30 gennaio 2021

Recovery Plan: arriveranno miliardi? A chi? Per fare cosa?


di Massimo Marino

Una cosa sola mi sembra sicura a proposito del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, lo strumento di programma di spesa con il quale dovremmo prendere respiro dalla crisi pandemica, rilanciare l’economia, garantire un futuro sostenibile: che, come nel resto del mondo in altre forme, sarà uno scontro pesante e lungo; quindi che il primo problema è rendere trasparente e far capire che cosa esattamente stiamo decidendo di lasciare in dote alle prossime generazioni e cosa stiamo decidendo di negargli. Almeno per questo intero terzo decennio del secolo che, guarda caso, è considerato da molti osservatori quello decisivo per riprendere il controllo della crisi climatica planetaria o arrendersi alla lenta degenerazione delle condizioni di sopravvivenza della vita dei popoli del pianeta e dei suoi stessi equilibri millenari.

Non si tratta soltanto della ovvia costatazione che la guerra sarà spietata perché c’è un malloppo da conquistare e sono tante le lobby, alcune magari anche dignitose, che chiederanno la loro parte ( dai gruppi mafiosi alle lobby confindustriali, dai partiti novecenteschi ai sindacati, dalla sanità privata alle congregazioni religiose, dalle associazioni cooperative ai gruppi che controllano l’informazione e i media, non tralasciando, ovviamente in prima fila su tutti, l’apparato militare, i gestori del sistema energetico e quelli dell' automotive privato). Ovvio che parecchi di questi soggetti un Recovery Fund con venature green lo vedono come fumo negli occhi e non hanno alcuna intenzione di lasciarlo passare.

Il malloppo si rileverà più modesto di quello presentato sui media: per due terzi ( circa 130 mld) si tratterebbe di prestito diluito nell’arco di sei anni (2021-2026) e di cui dal 2028 si dovrebbe avviare una molto graduale restituzione. Per un terzo ( circa 70 mld) si tratta di un sussidio che non prevede formale restituzione ed è in parte una partita di giro. Noi contribuiamo annualmente al bilancio europeo che poi ci restituisce i soldi in misura un po’ più elevata del solito e soprattutto con minori contropartite apparenti, almeno per il momento.

Alla fine, la novità del Recovery Fund sarà la disponibilità aggiuntiva di almeno 20 miliardi all’anno per sei anni. Non è tanto ma neanche poco perché saranno nuove risorse di spesa non prenotata che avremo a disposizione per uscire prima o poi dall’incubo sanitario ed economico della pandemia.

In teoria l’UE ha definito in modo abbastanza rigido le direzioni della spesa nella logica del PNRR ( Piano nazionale di ripresa e resilienza) ma anche con l’occhio al futuro con il titolo altisonante di Next Generation UE e in accordo con l’altra visione del Green New Deal europeo apparentemente fatta propria dalla signora Ursula von der Leyen, ormai da un anno presidente della Commissione Europea ed eletta grazie anche ai voti di 5Stelle e PD italiani. Ma fra le dichiarazioni e i fatti c’è di mezzo un mare...

Mi sembra abbastanza inutile entrare nei dettagli delle sei aree di intervento di spesa previste, come modellate nella prima bozza italiana, poi corretta. In realtà già peggiorata, soprattutto grazie a Renzi, dopo l’incontro fra i 4 partiti della maggioranza oggi defunta. Ne indico qui solo l’apparente ordine di priorità:

1)Transizione ecologica (circa 70 mld)

2) Digitalizzazione e cultura (circa 46 mld)

3) Mobilità e Infrastrutture (32 mld)

4) Istruzione e Ricerca (28,5 mld)

5) Inclusione e Coesione (quasi 28 mld)

6) Salute (19,7 mld)

In dettaglio andrebbero indicate 16 componenti di spesa su 47 linee di intervento e si sostiene che siano stati presentati almeno 400 progetti.

Prima e dopo la scadenza del 30 aprile, data in cui il Piano generale andrebbe presentato alla Commissione Europea per l’avvio della seconda parte dell’iter di approvazione che dovrebbe portare prima di fine anno al versamento di alcune decine di mld della prima tranche di spesa, il progetto cambierà ancora chissà quante volte e non va preso molto seriamente quello attuale. Al momento è difficile dire quale governo, quali ministri e quale alleanza di governo gestirà le prossime bozze dei prossimi tre mesi. Senza escludere l’ipotesi, che io ritengo probabile, che i due squilibrati, i capi del partito più piccolo e più grande nei sondaggi, ci portino a votare a giugno facendo un bel ciaone ai soldi di Bruxelles.

Ho allegato a questo articolo una piccola bibliografia di interventi, alcuni anche tecnicamente utili e di un qualche interesse, di singoli, gruppi, partiti o associazioni che in qualche modo dovrebbero rappresentare punti di vista alternativi, in qualche modo ispirati a visioni ecologiste, di giustizia sociale, in modi diversi critici sulle pure logiche di mercato che alcuni chiamano neoliberiste, oggi imballate dal difficile dualismo: crescita senza limiti e austerità indiscussa che, specie in tempi di pandemia, evidentemente non reggono più, tantè che i vincoli di Maastricht sono sospesi fino al 2022. Questi punti di vista alternativi, seppur confusamente, a parole dovrebbero essere già presenti nella bozza.  

Il Recovery Fund è un pacco regalo che il virtuoso Conte ha portato a casa da Bruxelles di cui moltissimi discutono, litigano, si fanno scudo per far cadere governi e attrezzare la propria personale campagna elettorale più o meno imminente, mentre ne esaltano i nastrini luccicanti e il profumo delicato (di soldi).

Da quasi tre anni (elezioni 2018) sostengo che il sistema politico-economico-mediatico, consolidatosi nel nostro paese con 25 anni di bipolarismo, non avrebbe mai permesso davvero ai 5Stelle o altre forze fuoricasta di governare davvero e ancora di più recentemente ho sostenuto che mai permetteranno ad un troppo docile asse Conte-5Stelle di gestire davvero il pacco regalo europeo. La guerra civile strisciante in corso, come mostrano le ultime settimane con le bravate del kamikaze di Rignano, non permette prigionieri, al massimo qualche incerto interlocutore in libertà alla Di Maio.  

Cosa debba esserci dentro il pacco regalo diventerà vago, indefinito, ma soprattutto inconfessabile.

Ce lo farà capire forse la squadra di “tecnici esperti” inviati da Bruxelles che verrebbero ad “aiutarci”, non ho chiaro per quanto tempo, a spendere bene i soldi del Recovery Fund (lo sapevate ?).

Facciamo qualche esempio per capirsi:

1) davvero dovremmo impegnare alcuni miliardi allo scopo di finanziare un’azienda nella ricerca per sequestrare un po’ di CO2 e nasconderla da qualche parte sotto il tappeto come contributo risolutivo per la crisi climatica? 

2) davvero dovremmo impegnare un altro pacco di soldi per la ricerca e sviluppo (in corso da 50 anni) per lanciare l’idrogeno (quello verde che diventa blu o grigio) come fonte alternativa a benzine, gasolio e gas con l’obiettivo di sostituirne l’1 per cento nella mobilità entro qualche decennio?

3) davvero dovremmo regalare alcuni miliardi alle multinazionali dell’auto per incentivi all’acquisto di auto elettriche (che perlopiù vanno a petrolio) aumentando il totale circolante di mezzi invece di programmare una progressiva riduzione delle auto, invece di finanziare un sistema di reti metropolitane e treni regionali efficienti quasi ignorate nella seconda bozza di Piano del 12 gennaio?

4) davvero il problema dei migranti e in particolare la costruzione di una rete di corridoi umanitari e di strutture stabili di integrazione, può essere del tutto dimenticato e ignorato nella stesura del Piano? Quasi che si trattasse di una emergenza transitoria che si risolverà in tempi brevi grazie alle bravate di Salvini o alle esibizioni di umanità delle Ong ?

5) davvero possiamo pensare di non mettere la metanizzazione dell’Ilva, l’allontanamento di molte centinaia di abitazioni dal perimetro dell’Azienda, la copertura dei magazzini e l’aggiornamento della sicurezza degli altoforni come esemplare progetto di ristrutturazione ambientale? Unica alternativa accettabile alla chiusura di una azienda che per il momento sta’ rendendo pubblica forse solo una quota dei debiti ?

6) davvero possiamo ignorare progetti e risorse per una drastica riduzione delle plastiche prodotte, di quelle circolanti e di quelle disperse soprattutto nei corsi d’acqua, mentre diventa oggetto di rissa mediatica una tassa sulle bottigliette e le bevande gasate e zuccherate?

Ma che tipo di Recovery... new, green, next generation...Plan rischiamo di subire ?

È urgente un punto di vista radicalmente ecologista, antiliberista, alternativo... in fin dei conti solo sensato e ragionevole se pensiamo ai nostri nipoti ...  per affrontare questo impegnativo e forse sfortunato secolo garantendo un futuro di decente sopravvivenza per le nuove generazioni, alle quali per il momento promettiamo debiti e tante tante chiacchiere dei trafficanti di “grandi opere” senza idee e senza etica. Emergono da dietro le quinte vecchi progetti, dal Ponte di Messina alla Tangenziale est di Torino, altri progetti autostradali con l’auto sempre al centro anche se si dovrebbe garantire la sola manutenzione dell’esistente. 

Non è una proposta, né un progetto, ma è un dovere che tutti coloro che auspicano un cambiamento si facciano sentire, trovando direzioni comuni e le forme di unità possibili perché stiamo parlando del futuro del nostro paese e in generale del nostro pianeta. Mi sembra probabile che a giugno gli italiani saranno costretti a tornare al voto e si profila un anno da incubo, fra pandemia, instabilità politica, crisi sociale, decisivo per le sorti dei prossimi dieci anni di questo paese.

Provo ad accennare ai principali obiettivi su cui dovremmo basare il nostro Recovery Plan:

Transizione ecologica: 1) la mobilità individuale e collettiva

Va preso atto che l’auto è un prodotto del secolo scorso non più accettabile come principale mezzo per muoversi, come non lo sono tutti i mezzi, anche pubblici e collettivi che direttamente o indirettamente alimentano la carbonizzazione (compresi tram, autobus, auto a gpl, metano, elettriche e ibride). Singolare che un po’ di ambientalisti troppo superficiali immaginino le elettriche (che vanno di fatto prevalentemente a petrolio), come parte dell’alternativa. Naturalmente non possiamo fare a meno di queste tecnologie obsolete ma possiamo ridurne drasticamente l’uso progettando e costruendo una rete pubblica, dedicata, diffusa di metropolitane in sotterranea, in superfice, in elevata che si connetta, ai margini di tutte le medie e grandi città, con la rete esterna ferroviaria, autostradale e aeroportuale. Diversi paesi nel mondo sono già avanti in questa direzione. Per rete si intende una vera rete dove sia possibile trovare sempre una stazione di accesso nell’arco di poche centinaia di metri con gli opportuni raccordi anche mediante l’intersezione a una rete di piste ciclabili e risciò e di pedonalizzazioni diffuse. Lasciando poche vie di scorrimento e totalmente sgombre per la parte irrinunciabile di mezzi privati individuali, pubblici e commerciali, meglio se in parte elettrici che sono più silenziosi, nelle vie centrali. Incredibilmente molti ambientalisti non prendono in considerazione questa decisiva alternativa. Per l’Italia sarebbero necessari 1000 km almeno di nuove reti metro a cui dare priorità negli investimenti dandogli avvio nella progettazione da subito e per i prossimi 10 anni. È sostenibile un progetto di completamento di una linea di alta velocità ferroviaria nord-sud e l’ammodernamento della rete ferroviaria interregionale che però sta in piedi solo se connessa ai terminali metropolitani delle città. Altrimenti inevitabilmente prevarrà l’uso dell’auto. Eliminazione quindi di incentivi e bonus a tutti i vettori, carburanti e derivati del petrolio, ad auto elettriche e non, a impianti di qualunque tipo basati su combustibili inquinanti e climalteranti. Se si impone questa direzione con incentivi (a favore o contro) sarà “il mercato” da solo ad accelerare il processo di riequilibrio.Per il momento le poche tratte di metro in programma sono sottofinaziate e al fondo degli elenchi di spesa, anche nel Recovery Plan.

Transizione ecologica: 2) la conversione delle abitazioni

Abbiamo in Italia un eccesso di abitazioni e contemporaneamente un bisogno di alloggi. Ma nel lungo periodo il vero problema ingestibile sono i consumi energetici (impianti elettrici, illuminazione interna, acqua calda) sproporzionati in tutti i tipi di edifici (abitazioni famigliari e condomini, uffici, capannoni industriali e ad uso agricolo) e in gran parte derivati dal petrolio. Per le nuove abitazioni andrebbe imposto l’obiettivo della totale autonomia energetica attraverso l’autoproduzione da rinnovabili. In pratica consumiamo energia pagata a caro prezzo e la buttiamo dalla finestra. Anche un efficace isolamento termico dei fabbricati andrebbe imposto per legge per tutte le nuove costruzioni. Lo sviluppo del fotovoltaico, ormai maturo, è stato praticamente soffocato per via legislativa dal 2015 in poi (governi Letta-Renzi-Gentiloni fino al Conte I) a partire dalla “bolletta 2.0” del dicembre 2015 che aumenta i costi fissi, ponendo difficoltà alla connessione alla rete, difficoltà allo storage e in particolare pone un blocco legislativo di fatto degli impianti per i consumi totali dei condomini che richiedono la parte più rilevante dei consumi. Si stima circa 900mila impianti esistenti e circa 25 GW fv istallati, meno del 10% di quelli tecnicamente possibili. Un Recovery Plan in questo settore più che risorse economiche, che con la cessione del credito agli istallatori sarebbero ridotte, dovrebbe prevedere la modifica della legislazione che le grandi società elettriche hanno imposto per soffocare le rinnovabili diffuse, l’autogestione della produzione elettrica ed il riversamento in rete del surplus. Qualche recente e complessa azione momentanea in controtendenza (i superbonus e la cessione del credito) specie nel Conte II, resta insufficiente e inadeguata perché si rinuncia ad un deciso intervento sulla legislazione. Rispetto agli obiettivi del PNIEC (il piano energia e clima) che prevede almeno 30 nuovi GW fotovoltaici al 2030, difficilmente arriveremo ad un terzo dell’obiettivo.  

 Digitalizzazione: 3) pubblico impiego, istruzione, ricerca

L’impegno di risorse dello Stato nella digitalizzazione deve essere concentrato nei settori pubblici e vitali perché li rende più efficienti, quindi socialmente più utili e di gran lunga meno costosi. Scuole, università, ospedali, ministeri, enti locali. Indirettamente la digitalizzazione avanzata in tutte le aree pubbliche ne stimolerà e faciliterà lo sviluppo nei settori privati abbassandone i costi di installazione. Mentre, come è giusto che sia, la proprietà delle linee e dei cavi resterebbe allo Stato, (specie nelle aree a fallimento di mercato snobbate dai privati) attraverso Infratel e il Ministero dello Sviluppo Economico, con la costruzione e gestione momentanea di Open Fiber, vincitrice ad oggi di tutti i bandi di gara.  

Il problema prevalente è intanto il completamento (e la capacità di utilizzo) della banda larga (30 Mbps di velocità) ma soprattutto la rapidità con cui diffondere nei prossimi anni la banda ultralarga (100 Mbps e 1 Gbps) cioè la fibra ottica su tutta la linea fino all’abitazione, rottamando definitivamente le centraline e le tratte finali di Telecom. La fibra ottica oggi raggiunge meno del 40% di abitazioni, uffici e aziende (pubbliche e non) e in particolare quella più veloce non più del 20%.   

Se la didattica a distanza (che io credo possa diventare una porzione permanente ma contenuta, dell’attività di istruzione dalle primarie elementari fino all’università ) trova difficoltà di utilizzo in alcune aree del paese ( specie Calabria, Sicilia, Puglia e Campania) diventa un problema sociale strategico superare lo stallo attraverso l’intervento stabile e permanente nelle famiglie in difficoltà con l’uso di facilitatori, qualcosa di simile ai navigator, che risolvano a chiamata le difficoltà dei giovani e forniscano gli apparecchi di collegamento ( tablet) al minimo costo. Superando così anche il dibattito fra sordi dei fautori della DAD (a distanza) e DIP (in presenza).

Politiche di convivenza: 4) reddito di sopravvivenza 5) migrazioni regolari

L’integrazione e la coesione sociale sono oggi obiettivi primari di qualunque progetto di equilibrata convivenza di un paese civile e non sono affatto di moda in varie parti del pianeta e neppure del nostro paese. Il centro della questione riguarda la capacità di offrire risposte permanenti alla parte della società interna che è ai limiti o al di sotto della soglia di sopravvivenza e contemporaneamente offrire risposte accettabili sul piano umano e affidabili sul piano della sicurezza, alle ondate migratorie che per un paese che si affaccia sul Mediterraneo sono ormai problema permanente.

- Il reddito di cittadinanza, per quanto ridimensionato dalle opposizioni a destra e a sinistra e pesantemente attaccato da gran parte dei media (di destra e di sinistra) è stato una prima grande riforma che ha risposto a un pezzo del problema. La destra leghista ne ha impedito l’estensione alle fasce di immigrati (regolari) di prima e seconda generazione, qualche centinaio di migliaia di persone. La sinistra piddina ne ha sminuito l’estensione all’intera fascia debole e ha ritardato localmente l’attivazione piena dei navigator. La Confindustria e i suoi sponsor sui media lo hanno additato come un grande spreco a sfavore di investimenti e crescita (meglio lavoro nero, caporali e precari a vita). Oggi l’estensione e l’aggiustamento dei criteri in modo da rispondere ai nuovi poveri prodotti dalla pandemia è più che mai all’ordine del giorno, anche se i promotori non sembrano più in grado di riproporre il reddito di cittadinanza,come il salario minimo orario, al centro del dibattito invece delle discutibili iniziative dei bonus e incentivi, molto meno mirate alle fasce realmente più deboli.

- Sulla gestione dei flussi migratori ho di recente espresso (qui)  la mia totale contrarietà sia agli sbandieratori dei porti chiusi come a quelli delle porte aperte.  Due modi solo apparentemente opposti di NON risolvere un problema che richiede un intervento permanente dello stato attraverso corridoi umanitari permanenti da aprire in tutti i paesi del sud del mondo sostituendosi agli scafisti, chiudendo porti e porte all’immigrazione clandestina e offrendo percorsi sicuri e un futuro decente a migliaia di persone ogni anno, sottraendoli alle mani dei gruppi criminali. Un’azione che specie all’inizio richiede una disponibilità di risorse ma soprattutto una organizzazione e idee chiare negli obiettivi da parte dello Stato.

Non dare risposte adeguate a questi due fenomeni sociali porta inevitabilmente ad una facile strumentalizzazione ed allo scontro fra le due parti diverse e più deboli della società: alla fine è il varco aperto a nazionalismo deteriore e xenofobia.

Salute: 6) la riorganizzazione delle strutture e della spesa sanitaria 

L’avvento della Pandemia e il suo probabile prolungarsi per tempi maggiori di quelli previsti da molti, ha riaperto un dibattito, in parte strumentale (vedi MES), sul Servizio Sanitario Nazionale che si conferma come una Sanità pubblica fra le migliori d’Europa ed un esempio virtuoso per il resto del mondo. Al contrario di quanto si pensi la spesa sanitaria, con i riequilibri degli ultimi anni, è stata relativamente costante negli ultimi 15 anni ( circa 115-120 mld/a ) appena sotto la media europea sia come spesa pro-capite ( meglio solo Francia, Germania e alcuni paesi del Nordeuropa) sia in rapporto al PIL ( 6,5-6.9 %). Si sono decisamente ridotti gli sconfinamenti di spesa di alcune Regioni con un migliore allineamento attorno ai costi standard per la gestione e i materiali, che restano obiettivi da mantenere. Sono invece molto cambiate le direzioni di spesa (aumento per i farmaci, specie quelli innovativi e per malattie rare) e diminuzione dei costi intermedi in particolare sul personale (blocco turnover e limitazione stipendi). L’estensione della spesa in convenzione e verso il privato diretto ha tenuto alti i tempi di attesa nel pubblico. Se la media, con enormi differenze interne si può stimare in 60 giorni, nel privato convenzionato i tempi si dimezzano e nel privato diretto possono anche ridursi di 10 volte, basta pagare. La pandemia ha quindi reso più urgente un aumento stabile degli organici del personale e della loro remunerazione e ovviamente la definitiva cancellazione del numero chiuso in varie facoltà universitarie con anche lo sviluppo dell’istruzione professionale nelle aree infermieristiche.

Il vero dibattito dovrebbe riguardare l’estensione della medicina sul territorio, cioè maggiore diffusione di ambulatori attrezzati di quartiere, guardie mediche e assistenza domiciliare, prevenzione. Quindi sviluppo nel numero e anche nelle competenze delle USCA (Assistenza Continua). In realtà la pandemia ha mostrato i limiti strutturali del medico di base singolo (detto anche “medico della mutua, di medicina generale, di assistenza primaria”) in genere presente nel suo studiolo di ricevimento per un numero limitato di ore settimanali e privo di qualunque assistenza infermieristica, di qualunque strumentazione e inadatto a garantire la sicurezza antivirus. La riorganizzazione della medicina nel territorio dovrebbe prevedere anche sedi aggreganti di medici di base con limitate dotazioni di infermieri professionali e strumenti tali da alleggerire drasticamente l’affollamento (e i costi) degli Ospedali, l’assalto ai Pronto Soccorsi, una tempestiva assistenza sanitaria in zona basata sulla prevenzione, sicurezza di fronte a emergenze epidemiche. Le risorse indicate nel Recovery Plan sono più che sufficienti per permettere questa moderna forma di riorganizzazione, in grado di agire rapidamente in qualunque futura situazione emergenziale.   

                                                                                                   26 gennaio 2021

Bibliografia

PNRR-Nextgenerationitalia - Consiglio dei Ministri -12 gennaio 2021

 Recovery Plan, Newt Generation Italia -bozza Gualtieri - 11 gennaio 2021

Cosa c’è (e cosa manca) nel “pacco regalo” del recovery plan - Corrado Oddi -16 gennaio 2021

Facciamo chiarezza su Mes e Recovery Fund – Marco Bersani - 16 gennaio 2021

Per capire lo strumento della ricostruzione (Recovery Plan) - Torquato Cardilli - 11 gennaio 2021

PNRR: osservazioni e proposte di LEU – 30 dicembre 2021

Osservazioni al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – SES - 23 dicembre 2020

 

25 gennaio 2021

Come potenziare il mercato fotovoltaico italiano nel breve periodo

 di Francesco Luise *

Quali sviluppi a breve del solare fotovoltaico in Italia? Ne parliamo con il Vicepresidente di Italia Solare, Attilio Piattelli.

Il fotovoltaico italiano ha reagito alla crisi causata dalla pandemia e, nonostante i risultati non eccezionali delle ultime aste, ha proseguito la sua lenta crescita. I dati finali dovrebbero dirci che le installazioni 2020 si chiuderanno con poco più di 800 MW di nuova potenza, con un incremento di non oltre il 10% sul 2019. Del mercato nazionale fotovoltaico nel 2020 e degli scenari per il 2021 parliamo con il vicepresidente di Italia Solare, Attilio Piattelli.

Ingegner Piattelli, si tratta di una crescita che interessa tutti i segmenti del mercato in maniera omogenea?

Non si può parlare in realtà di una vera e propria crescita. In ogni caso possiamo certamente dire che il settore ha almeno tenuto in quest’anno di grandi difficoltà legate alla diffusione del Covid. Si è avuto un crollo delle installazioni solo nel mese di aprile 2020 a causa del lockdown totale. Se però pensiamo agli obiettivi al 2030 previsti dal PNIEC, cioè circa 30 GW di potenza aggiuntiva, che dovranno anche essere rivisti al rialzo, la potenza annuale installata dovrebbe viaggiare al ritmo di almeno 2 GW annui per i prossimi 1-2 anni, per poi crescere fino ad arrivare ad attestarsi su valori superiori a 5 GW annui. Sulle potenze installate per i vari segmenti di mercato non si notano apprezzabili cambiamenti tra il 2019 e il 2020 con una ripartizione abbastanza bilanciata tra le tre categorie di potenze 0-20 kW, 20-1.000 kW e sopra il megawatt.

Le ultime aste raccontano di un rallentamento del comparto utility scale. In quello che IEA definisce “scenario accelerato”, la capacità aggiuntiva annuale media potrebbe raggiungere i 4,6 GW durante il periodo 2023-25. È plausibile che la potenza cresca a questi livelli?

Lo scenario di 4,6 GW durante il periodo 2023-25 non può essere considerato uno scenario accelerato, poiché la revisione del PNIEC dovrà prevedere necessariamente questi numeri o anche superiori se vorremo avere una minima possibilità di raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni del 55% al 2030 rispetto al 1990.

A che cosa è dovuta l’inefficienza delle aste?

Le aste stanno mettendo in luce alcuni problemi strutturali presenti nel DM FER1, che gli esperti di settore avevano previsto sin dall’inizio. L’impossibilità per gli impianti FV realizzati su terreni agricoli di avere accesso agli incentivi riduce la partecipazione solo a eolico e impianti FV realizzati su terreni industriali, cave e discariche ripristinate e siti bonificati. Ma cave, discariche e siti bonificati hanno spesso notevoli problematiche tecniche che limitano il numero delle opportunità, mentre i terreni industriali hanno in genere prezzi troppo elevati per poter rendere gli impianti FV competitivi in asta. E allora le aste sono prevalentemente appannaggio di impianti eolici.

Quali aspettative ha per i nuovi bandi FER1 e cosa si dovrebbe fare per renderli più efficienti?

La previsione per le prossime aste è che ci sarà tanta potenza non assegnata visto che gli impianti FV hanno poca possibilità di partecipazione e scarseggiano anche le nuove autorizzazioni per impianti eolici: gli iter autorizzativi richiedono tempi lunghissimi e non compatibili con la frequenza delle aste. Per quel che riguarda invece i registri sarebbe necessario apportare correttivi al Registro A2 dedicato alla sostituzione di coperture in amianto poiché l’attuale incentivo di 12 €/MWh è troppo basso e non rende interessanti le iniziative tanto che dei primi 300 MW messi a disposizione nei primi tre bandi sono stati assegnati meno di 50 MW. Italia Solare ha già inoltrato comunicazione formale al MiSE per richiedere un incremento dell’incentivo da 12 a 50 €/MWh, valore che si ritiene ragionevole per poter rendere interessanti i progetti anche al nord Italia.

Per il comparto residenziale, invece, come vede il mercato nel 2021?

Ci sono attese di forte crescita. Non è ancora possibile fare previsioni attendibili, ma il contributo del Superbonus e della cessione del credito introdotta per le detrazioni fiscali del 50% di cui godono anche gli impianti fotovoltaici domestici darà una forte spinta. La cessione del credito se resa strutturale, a differenza del Superbonus che, al momento, dovrebbe terminare a giugno del 2022, permetterebbe un notevole numero di nuove installazioni di impianti domestici per i prossimi anni.

Per i condomini quale impatto avranno le nuove regole per l’autoconsumo collettivo?

Finora c’è stato scarso interesse alla realizzazione di impianti fotovoltaici sui condomini poiché la possibilità di connessione al contatore dei soli servizi generali di condominio limitava sia la potenza installabile che l’autoconsumo. Basti pensare che su circa 900mila impianti già realizzati in Italia solo poche migliaia sono collocati su condomini. Ora, invece, con le nuove norme sull’autoconsumo collettivo sono stati introdotti una serie di benefici molto interessanti che certamente daranno un forte stimolo alla realizzazione di impianti FV a servizio dei condomini. In particolare, mi riferisco alla non necessità di una forma giuridica aggiuntiva, alla possibilità di realizzare impianti fino a 200 kW di potenza senza dover aprire una partita IVA, mentre prima il limite era di 20 kW e, soprattutto, al maggior beneficio che si può avere dall’aver introdotto l’autoconsumo condiviso tra tutti i condomini.

E per le comunità energetiche?

Qui il discorso è diverso perché, pur essendoci un grande interesse, soprattutto di piccoli borghi e aree rurali, l’attuale assetto sembra essere troppo limitante per poter immaginare a breve una notevole diffusione delle Comunità. In particolare, la limitazione alla bassa tensione per gli impianti di produzione e l’estensione della comunità all’area sottesa alla stessa cabina rappresentano dei fattori che rallentano un loro rapido sviluppo. Per vedere un’ampia diffusione di queste configurazioni sarà forse necessario attendere il pieno recepimento di quanto previsto dalla RED II con l’auspicata estensione delle comunità energetiche anche alla media tensione.

Quali sono le aspettative della sua associazione sul mercato degli impianti FV in market parity?

Oggi si è arrivati ad un punto in cui la riduzione dei costi di realizzazione degli impianti di grandi dimensioni, o “utility scale”, fa sì che ci sia convenienza a realizzarli anche in totale assenza di incentivi, facendo affidamento solo sulle remunerazioni derivanti dalla vendita di energia. Siamo però in una situazione paradossale: il solare è una fonte a cui il PNIEC affida il maggior contributo al 2030, ma il cui sviluppo è limitato da un contesto nazionale non favorevole alla realizzazione dei grandi impianti, soprattutto se sono su terreno agricolo. Una situazione illogica. Qualora per assurdo il 100% degli attuali obiettivi al 2030 per il fotovoltaico fosse ottenuto con la sola realizzazione di impianti a terra l’area occupata sarebbe inferiore a 60.000 ettari, pari allo 0,36% della superficie agricola italiana, comunque inferiore all’area agricola che ogni anno viene dismessa e persa per l’agricoltura.

La soluzione?

Basterebbe individuare le caratteristiche che devono avere le aree agricole marginali oggi non utilizzate a fini agricoli e permetterne l’utilizzo a fini energetici. Purtroppo, c’è ancora una contrapposizione tra mondo delle rinnovabili e quello agricolo. Bisognerebbe invece comprendere che esiste una interessante sinergia tra i due settori. La transizione verso aziende agro-energetiche potrebbe rappresentare anche un concreto elemento di rilancio del settore agricolo.

Parliamo di storage. Qual è la situazione di mercato?

Me la vorrei cavare con una battuta: “fino a quando ci sarà in Italia un capacity market non aperto alle rinnovabili lo sviluppo degli stoccaggi sarà sempre ostacolato”. Se poi vogliamo parlare in concreto, fino ad oggi non si è fatto assolutamente nulla per agevolare la diffusione degli accumuli né a livello domestico, né a livello commerciale o industriale e neppure su scala utility. La presenza dello scambio sul posto fino a 500 kW ha poi di fatto ostacolato l’ottimizzazione dell’autoconsumo e quindi anche il ricorso agli accumuli.

Cosa lo favorirebbe invece?

Almeno a livello domestico, le cose stanno cambiando poiché sia il Superbonus che le Comunità di energia rinnovabile permetteranno una buona diffusione degli accumuli domestici. Per il segmento industriale e commerciale, a parità di costo per lo Stato, basterebbe permettere di poter optare per un premio sull’autoconsumo anziché sull’immissione in rete. A livello utility scale sarebbe necessario introdurre veri criteri di remunerazione dei servizi di rete: riserva di capacità, regolazione di frequenza e tensione, specifici per gli accumuli, al momento assenti. Diciamo che la loro introduzione darebbe fastidio ai produttori di energia da fossili; fa comodo a molti poter continuare a sostenere che eolico e fotovoltaico non sono fonti programmabili.

Possiamo fare una stima su giro d’affari e occupazione nel breve periodo?

Se consideriamo i nuovi obiettivi al 2030 si possono fare delle rapide stime che prevedono almeno nuova potenza di 20-25 GW entro il 2025 e non meno di 60 GW al 2030, numeri in linea anche con le previsioni a breve della IEA. Possiamo dire che 5 GW annui rappresentano a grandi linee 4-5 miliardi di euro di giro d’affari ogni anno e un’occupazione di circa 35.000 unità a cui si vanno ad aggiungere gli occupati permanenti impiegati per le attività O&M che, al 2025, potrebbero essere 50-55mila. I dati sono quelli di uno studio del GSE sulle stime di occupazione per MW installato.

Come potrà beneficiare il fotovoltaico delle risorse del Recovery Fund?

Il Recovery Fund dovrebbe supportare questa consistente crescita promuovendo un maggior sviluppo del fotovoltaico domestico, dove serve ancora un supporto alla realizzazione degli impianti, con misure come superbonus e cessione del credito. Ma poi servirà il sostegno all’agro-fotovoltaico e allo sviluppo dei sistemi di accumulo. Purtroppo, ad oggi, sulla base dei documenti che sono circolati, sembrerebbe ancora mancare di quella visione organica necessaria al settore per poter ottenere i numeri attesi.

* da www.qualenergia.it – 19 gennaio 2021