesa nella logica del PNRR ( Piano nazionale di ripresa e resilienza) ma anche con l’occhio al futuro con il titolo altisonante di Next Generation UE e in accordo con l’altra visione del Green New Deal europeo apparentemente fatta propria dalla signora Ursula von der Leyen, ormai da un anno presidente della Commissione Europea ed eletta grazie anche ai voti di 5Stelle e PD italiani. Ma fra le dichiarazioni e i fatti c’è di mezzo un mare...
Mi sembra abbastanza inutile entrare nei dettagli delle sei aree di intervento di spesa previste, come modellate nella prima bozza italiana, poi corretta. In realtà già peggiorata, soprattutto grazie a Renzi, dopo l’incontro fra i 4 partiti della maggioranza oggi defunta. Ne indico qui solo l’apparente ordine di priorità:
1)Transizione ecologica (circa 70 mld)
2) Digitalizzazione e cultura (circa 46 mld)
3) Mobilità e Infrastrutture (32 mld)
4) Istruzione e Ricerca (28,5 mld)
5) Inclusione e Coesione (quasi 28 mld)
6) Salute (19,7 mld)
In dettaglio andrebbero indicate 16 componenti di spesa su 47 linee di intervento e si sostiene che siano stati presentati almeno 400 progetti.
Prima e dopo la scadenza del 30 aprile, data in cui il Piano generale andrebbe presentato alla Commissione Europea per l’avvio della seconda parte dell’iter di approvazione che dovrebbe portare prima di fine anno al versamento di alcune decine di mld della prima tranche di spesa, il progetto cambierà ancora chissà quante volte e non va preso molto seriamente quello attuale. Al momento è difficile dire quale governo, quali ministri e quale alleanza di governo gestirà le prossime bozze dei prossimi tre mesi. Senza escludere l’ipotesi, che io ritengo probabile, che i due squilibrati, i capi del partito più piccolo e più grande nei sondaggi, ci portino a votare a giugno facendo un bel ciaone ai soldi di Bruxelles.
Ho allegato a questo articolo una piccola bibliografia di interventi, alcuni anche tecnicamente utili e di un qualche interesse, di singoli, gruppi, partiti o associazioni che in qualche modo dovrebbero rappresentare punti di vista alternativi, in qualche modo ispirati a visioni ecologiste, di giustizia sociale, in modi diversi critici sulle pure logiche di mercato che alcuni chiamano neoliberiste, oggi imballate dal difficile dualismo: crescita senza limiti e austerità indiscussa che, specie in tempi di pandemia, evidentemente non reggono più, tantè che i vincoli di Maastricht sono sospesi fino al 2022. Questi punti di vista alternativi, seppur confusamente, a parole dovrebbero essere già presenti nella bozza.
Il Recovery Fund è un pacco regalo che il virtuoso Conte ha portato a casa da Bruxelles di cui moltissimi discutono, litigano, si fanno scudo per far cadere governi e attrezzare la propria personale campagna elettorale più o meno imminente, mentre ne esaltano i nastrini luccicanti e il profumo delicato (di soldi).
Da quasi tre anni (elezioni 2018) sostengo che il sistema politico-economico-mediatico, consolidatosi nel nostro paese con 25 anni di bipolarismo, non avrebbe mai permesso davvero ai 5Stelle o altre forze fuoricasta di governare davvero e ancora di più recentemente ho sostenuto che mai permetteranno ad un troppo docile asse Conte-5Stelle di gestire davvero il pacco regalo europeo. La guerra civile strisciante in corso, come mostrano le ultime settimane con le bravate del kamikaze di Rignano, non permette prigionieri, al massimo qualche incerto interlocutore in libertà alla Di Maio.
Cosa debba esserci dentro il pacco regalo diventerà vago, indefinito, ma soprattutto inconfessabile.
Ce lo farà capire forse la squadra di “tecnici esperti” inviati da Bruxelles che verrebbero ad “aiutarci”, non ho chiaro per quanto tempo, a spendere bene i soldi del Recovery Fund (lo sapevate ?).
Facciamo qualche esempio per capirsi:
1) davvero dovremmo impegnare alcuni miliardi allo scopo di finanziare un’azienda nella ricerca per sequestrare un po’ di CO2 e nasconderla da qualche parte sotto il tappeto come contributo risolutivo per la crisi climatica?
2) davvero dovremmo impegnare un altro pacco di soldi per la ricerca e sviluppo (in corso da 50 anni) per lanciare l’idrogeno (quello verde che diventa blu o grigio) come fonte alternativa a benzine, gasolio e gas con l’obiettivo di sostituirne l’1 per cento nella mobilità entro qualche decennio?
3) davvero dovremmo regalare alcuni miliardi alle multinazionali dell’auto per incentivi all’acquisto di auto elettriche (che perlopiù vanno a petrolio) aumentando il totale circolante di mezzi invece di programmare una progressiva riduzione delle auto, invece di finanziare un sistema di reti metropolitane e treni regionali efficienti quasi ignorate nella seconda bozza di Piano del 12 gennaio?
4) davvero il problema dei migranti e in particolare la costruzione di una rete di corridoi umanitari e di strutture stabili di integrazione, può essere del tutto dimenticato e ignorato nella stesura del Piano? Quasi che si trattasse di una emergenza transitoria che si risolverà in tempi brevi grazie alle bravate di Salvini o alle esibizioni di umanità delle Ong ?
5) davvero possiamo pensare di non mettere la metanizzazione dell’Ilva, l’allontanamento di molte centinaia di abitazioni dal perimetro dell’Azienda, la copertura dei magazzini e l’aggiornamento della sicurezza degli altoforni come esemplare progetto di ristrutturazione ambientale? Unica alternativa accettabile alla chiusura di una azienda che per il momento sta’ rendendo pubblica forse solo una quota dei debiti ?
6) davvero possiamo ignorare progetti e risorse per una drastica riduzione delle plastiche prodotte, di quelle circolanti e di quelle disperse soprattutto nei corsi d’acqua, mentre diventa oggetto di rissa mediatica una tassa sulle bottigliette e le bevande gasate e zuccherate?
Ma che tipo di Recovery... new, green, next generation...Plan rischiamo di subire ?
È urgente un punto di vista radicalmente ecologista, antiliberista, alternativo... in fin dei conti solo sensato e ragionevole se pensiamo ai nostri nipoti ... per affrontare questo impegnativo e forse sfortunato secolo garantendo un futuro di decente sopravvivenza per le nuove generazioni, alle quali per il momento promettiamo debiti e tante tante chiacchiere dei trafficanti di “grandi opere” senza idee e senza etica. Emergono da dietro le quinte vecchi progetti, dal Ponte di Messina alla Tangenziale est di Torino, altri progetti autostradali con l’auto sempre al centro anche se si dovrebbe garantire la sola manutenzione dell’esistente.
Non è una proposta, né un progetto, ma è un dovere che tutti coloro che auspicano un cambiamento si facciano sentire, trovando direzioni comuni e le forme di unità possibili perché stiamo parlando del futuro del nostro paese e in generale del nostro pianeta. Mi sembra probabile che a giugno gli italiani saranno costretti a tornare al voto e si profila un anno da incubo, fra pandemia, instabilità politica, crisi sociale, decisivo per le sorti dei prossimi dieci anni di questo paese.
Provo ad accennare ai principali obiettivi su cui dovremmo basare il nostro Recovery Plan:
Transizione ecologica: 1) la mobilità individuale e collettiva
Va preso atto che l’auto
è un prodotto del secolo scorso non più accettabile come principale mezzo per
muoversi, come non lo sono tutti i mezzi, anche pubblici e collettivi che
direttamente o indirettamente alimentano la carbonizzazione (compresi tram,
autobus, auto a gpl, metano, elettriche e ibride). Singolare che un po’ di
ambientalisti troppo superficiali immaginino le elettriche (che vanno di fatto prevalentemente a
petrolio), come parte dell’alternativa. Naturalmente non possiamo fare a meno
di queste tecnologie obsolete ma possiamo ridurne drasticamente l’uso
progettando e costruendo una rete pubblica, dedicata, diffusa di metropolitane
in sotterranea, in superfice, in elevata che si connetta, ai margini di tutte le
medie e grandi città, con la rete esterna ferroviaria, autostradale e aeroportuale.
Diversi paesi nel mondo sono già avanti in questa direzione. Per rete si
intende una vera rete dove sia possibile trovare sempre una stazione di
accesso nell’arco di poche centinaia di metri con gli opportuni raccordi anche
mediante l’intersezione a una rete di piste ciclabili e risciò e di pedonalizzazioni
diffuse. Lasciando poche vie di scorrimento e totalmente sgombre per la parte
irrinunciabile di mezzi privati individuali, pubblici e commerciali, meglio se in parte
elettrici che sono più silenziosi, nelle vie centrali. Incredibilmente
molti ambientalisti non prendono in considerazione questa decisiva alternativa.
Per l’Italia sarebbero necessari 1000 km almeno di nuove reti metro a cui
dare priorità negli investimenti dandogli avvio nella progettazione da
subito e per i prossimi 10 anni. È sostenibile un progetto di completamento di
una linea di alta velocità ferroviaria nord-sud e l’ammodernamento della rete
ferroviaria interregionale che però sta in piedi solo se connessa ai terminali
metropolitani delle città. Altrimenti inevitabilmente prevarrà l’uso dell’auto.
Eliminazione quindi di incentivi e bonus a tutti i vettori, carburanti e derivati
del petrolio, ad auto elettriche e non, a impianti di qualunque tipo basati su
combustibili inquinanti e climalteranti. Se si impone questa direzione con
incentivi (a favore o contro) sarà “il mercato” da solo ad accelerare il
processo di riequilibrio.Per il momento le poche tratte di metro in programma sono sottofinaziate e al fondo degli elenchi di spesa, anche nel Recovery Plan.
Transizione ecologica: 2) la conversione delle abitazioni
Abbiamo in Italia un eccesso di abitazioni e contemporaneamente un bisogno di alloggi. Ma nel lungo periodo il vero problema ingestibile sono i consumi energetici (impianti elettrici, illuminazione interna, acqua calda) sproporzionati in tutti i tipi di edifici (abitazioni famigliari e condomini, uffici, capannoni industriali e ad uso agricolo) e in gran parte derivati dal petrolio. Per le nuove abitazioni andrebbe imposto l’obiettivo della totale autonomia energetica attraverso l’autoproduzione da rinnovabili. In pratica consumiamo energia pagata a caro prezzo e la buttiamo dalla finestra. Anche un efficace isolamento termico dei fabbricati andrebbe imposto per legge per tutte le nuove costruzioni. Lo sviluppo del fotovoltaico, ormai maturo, è stato praticamente soffocato per via legislativa dal 2015 in poi (governi Letta-Renzi-Gentiloni fino al Conte I) a partire dalla “bolletta 2.0” del dicembre 2015 che aumenta i costi fissi, ponendo difficoltà alla connessione alla rete, difficoltà allo storage e in particolare pone un blocco legislativo di fatto degli impianti per i consumi totali dei condomini che richiedono la parte più rilevante dei consumi. Si stima circa 900mila impianti esistenti e circa 25 GW fv istallati, meno del 10% di quelli tecnicamente possibili. Un Recovery Plan in questo settore più che risorse economiche, che con la cessione del credito agli istallatori sarebbero ridotte, dovrebbe prevedere la modifica della legislazione che le grandi società elettriche hanno imposto per soffocare le rinnovabili diffuse, l’autogestione della produzione elettrica ed il riversamento in rete del surplus. Qualche recente e complessa azione momentanea in controtendenza (i superbonus e la cessione del credito) specie nel Conte II, resta insufficiente e inadeguata perché si rinuncia ad un deciso intervento sulla legislazione. Rispetto agli obiettivi del PNIEC (il piano energia e clima) che prevede almeno 30 nuovi GW fotovoltaici al 2030, difficilmente arriveremo ad un terzo dell’obiettivo.
Digitalizzazione: 3) pubblico impiego, istruzione, ricerca
L’impegno di risorse dello Stato nella digitalizzazione deve essere concentrato nei settori pubblici e vitali perché li rende più efficienti, quindi socialmente più utili e di gran lunga meno costosi. Scuole, università, ospedali, ministeri, enti locali. Indirettamente la digitalizzazione avanzata in tutte le aree pubbliche ne stimolerà e faciliterà lo sviluppo nei settori privati abbassandone i costi di installazione. Mentre, come è giusto che sia, la proprietà delle linee e dei cavi resterebbe allo Stato, (specie nelle aree a fallimento di mercato snobbate dai privati) attraverso Infratel e il Ministero dello Sviluppo Economico, con la costruzione e gestione momentanea di Open Fiber, vincitrice ad oggi di tutti i bandi di gara.
Il problema prevalente è intanto il completamento (e la capacità di utilizzo) della banda larga (30 Mbps di velocità) ma soprattutto la rapidità con cui diffondere nei prossimi anni la banda ultralarga (100 Mbps e 1 Gbps) cioè la fibra ottica su tutta la linea fino all’abitazione, rottamando definitivamente le centraline e le tratte finali di Telecom. La fibra ottica oggi raggiunge meno del 40% di abitazioni, uffici e aziende (pubbliche e non) e in particolare quella più veloce non più del 20%.
Se la didattica a distanza (che io credo possa diventare una porzione permanente ma contenuta, dell’attività di istruzione dalle primarie elementari fino all’università ) trova difficoltà di utilizzo in alcune aree del paese ( specie Calabria, Sicilia, Puglia e Campania) diventa un problema sociale strategico superare lo stallo attraverso l’intervento stabile e permanente nelle famiglie in difficoltà con l’uso di facilitatori, qualcosa di simile ai navigator, che risolvano a chiamata le difficoltà dei giovani e forniscano gli apparecchi di collegamento ( tablet) al minimo costo. Superando così anche il dibattito fra sordi dei fautori della DAD (a distanza) e DIP (in presenza).
Politiche di convivenza: 4) reddito di sopravvivenza 5) migrazioni regolari
L’integrazione e la coesione sociale sono oggi obiettivi primari di qualunque progetto di equilibrata convivenza di un paese civile e non sono affatto di moda in varie parti del pianeta e neppure del nostro paese. Il centro della questione riguarda la capacità di offrire risposte permanenti alla parte della società interna che è ai limiti o al di sotto della soglia di sopravvivenza e contemporaneamente offrire risposte accettabili sul piano umano e affidabili sul piano della sicurezza, alle ondate migratorie che per un paese che si affaccia sul Mediterraneo sono ormai problema permanente.
- Il reddito di cittadinanza, per quanto ridimensionato dalle opposizioni a destra e a sinistra e pesantemente attaccato da gran parte dei media (di destra e di sinistra) è stato una prima grande riforma che ha risposto a un pezzo del problema. La destra leghista ne ha impedito l’estensione alle fasce di immigrati (regolari) di prima e seconda generazione, qualche centinaio di migliaia di persone. La sinistra piddina ne ha sminuito l’estensione all’intera fascia debole e ha ritardato localmente l’attivazione piena dei navigator. La Confindustria e i suoi sponsor sui media lo hanno additato come un grande spreco a sfavore di investimenti e crescita (meglio lavoro nero, caporali e precari a vita). Oggi l’estensione e l’aggiustamento dei criteri in modo da rispondere ai nuovi poveri prodotti dalla pandemia è più che mai all’ordine del giorno, anche se i promotori non sembrano più in grado di riproporre il reddito di cittadinanza,come il salario minimo orario, al centro del dibattito invece delle discutibili iniziative dei bonus e incentivi, molto meno mirate alle fasce realmente più deboli.
- Sulla gestione dei flussi migratori ho di recente espresso (qui) la mia totale contrarietà sia agli sbandieratori dei porti chiusi come a quelli delle porte aperte. Due modi solo apparentemente opposti di NON risolvere un problema che richiede un intervento permanente dello stato attraverso corridoi umanitari permanenti da aprire in tutti i paesi del sud del mondo sostituendosi agli scafisti, chiudendo porti e porte all’immigrazione clandestina e offrendo percorsi sicuri e un futuro decente a migliaia di persone ogni anno, sottraendoli alle mani dei gruppi criminali. Un’azione che specie all’inizio richiede una disponibilità di risorse ma soprattutto una organizzazione e idee chiare negli obiettivi da parte dello Stato.
Non dare risposte adeguate a questi due fenomeni sociali porta inevitabilmente ad una facile strumentalizzazione ed allo scontro fra le due parti diverse e più deboli della società: alla fine è il varco aperto a nazionalismo deteriore e xenofobia.
Salute: 6) la riorganizzazione delle strutture e della spesa sanitaria
L’avvento della Pandemia e il suo probabile prolungarsi per tempi maggiori di quelli previsti da molti, ha riaperto un dibattito, in parte strumentale (vedi MES), sul Servizio Sanitario Nazionale che si conferma come una Sanità pubblica fra le migliori d’Europa ed un esempio virtuoso per il resto del mondo. Al contrario di quanto si pensi la spesa sanitaria, con i riequilibri degli ultimi anni, è stata relativamente costante negli ultimi 15 anni ( circa 115-120 mld/a ) appena sotto la media europea sia come spesa pro-capite ( meglio solo Francia, Germania e alcuni paesi del Nordeuropa) sia in rapporto al PIL ( 6,5-6.9 %). Si sono decisamente ridotti gli sconfinamenti di spesa di alcune Regioni con un migliore allineamento attorno ai costi standard per la gestione e i materiali, che restano obiettivi da mantenere. Sono invece molto cambiate le direzioni di spesa (aumento per i farmaci, specie quelli innovativi e per malattie rare) e diminuzione dei costi intermedi in particolare sul personale (blocco turnover e limitazione stipendi). L’estensione della spesa in convenzione e verso il privato diretto ha tenuto alti i tempi di attesa nel pubblico. Se la media, con enormi differenze interne si può stimare in 60 giorni, nel privato convenzionato i tempi si dimezzano e nel privato diretto possono anche ridursi di 10 volte, basta pagare. La pandemia ha quindi reso più urgente un aumento stabile degli organici del personale e della loro remunerazione e ovviamente la definitiva cancellazione del numero chiuso in varie facoltà universitarie con anche lo sviluppo dell’istruzione professionale nelle aree infermieristiche.
Il vero dibattito dovrebbe riguardare l’estensione della medicina sul territorio, cioè maggiore diffusione di ambulatori attrezzati di quartiere, guardie mediche e assistenza domiciliare, prevenzione. Quindi sviluppo nel numero e anche nelle competenze delle USCA (Assistenza Continua). In realtà la pandemia ha mostrato i limiti strutturali del medico di base singolo (detto anche “medico della mutua, di medicina generale, di assistenza primaria”) in genere presente nel suo studiolo di ricevimento per un numero limitato di ore settimanali e privo di qualunque assistenza infermieristica, di qualunque strumentazione e inadatto a garantire la sicurezza antivirus. La riorganizzazione della medicina nel territorio dovrebbe prevedere anche sedi aggreganti di medici di base con limitate dotazioni di infermieri professionali e strumenti tali da alleggerire drasticamente l’affollamento (e i costi) degli Ospedali, l’assalto ai Pronto Soccorsi, una tempestiva assistenza sanitaria in zona basata sulla prevenzione, sicurezza di fronte a emergenze epidemiche. Le risorse indicate nel Recovery Plan sono più che sufficienti per permettere questa moderna forma di riorganizzazione, in grado di agire rapidamente in qualunque futura situazione emergenziale.
26 gennaio 2021
Bibliografia
PNRR-Nextgenerationitalia - Consiglio dei Ministri -12 gennaio 2021
Recovery Plan, Newt Generation Italia -bozza Gualtieri - 11 gennaio 2021
Cosa c’è (e cosa manca) nel “pacco regalo” del recovery plan - Corrado Oddi -16 gennaio 2021
Facciamo chiarezza su Mes e Recovery Fund – Marco Bersani - 16 gennaio 2021
Per capire lo strumento della ricostruzione (Recovery Plan) - Torquato Cardilli - 11 gennaio 2021
PNRR: osservazioni e proposte di LEU – 30 dicembre 2021
Osservazioni al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – SES - 23 dicembre 2020