5 gennaio 2021

C’era una volta l’Amerika

di Massimo Marino

Nelle prime ore dopo la fine del voto di novembre per le presidenziali USA, quando il vincitore non era chiaro ma era chiaro che Trump non era stato travolto da un elettorato ostile come parecchi osservatori ci suggerivano, un commentatore che in genere non apprezzo ha dichiarato che gli USA sono un paese del terzo mondo di sconfinata potenza economica e militare con un popolo ignorante.  Sul momento ho sottovalutato la pessima battuta ma con il passare dei giorni (è bene farli passare prima di esprimere opinioni avventate su avvenimenti così lontani, complessi, mediaticamente falsati) devo riconoscere che la inconsueta battuta aveva un senso.

Nel 2008 commentai solo dopo quasi due mesi la vittoria di Obama al primo mandato con una lunga riflessione scritta (“Le dieci spine di Obama”) che ebbe una buona attenzione da parte di quel ristretto numero di lettori disponibili a leggere un documento di 15 pagine e una decina di grafici e tabelle nel mentre si era invece inebriati dall’idea che per la prima volta un afroamericano (madre bianca del Kansas e padre nero del Kenia ) era diventato Presidente. A pochi era noto che in realtà né il padre né il Kenia erano stati praticamente oggetti delle sue frequentazioni da adolescente, svoltesi per lo più nella benestante famiglia materna a Honolunu nelle Hawai, cinquantesimo Stato della federazione americana.

Gli scherzi della genetica lo fecero nerissimo per quanto la madre avesse una pelle bianca come il latte ma le sue leggi si confermarono quando dall’unione in matrimonio con Michelle Robinson, l’unica vera nera della nuova famiglia (probabilmente originata dai neri importati come schiavi in America), puntualmente nacquero due simpatiche ragazzine nere, Malia e Sasha.  Nell’insieme una splendida e simpatica famiglia, che per qualche anno abbiamo confuso con una nuova America di cui si sentiva il bisogno sul pianeta delle testate nucleari a volontà, del terrorismo islamico nascente, della crisi climatica già all’orizzonte, della fame nel mondo ormai dilagante.

Come forse qualche altro miliardo di umani ho sperato che le spine di Obama (la democrazia in Usa, un nuovo ruolo del Presidente, la rifondazione del sistema finanziario e delle banche, il superamento dell’auto, la guerra quasi vinta in Iraq, la guerra quasi persa in Afghanistan, la riforma del sistema sanitario, il protocollo di Kyoto e il modello energetico, i disoccupati e la povertà, i soldi degli americani e gli armamenti), venissero da lui almeno in parte spuntate e ce ne erano ragionevoli presupposti. Nel 2008 Obama vinceva contro McCain con 69,5 mil. di voti popolari contro 60. Nel 2012 rivinceva contro Romney con 66 mil. di voti contro 61. Un successo ripetuto ma non un trionfo. Gran parte dei commentatori, di diverso orientamento, in realtà oggi condividono il giudizio che dopo i primi 2-3 anni è stato chiaro che gran parte delle “promesse” di Obama non sarebbero state mantenute o, se preferite, non c’erano le condizioni per mantenerle. Tantomeno quelle vagamente di stampo “ambientalista, socialista, pacifista, malgrado il suo azzardato Nobel per la Pace del 2009 a inizio mandato.

- Negli 8 anni di presidenza Obama si sono svolte 7 guerre con un ruolo di rilievo degli USA. Da quelle ereditate da Bush in Iraq dal 2001 e Afghanistan dal 2003, a quelle in Pakistan, Somalia, Yemen, poi in Siria e infine in Libia, il paese dove il governo (Gheddafi ) sulla base di notizie di fatto false ( come in Iraq con Saddam) venne abbattuto. Obama ridusse ma soprattutto mutò, dal punto di vista tecnologico, l’azione militare: riduzione al minimo delle truppe di terra e guerre regolate con l’uso massiccio di droni armati. Comunque un interventismo sul campo, anche contro gruppi “terroristici” (specie Al Qaeda e Isis ) oltre che in Nazioni tradizionali. Interventismo che non è stato seguito, o comunque non si è allargato con Trump.

- Durante il secondo mandato di Obama (2012-2016) l’azione internazionale contro la crisi climatica ha fatto un salto di qualità, perlomeno sul piano organizzativo, con gli accordi COP 21 di Parigi del 2015 dopo lo stallo, per non dire il fallimento di fatto, del Protocollo di Kyoto ( COP 3) del 1997, in realtà entrato in vigore solo nel 2005 con l’adesione della Russia come 55esima nazione firmataria.  Solo nel 2013 si arrivò alla adesione di 192 paesi e di questi a fine 2019 solo 175 hanno davvero ratificato l’accordo. Mentre Trump si sfilava, gran parte del pianeta ha dichiarato quindi l’impegno a contenere al di sotto dei 2°C, possibilmente non sopra 1,5°C, l’aumento delle temperature medie post-industriali sul pianeta con la conseguente riduzione delle emissioni totali di CO2 e altri climalteranti e con l’obiettivo di trovare poi un equilibrio a somma zero fra emissioni e tagli nella seconda metà del secolo. Un accordo che però non prevede sanzioni, ne commissioni di controllo ma solo impegni unilaterali cioè autodeterminati e non vincolanti davvero dei singoli paesi. A 5 anni di distanza l’accordo risulta largamente disatteso e già inizialmente era da molti valutato inadeguato a raggiungere l’obiettivo. Negli anni di Obama, insomma, pur con  la disponibilità formale della Cina di Xí Jìnpíng si è costruito un contenitore dove finalmente discutere di crisi climatica, poi riempito con contenuti inefficaci. Trump ha annunciato nel 2017 la fuoriuscita degli USA dall’accordo, considerato “contrario agli interessi degli americani”. Una decisione desolante per il resto del pianeta, formalmente attuata in queste settimane, ma le differenze pratiche fra le due amministrazioni risultano in realtà minime. È da notare che in nessun documento ufficiale delle COP si è mai utilizzato il termine “decarbonizzazione”, di uso comune solo fra gli ambientalisti e in parte degli scienziati e dei media. E non a caso: negli anni delle due amministrazioni Obama (dal 2009 al 2017) il forte aumento delle estrazioni interne di melme petrolifere (note in genere come shale oil e shale gas fracking) hanno portato alla indipendenza energetica degli USA, che nel 2019 avrebbe addirittura raggiunto e in alcuni momenti superato l’Arabia Saudita come primo paese esportatore di petrolio all’estero. Una scelta di autonomizzazione che di fatto metteva in campo come obiettivo successivo le terre dell’Alaska Artico. Insomma, qualcosa di molto lontano dalla transizione alle rinnovabili e dalla razionalizzazione dei consumi dei vari new deal di cui si parla. Per quanto negli ultimi mesi prima di uscire di scena Obama, forse per mantenere la sua immagine, abbia ridato vigore alla sua vocazione “ecologica” ponendo limiti ai programmi di introspezioni in alcune zone  del rifugio artico in Alaska, si deve riconoscere che negli ultimi tre mandati presidenziali gli USA non hanno svolto alcun ruolo virtuoso in campo ambientale anzi hanno rafforzato il subdolo messaggio che gli interessi dell’economia (e la supponenza di chi ne ricava gli utili) non possono tener conto delle ragioni ambientali.

- All’inizio del mandato del 2009 Obama ha rilanciato il settore dell’auto nel paese sostenendo la ripresa delle tre big (General Motors, Ford e Fiat-Chrysler che si dichiaravano sull’orlo del fallimento), a suon di contributi federali arrivati in totale a circa 90 miliardi di dollari nel 2016. Praticamente venne finanziata la nascita di FCA e pagati parte dei debiti specie di GM. Le aziende dell’auto, che facevano debiti in patria e utili in Messico dove sono gran parte delle sedi di produzione, rilanciarono per qualche anno le vendite con scarsi cambiamenti dal punto di vista energetico e delle emissioni e ripiombarono nella crisi all’arrivo di Trump. Il quale annunciò detassazioni e cancellazione totale dei vincoli sulle emissioni. Sull’onda del proprio slogan di battaglia ( America first, sottintendendo in modo sottile “gli americani prima di tutti” ) si impegnò a riportare in patria le produzioni del settore dell’auto collocate all’estero. In realtà, come spesso è avvenuto con le promesse di Trump, inventate con l’intenzione di esasperare agli estremi il moderato bipolarismo bicentenario imposto dallo strampalato sistema elettorale americano e incendiare lo scontro sociale nel paese, alle parole sono pochi i fatti che ne sono conseguiti (direi per fortuna) e nessuna azienda è stata rilocalizzata, ad esempio nessuno degli undici stabilimenti in Messico di FCA.

- Anche sul piano del sistema sanitario al di là delle irruenti dichiarazioni di Trump i pochi interventi riformatori delle amministrazioni precedenti (il più noto il cosiddetto Obamacare) non sono stati demoliti, trovando nel Senato la resistenza anche di parte degli stessi Repubblicani che ne hanno la maggioranza.

La totale assenza di un sistema sanitario pubblico a favore delle grandi Società di Assicurazione private comportava negli USA poche facilitazioni, nate all’epoca di Lyndon Johnson negli anni ‘60, con il Medicaid, gestito dai singoli Stati per i più poveri, e il Medicare, ovvero cure sanitare finanziate con soldi pubblici, per gli anziani oltre i 65 anni. Le due misure coprivano in parte solo una parte minoritaria della popolazione: tutti gli altri sottoscrivono una polizza sanitaria con una compagnia assicurativa, di solito attraverso il datore di lavoro, se lo hanno. Oppure alla bisogna dovrebbero pagare parcelle salatissime impraticabili per la maggioranza della popolazione. La riforma di Obama del 2010 (Obamacare) ha permesso a circa 32 milioni di statunitensi privi di assistenza medica, di stipulare un'assicurazione attraverso aiuti pubblici. Un cambiamento parziale sia per le persone coinvolte (circa il 10% della popolazione) che per le modalità (un costo iniziale obbligatorio di circa 700 dollari e il possesso di una carta d’identità che non tutti possiedono). Che è comunque lontano da un sistema sanitario pubblico nazionale, ma comunque una novità. La scia di morti lasciata nel 2020 dal Covid in USA è il risultato di un sistema sanitario privato intoccabile a misura di profitto, più che delle dabbenaggini veicolate da  Trump e dalla scia di gruppi negazionisti e complottisti al seguito. I morti ufficiali sono oggi 350mila ma i dati statistici misurano che il totale dei decessi in USA nel 2020 è stato di 3,2 mil. di morti, il più alto di sempre e comunque di 400mila morti in più del 2019. Per dare l’idea gli americani morti nell’intera Seconda guerra mondiale sono stati 430mila e nell’intera guerra del Vietnam 58mila.

- La diffusione delle armi in USA è cosa nota ma le sue vere dimensioni e i suoi effetti un po’ meno. Si stima la presenza di 350 milioni di armi da fuoco, cioè pistole, fucili e mitragliatrici sono più numerose dei 320 milioni di abitanti. Il numero di nuclei famigliari che le possiedono negli ultimi 20 anni è diminuito, più o meno dal 50% ad un terzo delle famiglie, ma il loro numero è di molto aumentato, cioè un centinaio di milioni di persone ha acquistato più di un’arma nell’ultimo ventennio. Gli USA che rappresentano circa il 4,4% della popolazione del mondo possiede quasi il 45% delle armi da fuoco totali presenti sul pianeta. Il secondo paese armato del mondo, le Filippine (110 mil di abitanti) ne possiede circa 46 milioni (meno della metà in proporzione). La potente lobby delle armi, la RNA (National Rifle Association) è in USA praticamente intoccabile, se non altro perché sostiene economicamente la campagna elettorale di migliaia di rappresentanti nei Comuni, negli Stati e nel Parlamento USA. Si stima che due terzi degli americani condividano o comunque tollerino la diffusione delle armi nelle abitazioni private appellandosi al secondo emendamento della Costituzione che riconosce il diritto ad armarsi per la difesa personale (basta presentare una carta d’identità e pagare il costo al venditore). Peccato che si tratti di un emendamento del 1791 quando le armi erano in prevalenza moschetti che sparavano 2 o 3 colpi al minuto. Nel corso dei due mandati di Obama la legislazione sulle armi non è stata praticamente toccata malgrado che il Presidente ci abbia provato 18 volte in 8 anni. La conseguenza della diffusione delle armi è l’aumento rilevante di atti criminali che si concludono con sparatorie e omicidi e la diffusione delle armi negli scontri sociali su base razziale. Per la prima volta negli scontri razziali e nella campagna elettorale del 2020 si sono avuti vari casi di manifestazioni anche elettorali con la presenza diffusa di strada di gruppi armati, a volte tollerata dalle forze dell’ordine. E’ noto che gruppi di estrema destra sostenitori di Trump stiano ancora reclutando in queste settimane veterani di guerra. Lo stesso Trump d'altronde ha recentemente in più momenti invitato neanche velatamente i militari e le forze armate a prendere una posizione attiva sui “brogli” che lo vedrebbero immeritatamente allontanato dalla Casa Bianca. La diffusa violazione delle leggi da decenni porta ad un elevato numero di carcerati. In realtà per lo più emarginati, consumatori e spacciatori di droghe specie afroamericani, che sono la grande maggioranza della popolazione carceraria: circa 1,2 milioni di persone in totale (in Italia sono 63 mila, in proporzione 5 volte di meno).

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Con la più alta partecipazione al voto di sempre Biden ha vinto le presidenziali con 81 mil di voti popolari, 15 mil in più di Obama nel 2008. Ma anche Trump ha aumentato i propri voti dai 62 mil del 2016 a più di 74 mil. di voti.

Al di là del forte impatto mediatico che le Presidenziali USA hanno nell’intero pianeta è nel Senato  che da sempre si concentrano e sedimentano i variegati interessi e le potenti lobby che governano il paese più potente del mondo. Senza il consenso del Senato nessuno va da nessuna parte. È’ costituito da soli cento membri che sono anche parte dei grandi elettori delegati a scegliere il Presidente. Ognuno dei 50 Stati della federazione ne elegge 2 a prescindere dalle dimensioni della loro popolazione elettorale. Pochi hanno chiaro che, essendo da più di 200 anni gli stati del Sud sempre meno popolati e più orientati verso i Repubblicani e i conservatori lo strampalato sistema elettorale americano favorisce da sempre i Repubblicani e in generale i conservatori e questo spiega anche i casi in cui può essere eletto un Presidente che ha preso meno voti popolari dell’altro candidato. Così avvenne nel 2000 con G.W. Bush che prese meno voti di Al Gore ma per soli 537 voti conquistò i delegati decisivi della  Florida  e nel 2016 con Trump contro Hillary Clinton. 

Malgrado i ripetuti tentativi di richiedere correttivi del sistema elettorale più grottesco del pianeta nulla è cambiato e c’è da chiedersi perché i Democratici non abbiano mai sposato davvero la battaglia per la riforma del sistema. E’ la conseguenza infernale delle logiche del bipolarismo che ha come primo obiettivo di mantenere immutabile il sistema e impedire comunque, anche da perdenti, l’emergere di terze forze. Una parte rilevante dei cento membri del Senato sono infatti espressione delle lobby, che sostengono, finanziano e direttamente esprimono una parte rilevante degli eletti sia democratici che repubblicani. E questa palude di mezzo, che di fatto condiziona largamente anche le azioni del Presidente, rende pressoché immutabile il sistema.

Una volta lo chiamavano “il complesso militare e industriale americano “o, se preferite, “la potente lobby delle multinazionali americane”. Oggi si usa una serie variegata di nomi che rendono tutto più illeggibile. L’avvento del Covid e le teorie cospirazioniste hanno reso ancora più confusa le lettura dei fatti facendo buon gioco ad alimentare un bipolarismo mangiatutto che più si arroventa nello scontro e più funziona per entrambi gli attori.

Naomi Klein parla di “frullato cospirazionista” più che di teorie. Per l’estrema destra la dittatura vaccinale sarebbe promossa da Soros e Bill Gates con Venezuela, verdi e socialisti, per la sinistra sarebbero BigPharma, il 5G e i Robot a inventare il pipistrello.  Si dibatte negli anfratti dei social se il “Grande Reset” sia o no la stessa cosa di un “Green New Deal “per inventare da Davos un capitalismo buono molto poco credibile e diventa così normale che razzismo e fascismo si mescolino impunemente con no mask e difensori dei diritti costituzionali che sarebbero soffocati dai lockdown. Sono solo parole al vento dei media che annichiliscono però qualunque possibilità di concreto agire per un vero cambiamento riformatore nel secolo probabilmente più difficile (e più confuso) dell’intera storia moderna dell’umanità.

E’ un fatto che in USA, malgrado si affermi nei sondaggi che le preoccupazioni ambientali insieme a quelle sanitarie salgano nelle attenzioni degli elettori come nel resto del pianeta, la voce esile ma chiara di Greta Thumberg, in questi giorni diventata maggiorenne, sia per il momento scomparsa dalla scena dei media e i Verdi pur presenti con un loro candidato presidente siano stati spazzati via con appena 300mila voti ( su 157 milioni totali), poco più dei loro 200mila iscritti.  Così si è arrivati al culmine dei paradossi che il voto di ballottaggio del 5 gennaio nello stato della Georgia (neanche 10 mil. di abitanti, cioè meno della Lombardia), per eleggere al ballottaggio due senatori essendo stati i risultati di novembre praticamente alla pari, deciderà in qualche modo chi davvero potrà governare in America controllando il Senato. Se i 2 candidati democratici vincessero si arriverebbe a 50 contro 50 e il voto della Presidente del Senato per legge, la Vice Presidente di Biden, Kamala Harris, darebbe ai Democratici la maggioranza (ma non il potere di contrastare il Filibustering, cioè la possibilità di fare ostruzionismo con cui si può boicottare gran parte dei decreti del Presidente). Mentre ai Repubblicani un solo seggio in più regalerebbe il controllo del Senato, rilanciando i minacciosi tentativi di Trump di mettere in discussione i risultati delle presidenziali e proiettandolo verso il voto di mezzo termine nel 2022 e una nuova candidatura nel 2024.

Che i destini del paese più potente del mondo e in buona parte dell’intero pianeta siano affidati a questi arrugginiti e insidiosi marchingegni istituzionali è desolante e in realtà oggi nessuno è in grado di dare valutazioni attendibili su quale strada prenderà la presidenza di Biden che alla fine del mandato compirà 82 anni. E ci insegna che dobbiamo guardare con occhi diversi e più attenti al ruolo futuro della nostra bistrattata Europa, l’unico Occidente che emana qualche raggio di sole dell’avvenire di questo tormentato secolo.  

Nella foto di testa: un’immagine di Peter Fonda e Jack Nicholson nel film Easy Rider - Libertà e Paura, di Dennis Hopper (1969) - Nel testo: la sala del Senato a Washington.

   4 gennaio 2021      

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