“Stavolta rischiamo molto più della marginalizzazione. Rischiamo la scomparsa dalla Knesset. Presentarsi divisi alle elezioni di marzo sarebbe un suicidio politico, il più grande regalo fatto alla destra e all’uomo che tiene in ostaggio Israele: Benjamin Netanyahu”. Intervista con la dirigente e parlamentare di Meretz.
di Umberto De Givannangeli *
Stavolta rischiamo molto più della marginalizzazione. Rischiamo la scomparsa dalla Knesset. Presentarsi divisi alle elezioni di marzo sarebbe un suicidio politico, il più grande regalo fatto alla destra e all’uomo che tiene in ostaggio Israele: Benjamin Netanyahu.
Le considerazioni che Tamar Zandberg, 44 anni, già leader del Meretz, parlamentare dal 2013, la sinistra pacifista israeliana, affida a questa intervista esclusiva concessa a ytali, sono molto più di un grido d’allarme. Chi scrive conosce da tempo Zandberg, una dirigente che misura le parole, che ama il ragionamento e rifugge dalle drammatizzazioni. Proprio per questo le sue parole raccontano di una tragedia politica in atto nello stato ebraico. La tragedia di una sinistra ridotta ai minimi termini, con un antico, glorioso partito che ha fondato Israele, governandolo ininterrottamente dal 1948, anno della fondazione dello stato, al 1977: il Partito laburista. Ha’Avodà, il partito che fu di David Ben Gurion, Abba Eban, Golda Meir, Yitzhak Rabin, Shimon Peres… rischia di non superare la soglia di sbarramento per poter entrare alla Knesset sia pure con una manciata di eletti.
Dobbiamo essere onesti con noi stessi e con quanti ancora credono in noi: stavolta in gioco è la sopravvivenza stessa della sinistra, del campo della pace e, in definitiva, dello stesso sistema democratico che è tale se vive in una dialettica tra visioni, progetti, programmi diversi.
Israele s’appresta a tornare al voto, a marzo prossimo, nelle quarte elezioni anticipate in due anni. Un record mondiale. Secondo recenti sondaggi, per la prima volta nella storia d’Israele, i primi partiti sono tutti di destra, e la sinistra, a cominciare dal Partito laburista, rischia di scomparire. Siamo al de profundis di chi ha per decenni governato Israele? La sinistra è a un passo dal baratro?
Il rischio è grandissimo e minimizzarlo sarebbe l’anticamera del suicidio politico. Siamo di fronte a un tragico paradosso che racconta la crisi di un sistema politico, e non solo di una sua parte…
Tamar Zandberg partecipa alla protesta dei cittadini arabi fuori della Knesset. Nei quartieri e nelle comunità arabe d’Israele la criminalità è molto alta (110 omicidi dall’inizio dell’anno) nella sostanziale inerzia delle forze di polizia. Di qui la protesta.
E quale sarebbe questo paradosso?
Israele sta vivendo una delle crisi più drammatiche, devastanti della sua storia.
La gestione della crisi pandemica da parte del governo guidato da Benjamin
Netanyahu è stata a dir poco irresponsabile. L’irresponsabilità di chi ha prima
minimizzato la portata del Covid-19, irridendo gli scienziati e i medici che
denunciavano una situazione da codice rosso, salvo poi correre ai ripari con
una gestione ondivaga, assolutamente inefficace, del lockdown. Eppure,
Netanyahu e la destra che lo sostiene continuano a dettar legge, decidendo di
riportare un paese devastato dal coronavirus a nuove elezioni, senza aver
potuto votare la legge di bilancio, solo perché a Netanyahu non è stata
garantita l’impunità di fronte alla legge. Il paradosso sta nel fatto che a
beneficiare delle proteste sociali di questi mesi, a trarre profitto politico dello
slogan, “prima di tutto, niente Bibi” saranno forze di destra, ancora più
oltranziste del Likud che Netanyahu ha plasmato a sua immagine e somiglianza.
E in tutto questo, la sinistra, il campo democratico?
Abbiamo pagato a caro prezzo la divisione tra governisti e testimoni di una
purezza fine a se stessa. Il primo responsabile di questo sfacelo è l’uomo che
avrebbe dovuto rappresentare l’alternativa a Netanyahu e che invece è finito
per governarci insieme, sfasciando Kahol Lavan, e permettendo a Netanyahu di
fare il proprio comodo fino a quando non ha deciso che era meglio, per lui, di
ritornare al voto…
Lei sta parlando di Benny Gantz…
E di chi altri sennò? Gantz aveva chiesto il voto per porre fine all’era
Netanyahu, per salvare una democrazia messa in crisi da un politico che gridava
al golpe perché magistrati e poliziotti avevano osato indagare sulle sue
malefatte. Gantz era stato indicato al capo dello Stato come premier incaricato
da un arco di forze che andavano dalla Joint List (la Lista Araba Unita) alle
forze centriste che avevano dato vita a Kahol Lavan (Blu e Bianco, ndr). Invece
di capitalizzare questo sostegno, Gantz ha scelto di governate assieme a
Netanyahu, in nome dell’emergenza Covid. Il risultato di questa scelta è stato
disastroso.
Sarà pure così. Ma resta un problema irrisolto: perché a trarre profitto di questa débacle è la destra di Naftali Bennet e Gideon Sa’ar (l’ex ministro degli interni uscito dal Likud, in polemica con Netanyahu e che ha dato vita a New Hope, una sorta di Likud camuffato) e non il Labour o voi del Meretz?
Quella che lei pone è una domanda esistenziale. Perché non può essere risolta
solo elencando gli errori commessi in questi anni dalle classi dirigenti della
sinistra. Certo, gli errori ci sono stati, pesano i personalismi, le logiche di
fazione, la presunzione di essere comunque superiori, sul piano culturale, di
una destra rozza e priva di fascinazione intellettuale. Ma quello che davvero
conta di più, è che la sinistra non ha compreso la profonda trasformazione
antropologica, sì antropologica, d’Israele. Una trasformazione determinata
dallo stravolgimento demografico, dalla preponderanza del ritorno di ebrei
dalla ex Unione Sovietica e dai paesi arabi, rispetto agli ebrei ashkenaziti,
quelli che avevano costruito Israele, che per decenni avevano rappresentato
l’élite d’Israele. La destra ha saputo raccogliere e capitalizzare il rancore
sociale di quanti si sentivano esclusi, messi ai margini. La sinistra ha
cominciato a perdere quando non ha saputo più cogliere queste trasformazioni e
pensare a un paese che includesse queste marginalità che erano nel frattempo
diventate maggioranza. Israele è cambiato e noi non siamo riusciti ad essere al
passo di questo cambiamento.
Tamar Sandberg con Nitzan Horowitz, leader di Meretz e parlamentare, osservano quello che resta di una casa palestinese distrutta per la seconda volta in due anni.
La sinistra è stata identificata come il “campo della pace”. Ma in un tempo in cui la pace con i palestinesi non è più in cima alle priorità d’Israele, non pensa che questa identificazione rappresenti un limite per voi?
Lei tocca un punto dolente. Continuo a credere che una pace giusta e duratura
con i palestinesi sia un problema ineludibile per Israele, perché non è
pensabile cancellare milioni di persone che vivono accanto a noi sotto
occupazione. A Gaza, in Cisgiordania, crescono generazioni che hanno conosciuto
soltanto guerre, repressione, umiliazione. Questi sentimenti un giorno
esploderanno e Israele si troverà di nuovo ad affrontare una rivolta alla quale
non potrà rispondere solo con la repressione. Ma è altrettanto vero che oggi
essere identificati come il “campo della pace” è qualcosa di residuale, che non
dà risposta al malessere e alle aspettative di quei milioni di israeliani che
vivono oggi sotto la soglia di povertà. La sinistra è stata identificata con le
élite del paese, distaccata dalle classi più disagiate, incapace di intercettare
quel malessere sociale che attraversa ogni settore della società. Non siamo
riusciti a offrire una speranza a chi non ne ha più. La pace, i diritti
civili, sono cose importanti ma se non aggredisci la questione sociale sei
destinato alla sconfitta. Su questo occorre una riflessione autocritica che non
può essere più rinviata, sapendo che ci vorrà tempo per ricostruire un
radicamento venuto sempre meno. Tempo, idee e una nuova classe dirigente.
Intanto, però, c’è l’appuntamento elettorale di marzo. Un appuntamento vitale.
È così. Per questo occorre, da subito, serrare le fila e unire le forze che si
oppongono al dominio delle destre. Un fronte democratico. Chi ne sia il leader
è oggi un elemento assolutamente secondario. Ciò che resta di Kahol Lavan, il
Labour, il Meretz, la Joint List: dobbiamo creare un fronte comune in grado di
rappresentare se non un’alternativa di governo quanto meno una opposizione in
grado di incidere, di pesare. Divisi siamo condannati alla scomparsa. E questo
sarebbe esiziale per Israele.
“Questa settimana alla conferenza Women Make Peace per celebrare il 20° anniversario della Risoluzione 1325 delle Nazioni Unite (Incorporating Women in Decision Making in Conflict and Negotiation Centers). Il 2020 è anche l’anno del coronavirus (con implicazioni di vasta portata per le donne) e 20 per aver lasciato il Libano (grazie a 4 madri). Donne nei centri decisionali, non per intraprendere un’altra guerra, ma per cambiare direzione verso la pace” [@tamarzandberg, 26 novembre 2020]
Israele sembra essere chiamato a scegliere tra Netanyahu e i suoi sfidanti di destra, Bennet e Sa’ar. Una prospettiva inimmaginabile fino a qualche tempo fa.
È come se esistessero due Israele. C’è l’Israele delle start up, il paradiso
dei gay, l’Israele che vive h24, creativa, fantasiosa, laica. È Tel Aviv, la
“California” d’Israele. Quella che contribuisce maggiormente alla produzione di
ricchezza, ma che è minoranza. Se votasse solo Tel Aviv, il Meretz sarebbe una
potenza. Ma Israele è anche Gerusalemme, sono gli insediamenti trasformati in
città, è la tradizione declinata in chiave integralista che prevale sulla
modernità. Prima che politica, la frattura tra queste due Israele è sociale,
culturale, di concezione della vita, dei rapporti interpersonali, della
sessualità. La pace in tutto questo c’entra poco o niente. A questa Israele
laica, libertaria, proiettata nella modernità, la sinistra deve offrire una
sponda politica credibile, unitaria, inclusiva.
Ciò significa mettere da parte la distinzione tra ebrei e arabi
Assolutamente sì. Questa distinzione fa parte del bagaglio identitario della
destra, è a fondamento di una concezione etnocratica della democrazia. Esistono
ebrei progressisti e arabi conservatori, e viceversa. Il fronte democratico per
cui io mi batto parte da questo assunto. E dico di più: questo discorso investe
anche la questione palestinese…
In che senso?
Nel senso che occorre prendere atto che non esistono più le condizioni per
pensare a una pace fondata sul principio “due popoli, due stati”. C’è qualcuno
che in tutta onestà intellettuale po’ pensare che un governo israeliano, anche
di centrosinistra, possa decidere di smantellare gli insediamenti-città della
West Bank in cui vivono mezzo milione di israeliani? Parlare oggi di uno stato
palestinese è non fare i conti con la realtà, a meno che non s’intenda
spacciare per stato un bantustan di stampo sudafricano. E allora occorre avere
il coraggio di porre la questione di uno stato binazionale, in cui si conta per
le idee che si professano e non per l’appartenenza etnico-religiosa. Io da
ebrea non mi sentirei in pericolo in uno stato del genere. Perché so che tra i
palestinesi vi è una maggioranza che non è fondamentalista, ma che crede in uno
stato multietnico e pluralista. Questo vol dire oggi andare controcorrente? Ma
se la sinistra vuole continuare a esistere, deve essere capace di farlo. Il
modo certo di scomparire è rincorrere la destra sul suo terreno.
Nella foto: Tamar Zandberg sulle alture a sud del monte Hebron
*da ytali.com – 29 dicembre 2020
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