21 ottobre 2022

I big della finanza al Parlamento Gb: “Nessuna intenzione di smettere di finanziare petrolio, gas e carbone”

 Le affermazioni sono contenute tra le risposte ad una serie di domande inviate dai legislatori britannici incaricati di capire come il paese può soddisfare i propri impegni di riduzione delle emissioni di Co2. Blackrock, il cui amministratore delegato Fink ha ripetutamente sbandierato la "svolta verde", scrive di non condividere le preoccupazioni dell'Agenzia internazionale dell'energia. Sulla stessa linea Vanguard, Morgan Stanley, Hsbc e Barclays

di Mauro Del Corno *

Alcune delle più grandi società finanziarie del mondo, tra cui le statunitensi BlackRock Inc. e Vanguard Group Inc., hanno dichiarato al Regno Unito di non avere intenzione di interrompere il finanziamento allo sviluppo della produzione di combustibili fossili. Le affermazioni sono contenute tra le risposte ad una serie di domande inviate dai legislatori britannici incaricati di capire come il paese può soddisfare i propri impegni di riduzione delle emissioni di Co2. L’inchiesta è condotta dalla Commissione per il controllo ambientale della Camera dei Comuni. La Gran Bretagna, che è stata citata in giudizio da un gruppo di attivisti per l’ambiente, all’inizio di quest’anno dopo aver presentato un piano poco chiaro per la riduzione dei gas nocivi, ha chiesto alle aziende di spiegare come stanno recependo le indicazioni per ridurre gradualmente e, infine, fermare il finanziamento di nuovi fossili.

Secondo quanto riporta l’agenzia Bloomberg, le risposte ricevute dal Comitato, sono state inviate da più di 30 delle più grandi banche e gestori di investimenti del mondo. BlackRock ha sottolineato di essere “obbligato ad agire sempre nel migliore interesse finanziario dei nostri clienti”. Durante il forum di Davos del 202o, dove era arrivato con jet privato, l’amministratore Larry Fink aveva ampiamente reclamizzato la “svolta verde” di quello che è il più grande gruppo di gestioni del risparmio al mondo. Nelle risposte per le autorità britanniche Blackrock ha anche affermato che il suo approccio generale alla transizione energetica non include politiche di esclusione dei combustibili fossili e che non condivide lo scenario prospettato dall’Agenzia internazionale per l’energia, secondo cui i nuovi investimenti nelle fonti fossili dovrebbero azzerarsi da subito per avere una qualche speranza di soddisfare gli obiettivi fissati negli accordi di Parigi (aumento massimo di 1,5 gradi della temperatura globale media rispetto ai periodi pre industriale).

L’obiettivo di BlackRock “non è quello di progettare un risultato specifico di decarbonizzazione“, si legge nella risposta. E, come altre aziende intervistate, BlackRock ha affermato che è compito dei governi fissare obiettivi per gli attori del settore privato. Il gestore patrimoniale ha anche affermato che prevede di rimanere un investitore a lungo termine in settori ad alta intensità di carbonio “per conto dei nostri clienti”. Vanguard ha fornito risposte simili, affermando che “non detta la strategia e le operazioni nelle società di cui possiede partecipazioni e quindi non ha una visione aziendale dello scenario prospettato dall’Agenzia internazionale dell’energia.

Le opinioni di BlackRock e Vanguard esemplificano la linea di tutte le istituzioni interpellate. La Royal Bank of Canada ha ad esempio osservato che “i piani globali di decarbonizzazione e transizione energetica sono in continuo mutamento poiché vengono gestite le preoccupazioni relative al costo dell’energia, all’inflazione e alla sicurezza energetica”. Morgan Stanley ha affermato che “continuerà a supportare le società energetiche nel loro lavoro per decarbonizzare l’economia globale a un ritmo che bilancia le preoccupazioni climatiche insieme alla sicurezza energetica e ad altri fattori”. La britannica Barclays ha affermato che pensa che “può fare la differenza più grande supportando i nostri clienti nella transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio, piuttosto che eliminando gradualmente il supporto per l’industria di carbone, petrolio e gas”. Hsbc ha scritto di “riconoscere l’importanza della sicurezza energetica e di una giusta transizione dai combustibili fossili” e che “l’attenzione deve essere rivolta all’urgente eliminazione graduale dell’attuale energia a carbone”. Tuttavia, “sebbene le alternative rinnovabili stiano diventando sempre più economiche ed efficienti, la chiusura delle centrali a carbone non è al momento un’opzione“. L’iniziativa del Regno Unito per raccogliere risposte arriva a meno di un mese dal vertice Cop27 sul clima che si terrà in Egitto.

 * da FQ 19 ottobre 2022

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6 ottobre 2022

La proposta. Sette passi per una pace giusta e duratura (non solo) in Ucraina

Stefano Zamagni *

La storia ci insegna che le guerre per il territorio sono sempre perdenti nel lungo andare. È doveroso avanzare una proposta di negoziato tra i due Paesi belligeranti

Il testo di seguito è la sintesi di un intervento che uscirà sul numero 3 (ottobre 2022) della rivista Paradoxa.

Cosa vuol dire essere costruttori di pace («Beati gli operatori di pace », Mt.5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum progressio (1967) di papa Paolo VI secondo cui «lo sviluppo è il nuovo nome della pace». Tre sono le tesi che valgono a conferire a tale affermazione tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose. (…) La seconda tesi afferma che la pace però va costruita, posto che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere dalla volontà degli uomini. In un libro di grande rilevanza – e proprio per questo quasi mai citato – di Quncy Wright (A study of war, Chicago, 1942) si legge che «mai due democrazie si sono fatte la guerra». È proprio così, come la storia ci conferma. Se dunque si vuole veramente la pace, occorre operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico.

A tale riguardo, è opportuno richiamare l’attenzione su taluni fatti stilizzati che connotano la nostra epoca. Si consideri l’inquietante fenomeno della fame e della denutrizione. È noto che non si tratta di una tragica novità di questi tempi; ma ciò che la rende oggi scandalosa, e dunque intollerabile, è il fatto che essa non è la conseguenza di una incapacità del sistema produttivo globale di assicurare cibo per tutti. Non è pertanto la scarsità delle risorse, a livello globale, a causare fame e deprivazioni varie. È piuttosto una «institutional failure», la mancanza cioè di adeguate istituzioni, economiche e giuridiche, il principale fattore responsabile di ciò. (…) Di un altro fatto stilizzato mi preme dire in breve. La relazione tra lo stato nutrizionale delle persone e la loro capacità di lavoro influenza sia il modo in cui il cibo viene allocato tra i membri della famiglia – in special modo, tra maschi e femmine – sia il modo in cui funziona il mercato del lavoro. I poveri possiedono solamente un potenziale di lavoro; per trasformarlo in forza lavoro effettiva, la persona necessita di adeguata nutrizione. Ebbene, se non adeguatamente aiutato, il malnutrito non è in grado di soddisfare questa condizione in un’economia di libero mercato. La ragione è semplice: la qualità del lavoro che il povero è in grado di offrire sul mercato del lavoro è insufficiente a 'comandare' il cibo di cui ha bisogno per vivere in modo decente. (…)

Quale conclusione trarre da quanto precede? Che la presa d’atto di un nesso forte tra «institutional failure», da un lato, e aumento delle disuguaglianze globali dall’altro, ci ricorda che le istituzioni non sono – come le risorse naturali – un dato di natura, ma regole del gioco economico che vengono fissate in sede politica. (…) La terza tesi, infine, afferma che la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni, (cioè regole del gioco), di pace: sono tali quelle che mirano allo sviluppo umano integrale. Situazioni come la guerra in Ucraina vengono descritte nella scienza sociale con l’espressione «problemi di azione collettiva», problemi cioè in cui ciascun partecipante ha un interesse di lungo termine a cooperare, ma un forte incentivo di breve termine ad agire in modo opportunistico. Ecco perché occorrono istituzioni che valgano a modificare gli incentivi individuali di breve termine. (…) Quali istituzioni di pace allora meritano, nelle condizioni odierne, prioritaria attenzione? Primo, rendere credibile il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti mediante la predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell’aggredito. A tale riguardo, occorre modificare lo Statuto dell’Onu nel senso di cancellare il diritto di veto finora concesso ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Esso equivale a un diritto di monopolio. Il che è moralmente inaccettabile. Secondo, dare vita entro l’universo delle Nazioni Unite a una Agenzia (indipendente) Internazionale per la Gestione degli Aiuti (Aiga), alla quale affluiscano le risorse rese disponibili dal 'dividendo della pace' e da altre fonti e, che, in forza del principio di sussidiarietà (circolare), operi in quanto ente grant-making. (Se solo il 10% della spesa militare globale venisse dirottata su Aiga, nell’arco di un decennio le attuali diseguaglianze strutturali potrebbero venire sanate). Chiaramente, la struttura governante di Aiga deve essere quella di un ente multistakeholder; vale a dire nel suo organo di governo devono sedere i rappresentanti dei vari portatori di interesse, in particolare delle oltre 7mila Organizzazioni non governative registrate presso l’Onu. Terzo, si tratta di rivedere, in modo radicale, l’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944 (Fmi, Oms, Banca Mondiale, Wtc), divenute ormai obsolete perché pensate per un mondo che non esiste più. Al tempo stesso, occorre operare per far nascere due altre istituzioni, dotate dei medesimi poteri di quelle già esistenti: un’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (Omm) e un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente (Oma).

Una quarta iniziativa urgente è quella tesa al disegno di una nuova regolamentazione sulle sanzioni. (…) L’idea di fare la guerra con mezzi economici è antica (assedio, blocco navale, ecc.), ma oggi la deterrenza economica non funziona più per prevenire i conflitti o per farli cessare. Primo, perché sono un’arma a doppio taglio, dato che danneggiano anche chi le introduce. Secondo, perché più vengono usate, più le sanzioni perdono efficacia, dato che i Paesi si adattano a resistere a esse. Terzo, perché le sanzioni per risultare efficaci postulano l’accordo leale tra i Paesi sanzionatori, cioè l’assenza di comportamenti del tipo free riding. Tutti sanno che vi sono lobby belligeranti che non vogliono che i conflitti abbiano termine. (…) Infine, è urgente far decollare un piano volto alla riduzione bilanciata degli armamenti e in modo speciale a bloccare la proliferazione delle testate nucleari. La spesa militare del mondo è di circa due trilioni di dollari all’anno, quasi il 10% in più rispetto a un decennio fa. Si tratta di espandere il Trattato sul commercio internazionale di armi convenzionali (Att), approvato nel 2013 e ratificato nel 2020 da Ue e Cina, ma non dagli Usa né dalla Russia. Il che la dice lunga. La Convenzione Onu sui dispositivi d’arma autonomi (Laws: Lethal Autonomous Weapon Systems) si è conclusa nel dicembre 2021 con un nulla di fatto. (…) Nell’agosto 2022 si è conclusa la 10a conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare ( Tnp), pure con un nulla di fatto, in conseguenza dell’irrevocabile no russo – posizione criticata perfino dalla Cina. Una proposta credibile deve prevedere la creazione di un fondo globale per consentire il riacquisto di armi convenzionali, per poi distruggerle. Il fondo otterrebbe le risorse necessarie da quelle liberate dalla riduzione della spesa militare. (…)

È bene che si sappia che quanto sopra è tecnicamente possibile sotto tutti i profili. Piuttosto quel che manca è la volontà di agire in tale direzione. Assai opportunamente il cardinal Pietro Parolin ha scritto: «Purtroppo, bisogna riconoscere che non siamo stati capaci di costruire, dopo la caduta del Muro di Berlino, un nuovo sistema di convivenza tra le Nazioni, che andasse al di là delle alleanze militari o delle convenienze economiche. La guerra in corso in Ucraina rende evidente questa sconfitta». ('Vatican News', 11 marzo 2022). Desidero fissare qui un punto. È vero che 'l’Occidente collettivo' (e la Nato) non hanno saputo anticipare e ancor meno prevedere quanto poi è accaduto a partire dal 24 febbraio 2022. Ed è altresì vero che troppo poco l’Occidente ha fatto per costruire «un nuovo sistema di convivenza tra le nazioni». Ma tutto ciò in nessun modo può giustificare l’offensiva russa in Ucraina; può semmai spiegarla, non certo giustificarla, né sul piano politico, né sul piano etico. È doveroso avanzare una proposta di negoziato di pace tra i due Paesi belligeranti. Il fine del negoziato non può limitarsi a conseguire una pace negativa nel senso di Johan Galtung che, già nel 1975, introdusse la distinzione, divenuta poi celebre, tra pace negativa e pace positiva. (…). Mentre la prima fa riferimento all’assenza di violenza diretta ('al cessate il fuoco', come si usa dire), la seconda fissa le condizioni che servono per aggredire le cause della guerra. Invero, solamente la pace positiva è sostenibile nella prospettiva della durata. (…) Quella in Ucraina rischia di evolvere in una guerra di logoramento e può terminare o come conflitto congelato oppure come pace negoziata. È dimostrato che una pace negoziata è sempre un esito superiore rispetto all’altra possibilità. (…) Si consideri solo quel che sta accadendo al prezzo del gas naturale in Europa e alla rottura delle catene globali del valore attraverso le quali i Paesi si scambiano tra loro beni e servizi. (…) D’altro canto, la Russia con la sua economia strutturalmente debole non può certo pensare di poter competere sui mercati internazionali. (L’economia russa è meno di un ventesimo dell’economia Usa e Ue, insieme). Questo dato aiuta a spiegare perché la guerra per le conquiste territoriali siano così appetibili alla dirigenza di Mosca. Ma – come la storia insegna – le guerre per il territorio sono sempre perdenti nel lungo andare; dato che è vano pensare, oggi assai più che nel passato, che più territorio significhi più potere. (L’ha ben capito la Cina, la cui strategia geopolitica è di conquistare mercati, non territori). (…)

Quali dunque i punti qualificanti di una proposta volta ad ottenere, un accordo di pace positiva? Ne indico sette.

1) Neutralità dell’Ucraina che rinuncia all’ambizione nazionale di entrare nella Nato, ma che conserva la piena libertà di diventare parte dell’Ue, con tutto ciò che questo significa. Una risoluzione dell’Onu deve essere adottata per assicurare meccanismi di monitoraggio internazionali per il rispetto degli accordi di pace.

2) L’Ucraina ottiene la garanzia della propria sovranità, indipendenza, e integrità territoriale; una garanzia assicurata dai 5 membri permanenti delle Nazioni Unite (Cina, Francia, Russia, Uk, Usa) oltre che dall’Ue e dalla Turchia.

3) La Russia conserva il controllo de facto della Crimea per un certo numero di anni ancora, dopodiché le parti cercano, per via diplomatica, una sistemazione de iure permanente. Le comunità locali usufruiscono di accesso facilitato sia all’Ucraina sia alla Russia; oltre alla libertà di movimento di persone e risorse finanziarie.

4) Autonomia delle regioni di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina, di cui restano parte integrante, sotto i profili economico, politico, e culturale.

5) Accesso garantito a Russia e Ucraina ai porti del Mar Nero, per lo svolgimento delle normali attività commerciali.

6) Rimozione graduale delle sanzioni occidentali alla Russia in parallelo con il ritiro delle truppe e degli armamenti russi dall’Ucraina.

7) Creazione di un Fondo Multilaterale per la Ricostruzione e lo Sviluppo delle aree distrutte e seriamente danneggiate dell’Ucraina, un fondo al quale la Russia è chiamata a concorrere sulla base di predefiniti criteri di proporzionalità. (L’esperienza storica del Piano Marshall è di aiuto a tale riguardo).

Ho motivo di ritenere che una proposta del genere, se opportunamente presentata e saggiamente gestita per via diplomatica, possa essere favorevolmente accolta dalle parti in conflitto. Forse l’ostacolo maggiore per una pace negoziata è la paura della negoziazione stessa. I politici e i capi di governo, infatti, temono di essere percepiti dalle rispettive constituencies o come pacifisti ingenui oppure come opportunisti con secondi fini. (…) Ecco perché, in una situazione come l’attuale, il ruolo dei costruttori di pace è fondamentale. La mobilitazione della società civile internazionale tesa a dare vita a una 'Alleanza per la Pace' è oggi, una iniziativa urgente e altamente meritoria.

* Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali 

- 21 settembre 2022         ( da Avvenire.it )