Stefano Zamagni *
La storia ci insegna che le guerre per il territorio
sono sempre perdenti nel lungo andare. È doveroso avanzare una proposta di
negoziato tra i due Paesi belligeranti
Il testo di seguito è la sintesi di un intervento che
uscirà sul numero 3 (ottobre 2022) della rivista Paradoxa.
Cosa vuol dire essere costruttori di pace («Beati gli
operatori di pace », Mt.5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa
prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum
progressio (1967) di papa Paolo VI secondo cui «lo sviluppo è il nuovo
nome della pace». Tre sono le tesi che valgono a conferire a tale affermazione
tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è
un evento e non già uno stato di cose. (…) La seconda tesi afferma che la pace però va costruita, posto
che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere dalla
volontà degli uomini. In un libro di grande rilevanza – e proprio per
questo quasi mai citato – di Quncy Wright (A study of war, Chicago,
1942) si legge che «mai
due democrazie si sono fatte la guerra». È proprio così, come la storia
ci conferma. Se dunque si vuole veramente la pace, occorre operare per
estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico.
A tale riguardo, è opportuno richiamare l’attenzione
su taluni fatti stilizzati che connotano la nostra epoca. Si consideri
l’inquietante fenomeno della fame e della denutrizione. È noto che non si
tratta di una tragica novità di questi tempi; ma ciò che la rende oggi
scandalosa, e dunque intollerabile, è il fatto che essa non è la conseguenza di
una incapacità del sistema produttivo globale di assicurare cibo per tutti. Non
è pertanto la scarsità delle risorse, a livello globale, a causare fame e
deprivazioni varie. È piuttosto una «institutional failure», la mancanza
cioè di adeguate istituzioni, economiche e giuridiche, il principale fattore
responsabile di ciò. (…) Di un altro fatto stilizzato mi preme dire in breve.
La relazione tra lo stato nutrizionale delle persone e la loro capacità di
lavoro influenza sia il modo in cui il cibo viene allocato tra i membri della
famiglia – in special modo, tra maschi e femmine – sia il modo in cui funziona
il mercato del lavoro. I poveri possiedono solamente un potenziale di lavoro;
per trasformarlo in forza lavoro effettiva, la persona necessita di adeguata
nutrizione. Ebbene, se non adeguatamente aiutato, il malnutrito non è in grado
di soddisfare questa condizione in un’economia di libero mercato. La ragione è
semplice: la qualità del lavoro che il povero è in grado di offrire sul mercato
del lavoro è insufficiente a 'comandare' il cibo di cui ha bisogno per vivere
in modo decente. (…)
Quale conclusione trarre da quanto precede? Che la
presa d’atto di un nesso forte tra «institutional failure», da un lato,
e aumento delle disuguaglianze globali dall’altro, ci ricorda che le istituzioni non sono – come
le risorse naturali – un dato di natura, ma regole del gioco economico che
vengono fissate in sede politica. (…) La terza tesi, infine, afferma che
la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni, (cioè regole del gioco),
di pace: sono tali quelle che mirano allo sviluppo umano integrale. Situazioni
come la guerra in Ucraina vengono descritte nella scienza sociale con
l’espressione «problemi di azione collettiva», problemi cioè in cui ciascun
partecipante ha un interesse di lungo termine a cooperare, ma un forte
incentivo di breve termine ad agire in modo opportunistico. Ecco perché
occorrono istituzioni che valgano a modificare gli incentivi individuali di
breve termine. (…) Quali istituzioni di pace allora meritano, nelle condizioni
odierne, prioritaria attenzione? Primo, rendere credibile il ripudio della
guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti mediante la predisposizione di
strumenti efficaci di difesa dell’aggredito. A tale riguardo, occorre modificare lo Statuto dell’Onu
nel senso di cancellare il diritto di veto finora concesso ai membri permanenti
del Consiglio di Sicurezza. Esso equivale a un diritto di monopolio. Il
che è moralmente inaccettabile. Secondo, dare vita entro l’universo delle
Nazioni Unite a una Agenzia (indipendente) Internazionale per la Gestione degli
Aiuti (Aiga), alla quale affluiscano le risorse rese disponibili dal 'dividendo
della pace' e da altre fonti e, che, in forza del principio di sussidiarietà
(circolare), operi in quanto ente grant-making. (Se solo il 10% della spesa
militare globale venisse dirottata su Aiga, nell’arco di un decennio le attuali
diseguaglianze strutturali potrebbero venire sanate). Chiaramente, la
struttura governante di Aiga deve essere quella di un ente multistakeholder; vale
a dire nel suo organo di governo devono sedere i rappresentanti dei vari
portatori di interesse, in particolare delle oltre 7mila Organizzazioni non
governative registrate presso l’Onu. Terzo, si tratta di rivedere, in modo radicale,
l’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944
(Fmi, Oms, Banca Mondiale, Wtc), divenute ormai obsolete perché pensate
per un mondo che non esiste più. Al tempo stesso, occorre operare per far nascere due altre istituzioni,
dotate dei medesimi poteri di quelle già esistenti: un’Organizzazione Mondiale
delle Migrazioni (Omm) e un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente (Oma).
Una quarta iniziativa urgente è quella tesa al disegno
di una nuova regolamentazione sulle sanzioni. (…) L’idea di fare la guerra con
mezzi economici è antica (assedio, blocco navale, ecc.), ma oggi la deterrenza
economica non funziona più per prevenire i conflitti o per farli cessare.
Primo, perché sono un’arma a doppio taglio, dato che danneggiano anche chi le
introduce. Secondo, perché più vengono usate, più le sanzioni perdono
efficacia, dato che i Paesi si adattano a resistere a esse. Terzo, perché le
sanzioni per risultare efficaci postulano l’accordo leale tra i Paesi
sanzionatori, cioè l’assenza di comportamenti del tipo free riding. Tutti
sanno che vi sono lobby
belligeranti che non vogliono che i conflitti abbiano termine. (…)
Infine, è urgente far decollare un piano volto alla riduzione bilanciata degli armamenti e in modo
speciale a bloccare la proliferazione delle testate nucleari. La spesa militare del mondo è di
circa due trilioni di dollari all’anno, quasi il 10% in più rispetto a un
decennio fa. Si tratta di espandere il Trattato sul commercio
internazionale di armi convenzionali (Att), approvato nel 2013 e ratificato nel
2020 da Ue e Cina, ma non dagli Usa né dalla Russia. Il che la dice lunga. La
Convenzione Onu sui dispositivi d’arma autonomi (Laws: Lethal
Autonomous Weapon Systems) si è conclusa nel dicembre 2021 con un
nulla di fatto. (…) Nell’agosto 2022 si è conclusa la 10a conferenza di
revisione del Trattato di non proliferazione nucleare ( Tnp), pure con un nulla
di fatto, in conseguenza dell’irrevocabile no russo – posizione criticata
perfino dalla Cina. Una proposta credibile deve prevedere la creazione di un
fondo globale per consentire il riacquisto di armi convenzionali, per poi
distruggerle. Il fondo otterrebbe le risorse necessarie da quelle liberate
dalla riduzione della spesa militare. (…)
È bene che si sappia che quanto sopra è tecnicamente
possibile sotto tutti i profili. Piuttosto quel che manca è la volontà di agire
in tale direzione. Assai opportunamente il cardinal Pietro Parolin ha scritto:
«Purtroppo, bisogna
riconoscere che non siamo stati capaci di costruire, dopo la caduta del Muro di
Berlino, un nuovo sistema di convivenza tra le Nazioni, che andasse al di là
delle alleanze militari o delle convenienze economiche. La guerra in
corso in Ucraina rende evidente questa sconfitta». ('Vatican News', 11 marzo
2022). Desidero fissare qui un punto. È vero che 'l’Occidente collettivo' (e la
Nato) non hanno saputo anticipare e ancor meno prevedere quanto poi è accaduto
a partire dal 24 febbraio 2022. Ed è altresì vero che troppo poco l’Occidente
ha fatto per costruire «un nuovo sistema di convivenza tra le nazioni». Ma
tutto ciò in nessun modo può giustificare l’offensiva russa in Ucraina; può
semmai spiegarla, non certo giustificarla, né sul piano politico, né sul piano
etico. È doveroso avanzare una proposta di negoziato di pace tra i due Paesi
belligeranti. Il fine del negoziato non può limitarsi a conseguire una pace
negativa nel senso di Johan Galtung che, già nel 1975, introdusse la
distinzione, divenuta poi celebre, tra pace negativa e pace
positiva. (…). Mentre la prima fa riferimento all’assenza di violenza
diretta ('al cessate il fuoco', come si usa dire), la seconda fissa le
condizioni che servono per aggredire le cause della guerra. Invero, solamente
la pace positiva è sostenibile nella prospettiva della durata. (…) Quella in
Ucraina rischia di evolvere in una guerra di logoramento e può terminare o come
conflitto congelato oppure come pace negoziata. È dimostrato che una pace
negoziata è sempre un esito superiore rispetto all’altra possibilità. (…) Si
consideri solo quel che sta accadendo al prezzo del gas naturale in Europa e
alla rottura delle catene globali del valore attraverso le quali i Paesi si
scambiano tra loro beni e servizi. (…) D’altro canto, la Russia con la sua economia strutturalmente debole
non può certo pensare di poter competere sui mercati internazionali.
(L’economia russa è meno di un ventesimo dell’economia Usa e Ue, insieme).
Questo dato aiuta a spiegare perché la guerra per le conquiste territoriali
siano così appetibili alla dirigenza di Mosca. Ma – come la storia insegna – le
guerre per il territorio sono sempre perdenti nel lungo andare; dato che è vano pensare, oggi assai più che
nel passato, che più territorio significhi più potere. (L’ha ben capito la
Cina, la cui strategia geopolitica è di conquistare mercati, non territori).
(…)
Quali dunque
i punti qualificanti di una proposta volta ad ottenere, un accordo di pace
positiva? Ne indico sette.
1) Neutralità
dell’Ucraina che rinuncia all’ambizione nazionale di entrare nella Nato,
ma che conserva la piena
libertà di diventare parte dell’Ue, con tutto ciò che questo significa.
Una risoluzione dell’Onu deve essere adottata per assicurare meccanismi di
monitoraggio internazionali per il rispetto degli accordi di pace.
2) L’Ucraina
ottiene la garanzia della propria sovranità, indipendenza, e integrità
territoriale; una garanzia assicurata dai 5 membri permanenti delle Nazioni
Unite (Cina, Francia, Russia, Uk, Usa) oltre che dall’Ue e dalla Turchia.
3) La
Russia conserva il controllo de facto della Crimea per un certo numero di anni
ancora, dopodiché le parti cercano, per via diplomatica, una sistemazione de
iure permanente. Le
comunità locali usufruiscono di accesso facilitato sia all’Ucraina sia alla
Russia; oltre alla libertà di movimento di persone e risorse finanziarie.
4) Autonomia
delle regioni di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina, di cui restano parte
integrante, sotto i profili economico, politico, e culturale.
5) Accesso
garantito a Russia e Ucraina ai porti del Mar Nero, per lo svolgimento delle
normali attività commerciali.
6)
Rimozione graduale delle sanzioni occidentali alla Russia in parallelo con il
ritiro delle truppe e degli armamenti russi dall’Ucraina.
7) Creazione
di un Fondo Multilaterale per la Ricostruzione e lo Sviluppo delle aree
distrutte e seriamente danneggiate dell’Ucraina, un fondo al quale la Russia è
chiamata a concorrere sulla base di predefiniti criteri di proporzionalità.
(L’esperienza storica del Piano Marshall è di aiuto a tale riguardo).
Ho motivo di ritenere che una proposta del genere, se
opportunamente presentata e saggiamente gestita per via diplomatica, possa
essere favorevolmente accolta dalle parti in conflitto. Forse l’ostacolo
maggiore per una pace negoziata è la paura della negoziazione stessa. I
politici e i capi di governo, infatti, temono di essere percepiti dalle
rispettive constituencies o come pacifisti ingenui oppure come
opportunisti con secondi fini. (…) Ecco perché, in una situazione come
l’attuale, il ruolo dei costruttori di pace è fondamentale. La mobilitazione della società
civile internazionale tesa a dare vita a una 'Alleanza per la Pace' è oggi, una
iniziativa urgente e altamente meritoria.
* Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali
- 21 settembre 2022 ( da Avvenire.it )
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