26 dicembre 2022

Consumiamo di più e il riciclaggio non fa miracoli

Rapporto Ispra. L’economia circolare è una falsa illusione, non solo per l’oggi ma anche per il futuro, con tutte le conseguenze che questa consapevolezza dovrebbe suggerirci

di  Pino Ippolito Armino *

Come ogni anno alla pubblicazione dei due rapporti Ispra sui rifiuti, l’attenzione si concentra su quello che riguarda la produzione, la raccolta e la gestione dei rifiuti urbani. Apprendiamo così in questi giorni che nel 2021 i rifiuti urbani sono tornati a crescere (+2,3% sull’anno precedente) dopo la flessione dovuta alla pandemia e la conseguente contrazione dei consumi delle famiglie: in totale 29,6 milioni di tonnellate (677 mila in più rispetto al 2020). La raccolta differenziata ha raggiunto il 64% sul totale, con ampie variazioni per area geografica (71% al Nord, 60,4% al Centro, 55,7% al Sud).

Dieci anni dopo siamo, dunque, a un passo dal traguardo del 65% fissato per legge (l. 27 dicembre 2006 n. 296) che doveva essere raggiunto entro il 31 dicembre 2012. Ma c’è qui un primo equivoco che va subito chiarito.

Non tutto quello che viene differenziato in fase di raccolta raggiunge la fase di riciclaggio e neppure tutto quello che è avviato al riciclo diventa recupero di materia. Ad esempio, quasi la metà dei rifiuti inviati a riciclaggio è riferibile alla frazione organica, umido più verde, in massima parte finisce negli impianti di compostaggio. Ebbene, per ogni tonnellata di rifiuti organici immessa in un impianto di compostaggio si producono 220 Kg di residui, 27 dei quali di percolato. Va ancora peggio con la plastica perché il tasso di riciclaggio si attesta al 36%.

In contemporanea con la pubblicazione del rapporto sui rifiuti urbani l’Ispra rende disponibile, sfasato di un anno, anche un report sulla produzione e la gestione dei rifiuti speciali. I rifiuti speciali vengono per quasi la metà dalle attività di costruzione, per oltre un quarto dal trattamento dei rifiuti urbani e per la restante parte dalle altre attività economiche manifatturiere e del commercio.

La produzione di rifiuti speciali nel 2020, ci informa l’ultimo report, è stata di 147 milioni di tonnellate, ben 5 volte quella che viene dalla raccolta nei centri urbani. Eppure se ne parla poco o per nulla! Perché questa distrazione? Ci si preoccupa, più che comprensibilmente, che quasi uno ogni cinque Kg di rifiuti urbani finiscano in discarica. Siamo, infatti, lontani dall’obiettivo del 10% fissato dall’Unione europea per il 2035. Per l’esattezza il 19% dei rifiuti urbani prodotti in Italia è trattato nel peggiore dei modi possibile, il più pericoloso e il più inquinante. Anche il meno controllabile.

Le discariche sono, infatti, un ottimo investimento per le mafie. Allora perché trascurare il 5,7% dei rifiuti speciali non pericolosi e il 13,9% di quelli pericolosi (anno di riferimento 2020) che vengono parimenti smaltiti in discarica? In totale si tratta di 9,9 milioni di tonnellate, quasi il doppio dei 5,6 milioni che vi finiscono dopo la raccolta nei centri urbani.

In ogni caso è bene anzitutto sapere che se anche migliorassimo la qualità della raccolta e le tecnologie di trattamento il 100% di recupero di materia è impossibile. Il limite è imposto da una delle più importanti leggi della fisica nota come “Secondo Principio della Termodinamica”. Una delle conseguenze di questo principio, semplificando il linguaggio ma senza alterare il concetto, è che tutte le possibili trasformazioni reali, che sono irreversibili, presentano un rendimento che è sempre inferiore a uno.

L’economia circolare è, dunque, un mito. Bene allora se il paradigma serve a spronare le nostre economie perché recuperi al suo interno una parte delle materie prime necessarie alla produzione di nuovi beni. Male se induce a pensare che le nostre economie possano crescere indefinitamente senza intaccare nuove e sempre più scarse risorse naturali. Un equivoco, quest’ultimo, cui si perviene se, sorvolando sull’elementare distinzione fra beni durevoli e non durevoli, si sottolinea con compiacimento che la crescita nella produzione di rifiuti urbani è stata nel 2021 più contenuta rispetto all’incremento dei consumi delle famiglie nello stesso periodo (+5,3%) ma si tace sulla stretta e positiva correlazione che da anni si osserva fra l’andamento della ben più rilevante produzione di rifiuti speciali e l’andamento del Pil.

Nelle ultime tre decadi la quantità di materie prime estratte dalla Terra è più che raddoppiata e al ritmo attuale raddoppierà nuovamente entro il 2060. Quel che già nel 1972 aveva prefigurato il Club di Roma, il collasso dell’umanità nel corso di questo secolo, non è più un’ipotesi catastrofista. Chiare e inascoltate suonano le parole di Kenneth Boulding che ancor prima, nel 1966, ammoniva: “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista”.

* da il manifesto - 24 dicembre 2022

 

14 dicembre 2022

I falsi miti sulle rinnovabili: costano troppo, rovinano il paesaggio e non sostituiranno mai le energie fossili

 

Da Italy for Climate la prima piattaforma di contrasto alla disinformazione sulle fonti rinnovabili

Italy for Climate (4C), centro studi della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, annuncia la nascita di Falsi miti sulle rinnovabili: «La prima piattaforma che promuove un’informazione chiara e fondata su dati scientifici sulle fonti rinnovabili»

A I4C ricordano che «Le fonti rinnovabili rappresentano una risposta concreta e realizzabile all’attuale crisi energetica e climatica, eppure sono spesso trascurate all’interno del dibattito pubblico e istituzionale o relegate a soluzioni marginali e utopistiche. Il dibattito pubblico nazionale ed i canali mediatici – sia tradizionali che nuovi – sono carichi di idee sbagliate e informazioni obsolete sull’energia rinnovabile e sulla sua capacità di svolgere un ruolo sempre più dominante nel mix di produzione elettrica nazionale già nei prossimi anni».

Proprio per contrastare questa disinformazione e contribuire alla diffusione di informazioni verificate e aggiornate Italy for Climate ha lanciato il progetto Falsi miti sulle rinnovabili e Andrea Barbabella, coordinatore dell’iniziativa, spiega: «Non è solo in nome di una corretta informazione che abbiamo ideato questo progetto – ma è soprattutto perché pensiamo che sia proprio a causa di questa diffusa disinformazione che l’Italia non riesce ad accelerare sulla transizione energetica. Complessità burocratiche, moratorie, opposizioni dei comitati locali sono tutte figlie di una scarsa consapevolezza e conoscenza delle potenzialità delle fonti rinnovabili».

Prima di tutto, la piattaforma individua primariamente 5 falsi miti comunemente diffusi:  

Le rinnovabili sono e rimarranno marginali. Falso. 8 kW su 10 di impianti di generazione elettrica installati ogni anno sono rinnovabili: in pochi anni le fonti rinnovabili hanno già cambiato il panorama energetico mondiale.

Le rinnovabili costano troppo. Falso. 1 kWh prodotto da eolico o fotovoltaico costa 5 centesimi di €, meno della metà rispetto a fossili e nucleare in Europa. Le rinnovabili erano le fonti più economiche già prima della crisi energetica.

Le rinnovabili ci fanno restare al buio. Falso. Già oggi ci sono Paesi che producono elettricità per oltre il 90% da fonti rinnovabili, anche in Europa, e cresce il numero di Governi che puntano a fare lo stesso entro il prossimo decennio.

Le rinnovabili rovinano il paesaggio. Falso. Servirebbe solo lo 0,7% del territorio nazionale per sostituire tutti gli impianti fossili con pannelli fotovoltaici: meno di 200 mila ettari, un decimo della superficie oggi edificata in Italia.

Le rinnovabili fanno male a economia e occupazione. Falso. Al 2030 saranno 14 milioni i nuovi posti di lavoro nel mondo, contro i 5 milioni persi nell’ oil&gas. Grazie alle rinnovabili crescono investimenti e occupazione e si valorizzano le filiere locali.

Per ognuno di questi falsi miti Italy for Climate ha svolto un’attività di ricerca pubblicando sulla piattaforma dati, fonti e offrendo una chiave di lettura per l’analisi delle informazioni semplice e immediata, con vari livelli di approfondimento. La piattaforma si rivolge infatti a utenti, politici, operatori della comunicazione, imprenditori: tutti abbiamo un ruolo nella transizione energetica e abbiamo bisogno di avere informazioni chiare su quei temi che riguardano la quotidianità di ognuno di noi.

Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile e Promotore di Italy For Climate, sottolinea che «Il mondo delle rinnovabili è cambiato enormemente nell’ultimo decennio, e in poco più di due decenni queste tecnologie dovranno porre fine all’era dei combustibili fossili Eppure in Italia la loro crescita è ancora stentata e sono in molti a non considerarli una vera alternativa su cui puntare, anche per rispondere alla crisi dei prezzi dell’energia. Bisogna contrastare con maggiore decisione l’ignoranza e i pregiudizi che spesso sono il principale freno allo sviluppo di queste tecnologie, mostrando in modo chiaro e scientificamente fondato la loro capacità di soddisfare la nostra fame di energia e i vantaggi ambientali ed economici che potranno portare».

I4C presenta anche una scheda sullo stato delle rinnovabili in Italia e ricorda che «L’Italia è sempre stata fra le grandi economie europee con la più alta quota di fonti rinnovabili nel mix di generazione elettrica. Negli ultimi anni però sta perdendo questo primato, a causa del rallentamento nella crescita del settore che è stato in Italia più forte che nel resto d’Europa. Ad oggi il 40% della generazione elettrica in Italia è stata soddisfatta dalle fonti rinnovabili: soprattutto idroelettrico (16%), fotovoltaico (9%), eolico (7%), bioenergie (6%), geotermoelettrico (2%). Si tratta di un valore abbastanza significativo e in linea con la media europea, ma è un valore che non cresce più ormai da 8 anni: già nel 2014 avevamo raggiunto il 43% di generazione elettrica da fonti rinnovabili, grazie alla forte crescita registrata a cavallo del 2010 (8 anni prima era il 16%, nel 2006). Questo brusco rallentamento è stato causato da una serie di fattori: in un primo momento, per il mancato rinnovo degli incentivi che avevano sostenuto la crescita del settore fino a quel momento, e in un secondo momento perché l’iter burocratico per poter installare un nuovo impianto a fonti rinnovabili è diventato sempre più lungo, complesso e costoso. Il risultato è stato che negli ultimi 8 anni l’Italia ha installato in media circa 1 GW (ovvero milioni di kW) di nuovi impianti rinnovabili ogni anno, un ritmo assolutamente insufficiente rispetto ai circa 8-10 GW che dovremmo mettere a terra per stare al passo con la transizione energetica».

Italy for Climate  evidenzia che «Recentemente il Governo ha provato ad intervenire con più decisione per sbloccare questa situazione e il 2022 sembra registrare un rilancio del settore (stimato in circa 3 GW di nuova potenza nell’anno), ma è ancora presto per poter valutare i reali impatti di questi interventi di semplificazione. Sappiamo però che non è solo sul fronte della burocrazia che l’Italia deve agire per tornare ad essere un volano delle fonti rinnovabili: urge costruire una maggiore conoscenza e consapevolezza, a tutti i livelli di governo e di società, di quanto le rinnovabili stiano già trasformando il settore elettrico e di quanto il mondo, e l’Italia, non possa prescindere da questa trasformazione».

Ma resta un grosso problema: «L’Italia è uno dei Paesi in cui gli iter autorizzativi per costruire nuovi impianti rinnovabili sono i più lunghi in Europa. Alcune Regioni varano moratorie contro le rinnovabili e spesso le Sovrintendenze si oppongono alla realizzazione degli impianti in nome della tutela del paesaggio. Tutto questo ci porta ad essere fanalino di coda per crescita delle rinnovabili tra le grandi economie europee».

  da greenreport.it - 6 Dicembre 2022

3 dicembre 2022

Shadows of Liberty, il documentario che svela il sistema mediatico americano

di Federico Mels Colloredo *  

Shadows of Liberty è un documentario del 2012 della durata di 93 minuti, diretto dal regista canadese Jean-Philippe Tremblay, che attraverso immagini di repertorio e interviste con noti giornalisti e personaggi pubblici tra cui il fondatore di WikiLeaks Julian Assange, l’attore e attivista Danny Glover, la giornalista investigativa Amy Goodman, l’ex conduttore di CBS News Dan Rather e lo scrittore e produttore televisivo David Simon; rivela la straordinaria verità dietro i mezzi di informazione: censura, insabbiamenti, manipolazione e controllo aziendale. Il regista intraprende un viaggio attraverso gli antri più oscuri dei media statunitensi, dove la loro schiacciante influenza ha distorto il giornalismo e ne ha compromesso i valori. Storie dove giornalisti, attivisti e accademici forniscono resoconti scioccanti di un sistema mediatico allo sbando. I media statunitensi sono controllati da una manciata di corporazioni che esercitano uno straordinario potere politico, sociale ed economico. Avendo sempre permesso che le trasmissioni fossero controllate da interessi commerciali, l’allentamento dei regolamenti sulla proprietà dei media, iniziato sotto la presidenza Reagan, continuato con Clinton e proseguito da Bush, ha portato alla situazione attuale in cui cinque mega corporazioni controllano la stragrande maggioranza dei media negli Stati Uniti. Queste aziende non solo non danno la priorità al giornalismo investigativo, ma possono reprimerlo e lo fanno ogni volta che i loro interessi sono minacciati.

Il documentario inizia con tre giornalisti le cui carriere sono state distrutte a causa delle storie che hanno raccontato, come Roberta Baskin giornalista investigativa che negli anni 90, con lo scoop sullo sfruttamento, le cattive condizioni di lavoro e bassissimi salari in una fabbrica Nike in Vietnam, fece infuriare la CBS quando Nike diventò co-sponsor principale dei Giochi Olimpici Invernali dove la CBS aveva investito molto per acquisire i diritti di trasmissione esclusivi. Kristina Borjesson, un’altra giornalista della CBS, che si era spinta troppo oltre nelle sue indagini investigative, fu tempestivamente dimessa dal suo incarico, dopo che la rete ha intensificato le sue ricerche sul disastro del volo TWA 800 nel 1996, intralciando le indagini e mettendo a tacere le teorie secondo cui il volo TWA 800 è stato abbattuto da un esplosivo artificiale, non da un guasto meccanico. Gary Webb, la cui storia collega il sostegno degli Stati Uniti e della CIA ai Contras, gruppi armati controrivoluzionari nicaraguensi e l’enorme diffusione di cocaina e crack negli anni 80, fu screditata e cestinata dal New York Times e dal Washington Post. In seguito risultò che la sua storia era vera, ma Webb perse il lavoro e nel 2004 in circostanze ancora poco chiare si tolse la vita.

Shadows of Liberty è un documentario d’accusa che si mostra come una critica sobria e incisiva del sistema mediatico americano, chiedendosi perché hanno lasciato che una manciata di potenti società scrivessero le notizie, evidenziando in modo efficace come e perché il consolidamento aziendale dei media mina la democrazia. Il titolo del film è ispirato a Thomas Paine, rivoluzionario, politico e filosofo illuminista considerato uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti d’America che alla fine del settecento scrisse: ««Quando l’uomo perde il privilegio del pensiero l’ultima ombra della libertà lascerà l’orizzonte». Il documentario è disponibile sottotitolato in italiano su YouTube.

* da indipendenteonline.it via infosannio - 3 dicembre 2022

15 novembre 2022

Come abolire le armi atomiche: il trattato è già in vigore (e nessuno lo sa)

di Pino Arlacchi *

L’industria della comunicazione, i media tradizionali, stanno dimostrando in questi giorni di essere la principale forza dell’instabilità e della violenza globali. Giornali e televisioni propinano un’informazione intossicata, basata sulla costruzione di un Grande Nemico pronto ad ogni nefandezza contro l’Occidente. Olocausto nucleare incluso. Non credo che questo possa accadere, e le dichiarazioni delle potenziali vittime di un attacco nucleare russo – con in testa il governo americano – tendono a smontare l’isteria comunicativa che dilaga in Europa e in Ucraina. Ma i venditori di paura non desistono. Sognano una guerra atomica che non ci sarà, e pur di vendere copie e alzare gli ascolti vengono meno al loro dovere di informare sui reali termini della questione. E mettono così in discussione uno dei pochi lasciti positivi della Guerra fredda: il tabù atomico.

L’ industria della paura non presta particolare attenzione alle armi nucleari, eccetto quando si svolgono test atomici che vengono bene in televisione o quando c’è di mezzo qualche storia (quasi sempre inventata o gonfiata a dismisura) di contrabbando o di terrorismo atomico. Il largo pubblico resta perciò all’oscuro dei progressi che si sono effettuati in questo campo, e non è in grado di apprezzare la portata di parole d’ordine come quella dell’abolizione delle armi nucleari. Quanti sanno che, senza la coltre di ignoranza e di paura creata dalla mistificazione mediatica, già da vari anni ci troveremmo a essere privi del più grande pericolo per la sicurezza dell’umanità? Pochissimi sono al corrente del fatto che le forze della pace hanno sfiorato l’en plein – l’abolizione di tutti gli armamenti atomici – a Reykjavík durante uno degli eventi più straordinari della seconda metà del Novecento: il vertice dell’ottobre 1986 tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv dedicato espressamente a questo tema.

Nel gennaio del 1986 Gorbačëv aveva scritto a Reagan proponendo un calendario per l’eliminazione di tutte le armi nucleari entro la fine del secolo. I consiglieri del presidente americano avevano prontamente bocciato la proposta bollandola come un trucco propagandistico. Reagan aveva però reagito diversamente e aveva addirittura rilanciato: «Perché aspettare fino al 2000?». Fu la sua risposta a Gorbačëv. I due presidenti – davanti agli occhi attoniti delle rispettive delegazioni – raggiunsero l’accordo sull’eliminazione di tutti i missili balistici e gli arsenali nucleari entro dieci anni. Entro il 1996 l’umanità sarebbe uscita dall’incubo iniziato a Hiroshima quarantun anni prima. Reagan e Gorbačëv disprezzavano gli ordigni atomici e non credevano nella dottrina dell’equilibrio del terrore. Sulla questione delle armi nucleari, Reagan è stato il più radicale dei presidenti americani, anche di quelli democratici venuti prima e dopo di lui. Ha sempre creduto nella necessità di abolirle, non di ridurle o aumentarle per salvaguardare la pace. Per lui rappresentavano il più grande pericolo per il genere umano. Un male assoluto, come il comunismo sovietico, con il quale occorreva comunque convivere e trattare. Reagan viene ricordato come un combattente anticomunista, ma la sua carriera politica era iniziata nel 1945 con un discorso sulla pericolosità delle armi nucleari, e con una militanza pacifista nell’associazione mondiale federalista che si batteva per il governo universale. Il capo del suo staff ha scritto nelle sue memorie che ogni azione di Reagan in politica estera è stata compiuta con l’idea che un giorno ci si sarebbe seduti intorno a un tavolo di negoziato con il leader dell’Unione Sovietica e si sarebbero messe al bando le armi di distruzione di massa.[1]

L’accordo non fu firmato perché Gorbačëv subordinò la sua firma alla rinuncia da parte di Reagan al progetto dello Scudo spaziale, ma da allora in poi l’idea di un mondo senza armi nucleari è diventata una strada politico-diplomatica di praticabilità immediata. Appena eletto, Obama ha posto questo argomento come uno dei temi guida della sua presidenza, per poi abbandonarlo e passare alla storia come un presidente ambiguo e irresoluto. La liberazione dalla cappa di bugie in cui consiste l’inganno mediatico sul nucleare comporta il rilancio dell’idea di un mondo privo di ordigni atomici. La loro totale eliminazione è l’unica soluzione concreta al problema della proliferazione e della guerra nucleare. Questa è la soluzione che sta alla base – è bene ricordarlo – dello spirito e della lettera del Trattato di non proliferazione del 1970 (TNP). A Reykjavík, Reagan e Gorbačëv si muovevano su un terreno già arato. Il disarmo atomico totale era stato accettato dalla comunità internazionale sedici anni prima. L’articolo 6 del TNP è molto esplicito nel delineare anche il percorso da seguire per arrivare, «in modo inequivoco», al disarmo completo. Vale a dire alla fine dell’angoscia nucleare che perseguita l’umanità dalla Seconda guerra mondiale in poi. Il TNP è un tipico accordo multilaterale, un compromesso precario tra sovranità enormemente disuguali: cinque stati nucleari contrapposti a una massa di paesi che accettano di non dotarsi di ordigni atomici in cambio di tecnologia nucleare pacifica e di un impegno verso il disarmo generale.

Il Trattato di non proliferazione ha costituito fino a poco tempo fa uno dei successi più eclatanti del diritto internazionale. È stato firmato da 187 paesi, diventando l’accordo internazionale più condiviso dopo la Carta delle Nazioni unite. Le potenze non nucleari lo hanno diligentemente rispettato. È grazie a esso che i paesi dotati di armi atomiche sono rimasti cinque (Cina, Russia, Stati Uniti, Francia e Regno Unito), più tre altri paesi che si sono rifiutati di firmare il TNP (India, Israele e Pakistan) e uno, la Corea del Nord, che ne è uscito nel 2003. Dozzine di altri stati potrebbero oggi possedere armi atomiche se non ci fossero all’opera gli impegni del TNP. Nel corso del tempo, il TNP ha spinto varie nazioni ad abbandonare le ambizioni di armamento nucleare. Parlo dell’Argentina, del Brasile, della Turchia, della Corea del Sud, di Taiwan, della Svezia, della Romania, della Iugoslavia e della Libia. Mentre altri quattro paesi che già possedevano gli ordigni atomici se ne sono sbarazzati. Parlo del Sudafrica, della Bielorussia, del Kazakistan e dell’Ucraina. Il TNP rende inoltre molto più difficile per i paesi non nucleari l’acquisizione delle tecnologie e dei materiali necessari per costruire ordigni atomici. E, anche nel caso in cui questi paesi decidano di farlo, il sistema dei controlli in vigore dopo il 1970 impedisce che ciò avvenga in modo clandestino. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) di Vienna è il perno di un insieme di garanzie e di ispezioni che rendono molto ardua la diversione di tecnologia nucleare e di materiali a scopo bellico.

Ricordo un colloquio con il mio collega Hans Blix, direttore generale dell’AIEA, qualche anno prima della seconda invasione Usa dell’Iraq: «Disponiamo ormai di tecnologie che ci permettono di scoprire se un paese sta costruendo impianti nucleari segreti. Le analisi delle acque, per esempio, sono ormai l’equivalente delle analisi delle urine per gli umani. Saddam sta solo mettendo in piedi un bluff, facendo credere di avere armi che non ha». È la disinformazione dominante che ha diffuso per lungo tempo l’errata credenza di un Iran dotato di tecnologie nucleari belliche quasi pronte per essere usate. L’AIEA, corroborata dalle valutazioni dei principali servizi di sicurezza nazionali – Stati Uniti inclusi –, ha costantemente sostenuto il contrario. Uno dei suoi più prestigiosi direttori, Mohamed ElBaradei, non ha avuto remore nel dichiarare che gli esperimenti di arricchimento dell’uranio compiuti dall’Iran durante il suo mandato non costituivano una minaccia immediata alla sicurezza globale. L’esistenza del Trattato, e il sostegno a esso fornito dalla società civile mondiale, ha spinto la Russia e gli Stati Uniti verso la strada dei negoziati per la riduzione degli armamenti nucleari strategici e l’approvazione della convenzione che proibisce gli esperimenti atomici, firmata nel 1996.   Il TNP, infine, ha spinto le potenze nucleari a rilasciare le cosiddette negative security assurances – vale a dire gli impegni a non usare ordigni nucleari contro i paesi non nuclearizzati che fanno parte del TNP–, riducendo così l’incentivo a procurarsi le bombe atomiche per ragioni di prestigio e di autodifesa.

Uno dei maggiori successi del Trattato di non proliferazione, però, è assai poco noto perché vittima dell’ignoranza prodotta dai padroni dell’informazione. Mi riferisco alla non proliferazione su base regionale. Pochi sanno che aree molto vaste del pianeta hanno negoziato accordi regionali di proibizione delle armi di distruzione di massa e dei missili di lunga gittata. Si tratta delle nuclear-weapons-free zones, le zone libere da armi nucleari, che comprendono ormai l’intero emisfero australe più ampie aree di quello boreale. Quasi tre miliardi di persone in centoventi paesi vivono entro un sistema di garanzie che riduce la possibilità di una corsa agli armamenti atomici e rafforza notevolmente il tabù nucleare. Il Trattato di Tlatelolco riguarda i Caraibi e l’intera America latina. Il Trattato di Rarotonga (firmato da quasi tutti i paesi del Pacifico meridionale, Australia e Nuova Zelanda incluse) interessa l’Oceania e il Trattato di Bangkok l’Asia meridionale. Mentre il passo indietro del Sudafrica post-apartheid rispetto al nucleare ha consentito di concludere, nel 1996, il Trattato di Pelindaba, che riguarda tutto il continente africano. Anche le cinque repubbliche dell’Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan) hanno firmato nel 2009 un accordo che dà vita a un’area centroasiatica libera da armi atomiche. Il loro trattato contiene un impegno cogente verso il disarmo nucleare da parte di paesi che prima ospitavano ordigni nucleari sul loro territorio e che hanno vicini dotati di armi atomiche. Le cinque repubbliche centroasiatiche sono circondate dalle atomiche indiane, russe, cinesi, israeliane e pakistane, e ospitano basi militari russe e americane. Il loro accordo è un esempio potente di non proliferazione, e un antidoto alle tendenze più recenti della regione. Queste convenzioni regionali stanno ridando forza all’idea di sgomberare i Balcani e l’intera Europa dall’incubo nucleare, approfondendo il parallelo trend di declino delle spese militari convenzionali. Alle zone fin qui citate occorre aggiungere l’Antartide (demilitarizzata dal trattato del 1959), il fondo degli oceani – liberato dal rischio di diventare deposito di armi nucleari dal trattato del 1971 –, lo spazio extra-atmosferico e il territorio della Luna. È importante ricordare questi fatti oggi, quando gli agenti del grande inganno ci costringono a parlare di nuovo di armi atomiche, di obsolescenza degli accordi sul disarmo, di bombe parcheggiate nello spazio e di atomiche tattiche. È per queste ragioni che è importante tentare di costruire un mondo nel quale le minacce alla sicurezza umana continuino a decrescere. Un mondo nel quale non ci siano più ordigni atomici, e nel quale cessi il paradosso di una convenzione sulle armi chimiche e batteriologiche che le mette al bando in modo totale e un trattato sulle armi atomiche che non arriva alla loro integrale proibizione. Purtroppo, è questo il punto più debole del Trattato di non proliferazione: è stato rispettato dai paesi non nuclearizzati che lo hanno sottoscritto, ma non da quelli del club atomico. Gli stati nuclearizzati non hanno dato seguito all’articolo 6 e non hanno proceduto con il proprio disarmo. Le grandi potenze sono perciò poco credibili quando minacciano sanzioni contro i paesi che iniziano esperimenti poco chiari di arricchimento dell’uranio. I primi violatori del TNP sono proprio esse stesse. Ne discende che la sua forza deve essere attribuita ai fattori extrapolitici di crescita della pace e della solidarietà internazionale   più che alla volontà delle potenze atomiche. Le quali coincidono, guarda caso, con i membri permanenti del Consiglio di sicurezza ONU. Il cosiddetto «tabù nucleare», quindi, non è solo il prodotto della paura dell’annientamento atomico, ma l’espressione di una volontà positiva. E proprio nel momento in cui la mancata attuazione del TNP iniziava a essere accettata come un dato di fatto, è avvenuta una svolta radicale e di segno opposto, che i promotori dell’oscurità stanno tenendo nascosta il più possibile. Le forze del progresso umano hanno messo a segno un colpo importantissimo: nel luglio del 2017 122 paesi membri dell’ONU hanno approvato il testo di un nuovo trattato, che non è solo «di non proliferazione» ma di abolizione delle armi nucleari, rendendole finalmente illegali. L’iter che ha portato a questo risultato è iniziato nel 2010, ma le forze della disinformazione ne hanno taciuto l’esistenza fino all’ottobre del 2017, quando l’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (ICAN), l’associazione che lo ha promosso, ha vinto il premio Nobel per la pace. Le potenze nucleari non hanno approvato il nuovo accordo, entrato comunque in vigore nel 2020 e ratificato ad oggi da 68 nazioni, tra cui quasi tutti i paesi dell’Africa e dell’America Latina, con la vistosa assenza dell’ Unione Europea: solo due dei 26 paesi EU, l’ Austria e  Malta, lo hanno finora adottato.  Ma erano davvero in pochi a pensare che si sarebbe arrivati così presto. Fino al punto che i due terzi degli stati del pianeta esprimessero formalmente, e in aperto contrasto con i poteri mondiali costituiti, la volontà di mettere fuorilegge gli strumenti della distruzione totale.

[1]          Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Paul Lettow, Ronald Reagan and His Quest to Abolish Nuclear Weapons, Random House, New York 2005; Jack F. Matlock Jr., Reagan and Gorbachev: How the Cold War Ended, Random House, New York 2005.

* da lafionda.org – 15 novembre 2022

12 novembre 2022

COP27, tutte le contraddizioni della ventisettesima conferenza sul clima

di Simone Valeri *

Ha avuto inizio domenica 6 novembre la ventisettesima Conferenza delle Parti sul Clima (COP27). Ad ospitarla l’Egitto, nella turisticamente attrezzata Sharm el-Sheikh. Il nuovo vertice internazionale sulle questioni climatiche durerà quasi due settimane per concludersi venerdì 18 novembre. A partecipare, i delegati di circa 200 paesi membri della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Questi, 196 per la precisione, in quanto aderenti all’Accordo di Parigi, avranno quindi l’obiettivo di provare a concretizzarne l’attuazione. Tra polemiche e speranze, i punti da discutere sono molti, così come lo sono le questioni spinose da risolvere. Alla cerimonia di introduzione diversi gli interventi tra cui, immancabilmente, quello del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guteress. «Il fallimento o il successo della COP27 – ha dichiarato il rappresentante dell’ONU – si misurerà su tre dimensioni. Il vertice deve essere il luogo in cui colmare il gap di ambizione, il gap di credibilità e il gap di solidarietà». Tre sfide indubbiamente rilevanti, peccato però che Guterres non abbia menzionato anche un certo ‘gap di coerenza’, caratteristica su cui effettivamente questa e le precedenti COP hanno dimostrato di avere più di una lacuna. 

Il luogo

Forti carenze in termini di coerenza emergono già a partire dalla sede scelta per il vertice. L’Egitto, anche tralasciando i continui affronti ai diritti umani perpetrati dal regime di al-Sisi, è infatti tutt’altro che un paese degno di ospitare una Conferenza dal tale significato. E tanto meno è un paese impegnato nella lotta alla crisi climatica. Non che le nazioni selezionate dall’ONU per le COP sul clima debbano necessariamente eccellere in sostenibilità, ma sarebbe quantomeno auspicabile che diano il buon esempio per gli sforzi messi in campo. La Terra dei Faraoni, dal canto suo, negli ultimi anni si è solo impegnata a convertirsi in una delle nuove potenze gasiere a livello globale. Complici le volontà del suo dittatore e il conflitto tra Russia e Ucraina, l’Egitto è riuscito a conquistarsi un ruolo di primo piano nello scacchiere energetico regionale ed europeo. Le esportazioni egiziane di gas fossile sono infatti aumentate significativamente negli ultimi anni, fino a toccare quota 8 miliardi di dollari nel biennio 2021-2022. Secondo le stime sono poi destinate a crescere ancora, guidate dalla ricerca disperata di nuovi approvvigionamenti da parte dell’Unione Europea e grazie soprattutto ai progetti realizzati dalla multinazionale italiana ENI. In Egitto, non a caso, si trova più del 20% delle riserve di gas del Cane a sei zampe – ha reso noto un documento dell’organizzazione ReCommon – “per una produzione annuale che si aggira intorno ai 15 miliardi di metri cubi di gas, ovvero circa il 30% della produzione globale di ENI e il 60% di quella egiziana”. In questo senso, la vera differenza per il colosso italiano e per i suoi affari con la Repubblica araba l’ha fatta, nel 2015, la scoperta del giacimento Zohr, a oggi la più grande riserva di gas del Mediterraneo. Giacimento che, nonostante alcune dichiarazioni di facciata sulla questione dell’omicidio di Giulio Regeni, ENI non ha mai smesso di sfruttare e far fruttare. Insomma, interessi del Cane a sei zampe a parte, l’Egitto pare proprio che abbia priorità ben diverse dal contribuire alla lotta alla crisi climatica. Tra queste, anche l’imprigionare gli attivisti ambientali. 

Chi partecipa

Il principale obiettivo di una COP sul clima è quello di garantire e concretizzare, di anno in anno, l’attuazione degli accordi fissati a Parigi nel 2015. Ovvero, assicurare che le temperature medie del globo non aumentino, nella migliore delle ipotesi, di oltre 1,5°C. Obiettivo che appare però sempre meno a portata di mano, anche e soprattutto alla luce degli inconcludenti risultati della COP26 di Glasgow. Evitare un’ulteriore accelerazione antropica del riscaldamento globale deve passare necessariamente da una drastica riduzione nelle emissioni di tutti quei gas in grado di schermare il calore amplificando il naturale effetto serra terrestre. Sul come farlo se ne sta parlando anche in questi giorni a Sharm el-Sheikh, tuttavia – e qui arriviamo ad una nuova contraddizione della COP27 – in assenza dei cosiddetti ‘grandi emettitori’. Alla 27esima Conferenza sul Clima mancano infatti i paesi che, da soli, emettono oltre il 43% delle emissioni globali di anidride carbonica. Stiamo parlando di Russia, Cina e India, tra le cinque nazioni in assoluto più impattanti sul clima insieme a Stati Uniti e Brasile. Come sia possibile, con questi presupposti, colmare il cosiddetto ‘gap di credibilità’ citato da Guteress non è dato saperlo. Ad oggi, Russia e Cina sono i Paesi con gli obiettivi meno ambiziosi per le emissioni nette zero, fissate al 2060 e al 2070 rispettivamente, mentre l’India, nonostante target più volenterosi, è comunque tra i maggiori emettitori. In sostanza, anche se dalla COP27 uscisse una qualche decisione rivoluzionaria in fatto di taglio alle emissioni, l’assenza di queste tre nazioni peserebbe comunque a tal punto da vanificare gran parte degli irrealistici impegni ipoteticamente presi. Fuori dai negoziati ha fatto invece discutere la decisione di includere la multinazionale Coca-Cola tra gli sponsor del vertice. Al riguardo, pronte le critiche delle associazioni ambientaliste, specie in virtù del fatto che il noto colosso statunitense è stato più volte descritto come il “più inquinante al mondo”. Coca-Cola produce infatti 120 miliardi di bottiglie di plastica usa e getta all’anno e il 99% dei polimeri, peggiorando sia la crisi della plastica che quella climatica, è prodotto con l’impiego di combustibili fossili.

Come partecipa

La probabilità che alla COP27 si arrivi a qualche accordo concreto è insomma tutt’altro che a favore del clima. Il motivo è semplice: anche chi partecipa sembra più determinato a fare discorsi di facciata infiocchettati di verde piuttosto che a cambiare realmente rotta. Tra il dire e il fare, infatti, qui ci passa più di un mare, e a confermare che la COP27 sia solo un’occasione per fare dello spudorato greenwashing politico e internazionale c’è più di un esempio. Basti pensare al crollo nel numero degli aderenti al Patto contro la deforestazione. Alla COP26 di Glasgow, 140 Paesi avevano promesso di eliminare la deforestazione dentro i propri confini entro il 2030. In questi giorni, alla COP27, bisognava passare dalle parole ai fatti. Tuttavia, non appena le azioni concrete da adottare sono state messe su carta, il numero di Paesi aderenti al Patto contro la deforestazione è calato vertiginosamente. Ora rimangono appena 25 Stati membri, i quali ospitano poco più di un terzo delle foreste globali. A tirarsi fuori anche Brasile e Congo, che ospitano sui loro territori quasi metà delle foreste tropicali del pianeta. Paradossali poi le trattative attorno alla delicata questione del sostegno ai paesi in via di sviluppo più vulnerabili agli effetti della crisi climatica. Prima ancora che la 27esima Conferenza sul Clima di Sharm el-Sheikh iniziasse ufficialmente, i delegati dei 196 Stati Membri hanno infatti passato una notte intera a discutere animatamente su questo punto fondamentale di giustizia e finanza climatica. Per la prima volta, anche in questo caso dopo Glasgow, la questione ha trovato spazio nel documento ufficiale, nel capitolo Loss&Damage. Capitolo che, tuttavia, alcuni delegati pare abbiano tentato di lasciar fuori dall’agenda 2022 di modo da evitare di trattare il tema o, comunque, di rimandarlo. Tentativo che, sebbene andato fortunatamente a vuoto, la dice lunga sui reali propositi dei partecipanti al vertice sul clima. Dovrebbe poi quantomeno far riflettere la modalità con cui molti rappresentanti delle nazioni siglanti l’Accordo di Parigi hanno scelto di raggiungere Sharm. Per dimostrare il proprio impegno climatico, molti politici e autorità internazionali hanno infatti scelto di raggiungere la sede della Conferenza nel modo più inquinante possibile, ovvero a bordo dei propri jet privati. E l’hanno fatto al pari dello scorso anno, quando almeno 400 di questi mezzi hanno raggiunto la sede scozzese della COP26. Un jet privato emette da 5 a 15 volte in più per passeggero rispetto a un aereo commerciale e fino a 50 volte in più rispetto a un treno, ma non dovrebbe sorprendere, che la coerenza non fosse di casa alla COP si era già capito da un pezzo. In ultimo, come esempio lampante di greenwashing politico, va citato l’illuminante discorso della neo-premier italiana Giorgia Meloni. Quasi venti minuti di intervento dove si è ribadito l’impegno dello Stivale nel promuovere la transizione ecologica ed energetica e, nel complesso, lo sviluppo sostenibile. Perché d’altronde – come ha affermato sempre la Presidente del Consiglio chiedendo la fiducia alla Camera – «non c’è ecologista più convinto di un conservatore». Peccato che, poche settimane dopo il suo insediamento, e qualche giorno prima del suo discorso ‘green’ alla COP27, il Governo a guida Meloni abbia proposto l’espansione del perimetro di estrazione di gas per le società petrolifere. Secondo la norma, nel mar Adriatico, si potrà trivellare già a partire da 9 miglia dalla costa, in barba ad ogni misura di tutela ambientale e di lotta al cambiamento climatico. D’altra parte, che la sicurezza energetica fosse la priorità per il nuovo Governo di destra è stato tuttavia chiaro fin dall’inizio. Un segnale già evidente nella rinnovata denominazione del dicastero dedicato all’ambiente e coerente con le scelte politiche di buona parte dei paesi industrializzati e non. Perché, in fondo, c’è sempre un’emergenza più rilevante di quella ambientale. E a ricordarlo, paradossalmente, c’è proprio quella che dovrebbe essere la principale Conferenza internazionale per la risoluzione della crisi climatica. 

* da www.lindipendente.online – 10 novembre 2022


6 novembre 2022

Trivelle, il governo Meloni da via libera a nuove concessioni nell’Adriatico

di Valeria Casolaro*

Il governo Meloni studia la maniera di far fronte all’emergenza energetica e propone come soluzione uno scambio: energia a prezzi calmierati per le aziende maggiormente “gasivore”, ma concessione dell’espansione del perimetro di estrazione per le società estrattive. Così, nel mar Adriatico, si potrà estrarre il gas a partire da 9 miglia dalla costa. La norma, approvata in sede di Consiglio dei ministri, sarà inserita sotto forma di emendamento al decreto Aiuti ter, al vaglio del Parlamento la prossima settimana.

La misura, ha spiegato Meloni in conferenza stampa, “riguarda la possibilità di liberare alcune estrazioni di gas italiano facilitando le concessioni in essere e immaginandone di nuove“. In cambio, i concessionari dovranno mettere a disposizione delle aziende più energivore, a partire dal 1° gennaio prossimo, uno o due miliardi di metri cubi di gas a prezzi calmierati, tra tra i 50 e i 100 euro al megawattora. Secondo le stime del governo, in questo modo il fabbisogno delle aziende più “gasivore”, come quelle della ceramica e del vetro, dovrebbe essere soddisfatto almeno per il 75% dei volumi potenziali. Le aziende che beneficeranno di questa misura dovrebbero essere in tutto 150, per un terzo piccole e medie imprese. L’obiettivo del governo è raddoppiare l’estrazione del gas metano, equivalente a 3,3 miliardi di metri cubi nel 2021 a fronte di 70 miliardi consumati, per poter “raggiungere quella sicurezza energetica che è un obiettivo strategico per l’Italia”, come dichiarato dal viceministro dell’Ambiente Vannia Gava.

Così, le trivelle potranno scavare alla ricerca di nuove scorte di gas, a partire da sole 9 miglia dalle coste adriatiche. Il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ha specificato che l’autorizzazione viene concessa “da giacimenti nazionali che abbiano una capacità superiore a 500 milioni di metri cubi, quindi grandi, per evitare una proliferazione”, specificando che “tutto questo deve avvenire al di sotto del 45° parallelo, con l’unica eccezione del ramo Goro del fiume Po”. La porzione di terreno resa disponibile, quindi, corrisponde all’Alto Adriatico (dove le attività estrattive erano vietate da 30 anni), con l’esclusione del bacino di fronte a Venezia. Prevista, inoltre, la riapertura delle attività, comprese quelle di ricerca anche all’interno delle zone protette non ancora esistenti ma da costituire secondo quanto disposto dal Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pietsai).

Secondo le stime del ministero della Transizione ecologica, in Italia vi sarebbero almeno 39,8 miliardi di metri cubi di riserve di gas “certe” e con una probabilità di almeno il 90% di essere “commercialmente prodotte”, mentre 44,5 i miliardi metri cubi di gas sono “probabili” ed estraibili con una probabilità del 50% ed è quasi irrisoria la possibilità di estrazione delle risorse “possibili” (all’incirca 26,7 miliardi di metri cubi). Secondo l’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa, tuttavia, il decreto “sblocca trivelle” costituisce una manovra insensata, in quanto anche se le autorizzazioni arrivassero subito il combustibile non sarebbe utilizzabile prima di molti mesi. “Se anche estraessimo tutto il gas dai pozzi italiani copriremmo il fabbisogno nazionale di circa due anni” prima di ritrovarsi da capo “ma con un territorio distrutto” ha dichiarato. Immediate anche le proteste degli ambientalisti: tra questi, il presidente di Legambiente Stefano Ciafani ha definito “ridicole” le quantità disponibili tra riserve probabili e certe, in quanto “se le dovessimo estrarre tutte con uno schiocco di dita le esauriremmo in quindici mesi”.

* da  lindipendente.online 5 novembre 2022

21 ottobre 2022

I big della finanza al Parlamento Gb: “Nessuna intenzione di smettere di finanziare petrolio, gas e carbone”

 Le affermazioni sono contenute tra le risposte ad una serie di domande inviate dai legislatori britannici incaricati di capire come il paese può soddisfare i propri impegni di riduzione delle emissioni di Co2. Blackrock, il cui amministratore delegato Fink ha ripetutamente sbandierato la "svolta verde", scrive di non condividere le preoccupazioni dell'Agenzia internazionale dell'energia. Sulla stessa linea Vanguard, Morgan Stanley, Hsbc e Barclays

di Mauro Del Corno *

Alcune delle più grandi società finanziarie del mondo, tra cui le statunitensi BlackRock Inc. e Vanguard Group Inc., hanno dichiarato al Regno Unito di non avere intenzione di interrompere il finanziamento allo sviluppo della produzione di combustibili fossili. Le affermazioni sono contenute tra le risposte ad una serie di domande inviate dai legislatori britannici incaricati di capire come il paese può soddisfare i propri impegni di riduzione delle emissioni di Co2. L’inchiesta è condotta dalla Commissione per il controllo ambientale della Camera dei Comuni. La Gran Bretagna, che è stata citata in giudizio da un gruppo di attivisti per l’ambiente, all’inizio di quest’anno dopo aver presentato un piano poco chiaro per la riduzione dei gas nocivi, ha chiesto alle aziende di spiegare come stanno recependo le indicazioni per ridurre gradualmente e, infine, fermare il finanziamento di nuovi fossili.

Secondo quanto riporta l’agenzia Bloomberg, le risposte ricevute dal Comitato, sono state inviate da più di 30 delle più grandi banche e gestori di investimenti del mondo. BlackRock ha sottolineato di essere “obbligato ad agire sempre nel migliore interesse finanziario dei nostri clienti”. Durante il forum di Davos del 202o, dove era arrivato con jet privato, l’amministratore Larry Fink aveva ampiamente reclamizzato la “svolta verde” di quello che è il più grande gruppo di gestioni del risparmio al mondo. Nelle risposte per le autorità britanniche Blackrock ha anche affermato che il suo approccio generale alla transizione energetica non include politiche di esclusione dei combustibili fossili e che non condivide lo scenario prospettato dall’Agenzia internazionale per l’energia, secondo cui i nuovi investimenti nelle fonti fossili dovrebbero azzerarsi da subito per avere una qualche speranza di soddisfare gli obiettivi fissati negli accordi di Parigi (aumento massimo di 1,5 gradi della temperatura globale media rispetto ai periodi pre industriale).

L’obiettivo di BlackRock “non è quello di progettare un risultato specifico di decarbonizzazione“, si legge nella risposta. E, come altre aziende intervistate, BlackRock ha affermato che è compito dei governi fissare obiettivi per gli attori del settore privato. Il gestore patrimoniale ha anche affermato che prevede di rimanere un investitore a lungo termine in settori ad alta intensità di carbonio “per conto dei nostri clienti”. Vanguard ha fornito risposte simili, affermando che “non detta la strategia e le operazioni nelle società di cui possiede partecipazioni e quindi non ha una visione aziendale dello scenario prospettato dall’Agenzia internazionale dell’energia.

Le opinioni di BlackRock e Vanguard esemplificano la linea di tutte le istituzioni interpellate. La Royal Bank of Canada ha ad esempio osservato che “i piani globali di decarbonizzazione e transizione energetica sono in continuo mutamento poiché vengono gestite le preoccupazioni relative al costo dell’energia, all’inflazione e alla sicurezza energetica”. Morgan Stanley ha affermato che “continuerà a supportare le società energetiche nel loro lavoro per decarbonizzare l’economia globale a un ritmo che bilancia le preoccupazioni climatiche insieme alla sicurezza energetica e ad altri fattori”. La britannica Barclays ha affermato che pensa che “può fare la differenza più grande supportando i nostri clienti nella transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio, piuttosto che eliminando gradualmente il supporto per l’industria di carbone, petrolio e gas”. Hsbc ha scritto di “riconoscere l’importanza della sicurezza energetica e di una giusta transizione dai combustibili fossili” e che “l’attenzione deve essere rivolta all’urgente eliminazione graduale dell’attuale energia a carbone”. Tuttavia, “sebbene le alternative rinnovabili stiano diventando sempre più economiche ed efficienti, la chiusura delle centrali a carbone non è al momento un’opzione“. L’iniziativa del Regno Unito per raccogliere risposte arriva a meno di un mese dal vertice Cop27 sul clima che si terrà in Egitto.

 * da FQ 19 ottobre 2022

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6 ottobre 2022

La proposta. Sette passi per una pace giusta e duratura (non solo) in Ucraina

Stefano Zamagni *

La storia ci insegna che le guerre per il territorio sono sempre perdenti nel lungo andare. È doveroso avanzare una proposta di negoziato tra i due Paesi belligeranti

Il testo di seguito è la sintesi di un intervento che uscirà sul numero 3 (ottobre 2022) della rivista Paradoxa.

Cosa vuol dire essere costruttori di pace («Beati gli operatori di pace », Mt.5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum progressio (1967) di papa Paolo VI secondo cui «lo sviluppo è il nuovo nome della pace». Tre sono le tesi che valgono a conferire a tale affermazione tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose. (…) La seconda tesi afferma che la pace però va costruita, posto che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere dalla volontà degli uomini. In un libro di grande rilevanza – e proprio per questo quasi mai citato – di Quncy Wright (A study of war, Chicago, 1942) si legge che «mai due democrazie si sono fatte la guerra». È proprio così, come la storia ci conferma. Se dunque si vuole veramente la pace, occorre operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico.

A tale riguardo, è opportuno richiamare l’attenzione su taluni fatti stilizzati che connotano la nostra epoca. Si consideri l’inquietante fenomeno della fame e della denutrizione. È noto che non si tratta di una tragica novità di questi tempi; ma ciò che la rende oggi scandalosa, e dunque intollerabile, è il fatto che essa non è la conseguenza di una incapacità del sistema produttivo globale di assicurare cibo per tutti. Non è pertanto la scarsità delle risorse, a livello globale, a causare fame e deprivazioni varie. È piuttosto una «institutional failure», la mancanza cioè di adeguate istituzioni, economiche e giuridiche, il principale fattore responsabile di ciò. (…) Di un altro fatto stilizzato mi preme dire in breve. La relazione tra lo stato nutrizionale delle persone e la loro capacità di lavoro influenza sia il modo in cui il cibo viene allocato tra i membri della famiglia – in special modo, tra maschi e femmine – sia il modo in cui funziona il mercato del lavoro. I poveri possiedono solamente un potenziale di lavoro; per trasformarlo in forza lavoro effettiva, la persona necessita di adeguata nutrizione. Ebbene, se non adeguatamente aiutato, il malnutrito non è in grado di soddisfare questa condizione in un’economia di libero mercato. La ragione è semplice: la qualità del lavoro che il povero è in grado di offrire sul mercato del lavoro è insufficiente a 'comandare' il cibo di cui ha bisogno per vivere in modo decente. (…)

Quale conclusione trarre da quanto precede? Che la presa d’atto di un nesso forte tra «institutional failure», da un lato, e aumento delle disuguaglianze globali dall’altro, ci ricorda che le istituzioni non sono – come le risorse naturali – un dato di natura, ma regole del gioco economico che vengono fissate in sede politica. (…) La terza tesi, infine, afferma che la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni, (cioè regole del gioco), di pace: sono tali quelle che mirano allo sviluppo umano integrale. Situazioni come la guerra in Ucraina vengono descritte nella scienza sociale con l’espressione «problemi di azione collettiva», problemi cioè in cui ciascun partecipante ha un interesse di lungo termine a cooperare, ma un forte incentivo di breve termine ad agire in modo opportunistico. Ecco perché occorrono istituzioni che valgano a modificare gli incentivi individuali di breve termine. (…) Quali istituzioni di pace allora meritano, nelle condizioni odierne, prioritaria attenzione? Primo, rendere credibile il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti mediante la predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell’aggredito. A tale riguardo, occorre modificare lo Statuto dell’Onu nel senso di cancellare il diritto di veto finora concesso ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Esso equivale a un diritto di monopolio. Il che è moralmente inaccettabile. Secondo, dare vita entro l’universo delle Nazioni Unite a una Agenzia (indipendente) Internazionale per la Gestione degli Aiuti (Aiga), alla quale affluiscano le risorse rese disponibili dal 'dividendo della pace' e da altre fonti e, che, in forza del principio di sussidiarietà (circolare), operi in quanto ente grant-making. (Se solo il 10% della spesa militare globale venisse dirottata su Aiga, nell’arco di un decennio le attuali diseguaglianze strutturali potrebbero venire sanate). Chiaramente, la struttura governante di Aiga deve essere quella di un ente multistakeholder; vale a dire nel suo organo di governo devono sedere i rappresentanti dei vari portatori di interesse, in particolare delle oltre 7mila Organizzazioni non governative registrate presso l’Onu. Terzo, si tratta di rivedere, in modo radicale, l’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944 (Fmi, Oms, Banca Mondiale, Wtc), divenute ormai obsolete perché pensate per un mondo che non esiste più. Al tempo stesso, occorre operare per far nascere due altre istituzioni, dotate dei medesimi poteri di quelle già esistenti: un’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (Omm) e un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente (Oma).

Una quarta iniziativa urgente è quella tesa al disegno di una nuova regolamentazione sulle sanzioni. (…) L’idea di fare la guerra con mezzi economici è antica (assedio, blocco navale, ecc.), ma oggi la deterrenza economica non funziona più per prevenire i conflitti o per farli cessare. Primo, perché sono un’arma a doppio taglio, dato che danneggiano anche chi le introduce. Secondo, perché più vengono usate, più le sanzioni perdono efficacia, dato che i Paesi si adattano a resistere a esse. Terzo, perché le sanzioni per risultare efficaci postulano l’accordo leale tra i Paesi sanzionatori, cioè l’assenza di comportamenti del tipo free riding. Tutti sanno che vi sono lobby belligeranti che non vogliono che i conflitti abbiano termine. (…) Infine, è urgente far decollare un piano volto alla riduzione bilanciata degli armamenti e in modo speciale a bloccare la proliferazione delle testate nucleari. La spesa militare del mondo è di circa due trilioni di dollari all’anno, quasi il 10% in più rispetto a un decennio fa. Si tratta di espandere il Trattato sul commercio internazionale di armi convenzionali (Att), approvato nel 2013 e ratificato nel 2020 da Ue e Cina, ma non dagli Usa né dalla Russia. Il che la dice lunga. La Convenzione Onu sui dispositivi d’arma autonomi (Laws: Lethal Autonomous Weapon Systems) si è conclusa nel dicembre 2021 con un nulla di fatto. (…) Nell’agosto 2022 si è conclusa la 10a conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare ( Tnp), pure con un nulla di fatto, in conseguenza dell’irrevocabile no russo – posizione criticata perfino dalla Cina. Una proposta credibile deve prevedere la creazione di un fondo globale per consentire il riacquisto di armi convenzionali, per poi distruggerle. Il fondo otterrebbe le risorse necessarie da quelle liberate dalla riduzione della spesa militare. (…)

È bene che si sappia che quanto sopra è tecnicamente possibile sotto tutti i profili. Piuttosto quel che manca è la volontà di agire in tale direzione. Assai opportunamente il cardinal Pietro Parolin ha scritto: «Purtroppo, bisogna riconoscere che non siamo stati capaci di costruire, dopo la caduta del Muro di Berlino, un nuovo sistema di convivenza tra le Nazioni, che andasse al di là delle alleanze militari o delle convenienze economiche. La guerra in corso in Ucraina rende evidente questa sconfitta». ('Vatican News', 11 marzo 2022). Desidero fissare qui un punto. È vero che 'l’Occidente collettivo' (e la Nato) non hanno saputo anticipare e ancor meno prevedere quanto poi è accaduto a partire dal 24 febbraio 2022. Ed è altresì vero che troppo poco l’Occidente ha fatto per costruire «un nuovo sistema di convivenza tra le nazioni». Ma tutto ciò in nessun modo può giustificare l’offensiva russa in Ucraina; può semmai spiegarla, non certo giustificarla, né sul piano politico, né sul piano etico. È doveroso avanzare una proposta di negoziato di pace tra i due Paesi belligeranti. Il fine del negoziato non può limitarsi a conseguire una pace negativa nel senso di Johan Galtung che, già nel 1975, introdusse la distinzione, divenuta poi celebre, tra pace negativa e pace positiva. (…). Mentre la prima fa riferimento all’assenza di violenza diretta ('al cessate il fuoco', come si usa dire), la seconda fissa le condizioni che servono per aggredire le cause della guerra. Invero, solamente la pace positiva è sostenibile nella prospettiva della durata. (…) Quella in Ucraina rischia di evolvere in una guerra di logoramento e può terminare o come conflitto congelato oppure come pace negoziata. È dimostrato che una pace negoziata è sempre un esito superiore rispetto all’altra possibilità. (…) Si consideri solo quel che sta accadendo al prezzo del gas naturale in Europa e alla rottura delle catene globali del valore attraverso le quali i Paesi si scambiano tra loro beni e servizi. (…) D’altro canto, la Russia con la sua economia strutturalmente debole non può certo pensare di poter competere sui mercati internazionali. (L’economia russa è meno di un ventesimo dell’economia Usa e Ue, insieme). Questo dato aiuta a spiegare perché la guerra per le conquiste territoriali siano così appetibili alla dirigenza di Mosca. Ma – come la storia insegna – le guerre per il territorio sono sempre perdenti nel lungo andare; dato che è vano pensare, oggi assai più che nel passato, che più territorio significhi più potere. (L’ha ben capito la Cina, la cui strategia geopolitica è di conquistare mercati, non territori). (…)

Quali dunque i punti qualificanti di una proposta volta ad ottenere, un accordo di pace positiva? Ne indico sette.

1) Neutralità dell’Ucraina che rinuncia all’ambizione nazionale di entrare nella Nato, ma che conserva la piena libertà di diventare parte dell’Ue, con tutto ciò che questo significa. Una risoluzione dell’Onu deve essere adottata per assicurare meccanismi di monitoraggio internazionali per il rispetto degli accordi di pace.

2) L’Ucraina ottiene la garanzia della propria sovranità, indipendenza, e integrità territoriale; una garanzia assicurata dai 5 membri permanenti delle Nazioni Unite (Cina, Francia, Russia, Uk, Usa) oltre che dall’Ue e dalla Turchia.

3) La Russia conserva il controllo de facto della Crimea per un certo numero di anni ancora, dopodiché le parti cercano, per via diplomatica, una sistemazione de iure permanente. Le comunità locali usufruiscono di accesso facilitato sia all’Ucraina sia alla Russia; oltre alla libertà di movimento di persone e risorse finanziarie.

4) Autonomia delle regioni di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina, di cui restano parte integrante, sotto i profili economico, politico, e culturale.

5) Accesso garantito a Russia e Ucraina ai porti del Mar Nero, per lo svolgimento delle normali attività commerciali.

6) Rimozione graduale delle sanzioni occidentali alla Russia in parallelo con il ritiro delle truppe e degli armamenti russi dall’Ucraina.

7) Creazione di un Fondo Multilaterale per la Ricostruzione e lo Sviluppo delle aree distrutte e seriamente danneggiate dell’Ucraina, un fondo al quale la Russia è chiamata a concorrere sulla base di predefiniti criteri di proporzionalità. (L’esperienza storica del Piano Marshall è di aiuto a tale riguardo).

Ho motivo di ritenere che una proposta del genere, se opportunamente presentata e saggiamente gestita per via diplomatica, possa essere favorevolmente accolta dalle parti in conflitto. Forse l’ostacolo maggiore per una pace negoziata è la paura della negoziazione stessa. I politici e i capi di governo, infatti, temono di essere percepiti dalle rispettive constituencies o come pacifisti ingenui oppure come opportunisti con secondi fini. (…) Ecco perché, in una situazione come l’attuale, il ruolo dei costruttori di pace è fondamentale. La mobilitazione della società civile internazionale tesa a dare vita a una 'Alleanza per la Pace' è oggi, una iniziativa urgente e altamente meritoria.

* Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali 

- 21 settembre 2022         ( da Avvenire.it )

 

 

25 settembre 2022

Elezioni, programmi, progetti. Ma una vera alternativa non c’è.

di Massimo Marino

La crisi sociale e ambientale richiede un movimento radicale che occupi il centro e offra alla maggioranza della società un programma riformatore che non hanno né destra né sinistra.

Le elezioni politiche e quanto ne seguirà nei cinque anni successivi dipendono da molti fattori, ma soprattutto da tre che hanno grande influenza sugli elettori:

* Il programma elettorale di chi si presenta. Anche se si spinge alla personalizzazione della politica forse aspirando al modello miss Italia, un modo per portare alla distrazione di massa sulle scelte che contano, il programma annunciato ha ancora un peso. Conta quanto è credibile rispetto al comportamento precedente del partito o coalizione di partiti che lo diffondono. I partiti italiani specie in questa fase presentano programmi elettorali fasulli, praticamente inattendibili. Se davvero si provasse ad attuarli in molti casi le conseguenze sarebbero disastrose.

La scarsa credibilità e fiducia è una delle cause principali dell’astensionismo.

Anche le stesse coalizioni pre-voto, inventate con il rosatellum sulla scia dei sistemi maggioritari dagli anni ‘90, sono volatili. Una presa in giro degli elettori. Il mattino dopo il voto risulteranno in gran parte archiviate.   I contaballe però, se non sono particolarmente abili tendono ad essere duramente puniti dagli elettori più arrabbiati. Che non sempre si fanno male da soli con l’astensionismo.

Mi sono convinto con il tempo che l’idea stessa delle coalizioni pre-voto in presenza di maggioritari e uninominali soprattutto, sono veri e propri raggiri consapevoli degli elettori. Di fatto non c’è un programma comune davvero definito: quello che si concorda sono i posti nel governo (che sono almeno un centinaio solo al vertice) e la salvaguardia di qualche parola d’ordine. Quindi il primo problema è quello di esprimere programmi credibili che provochino un consenso largo e coesione sociale e vengano poi attuati o almeno si provi a farlo con impegno.

In Germania le coalizioni di governo sono di tutti i colori, come è giusto che possa essere, ma nascono dopo il voto ricercando le convergenze su un programma comune di mediazione a volte approvato dopo mesi di cucitura e con il voto di approvazione degli iscritti. I Grünen, ad esempio, partecipano alle più diverse coalizioni, esclusa solo quelle con l’estrema destra, e senza accordi abbastanza chiari sul programma a volte decidono di restare all’opposizione.

** Il sistema elettorale. Ha spesso aspetti nascosti in genere non compresi da molti elettori ma rilevanti per influenzare il voto e determinare i vincitori. Si misura la sotterranea ma decisiva alternativa fra proporzionale (che tende a tutelare il voto espresso) e maggioritario (che a diversi gradi tende a condizionare o cancellare parte dei voti). L’imposizione forzosa del bipolarismo nasce dal tacito accordo fra i primi (presunti) due che tendono a cancellare il voto di tutti gli altri. È un raggiro degli elettori che però non sempre riesce e qualche volta può volgersi al suo contrario (in Italia è avvenuto nel 2018).

*** Il sistema dei media che contano. Oggi sono carta, tv e radio (e la loro proiezione sui social). Da anni in Italia sono pressoché totalmente in mano a ristrettissimi gruppi di potere, chiamati “editori impuri”. Nel nostro paese il ruolo dei media è particolarmente strabordante e arrogante ma in realtà del tutto subalterno. Arroccati su uno schema bipolare, che non esiste nella società reale, non tollerano novità e cambiamenti e quindi nessun progetto che si ponga in alternativa all’esistente. Non per nulla ci sono almeno un centinaio di esponenti dei media (quelli della prima linea del fronte) che per il ruolo di fiancheggiamento che svolgono vengono pagati quanto o più (a volte molto di più) di un parlamentare o di un ministro della Repubblica. Che siano orientati verso il CENTRO-sinistra o il CENTRO-destra ha poco rilievo. Di fatto sono i primi garanti della stabilità sostanziale del sistema e dei suoi centri di potere economico e finanziario. Naturalmente i redattori dei media sono liberi nelle loro opinioni rispetto agli editori compreso quello pubblico. Opinioni che però devono restare nel perimetro della libertà vigilata: se ne esci semplicemente ti trovi disoccupato.   

Dalle nostre parti la chiamano democrazia e libertà dell’informazione.

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Nell’appuntamento elettorale di questi giorni questi tre aspetti (i programmi, le regole del voto, il ruolo dei media) rispetto agli ultimi decenni risultano particolarmente degradati. Non sono le nostre sventure, in parte comuni ad altri paesi, che rendono questo clima elettorale così “insano” (nel senso di Marlon Brando in Apocalipse now )

È che i diversi attori principali della saga della politica italiana, quelli che assumono il ruolo di governanti e quelli che assumono il ruolo di oppositori del momento non tollerano la possibilità che si ripresenti la situazione del marzo 2018 (e i suoi preannunci nel voto di Roma e Torino del giugno 2016). Cioè che un attore non previsto, relativamente estraneo a tutti i centri di potere (nell’economia, nelle istituzioni, nei media) occupi come primo attore la scena con la presunzione (senza averne probabilmente le forze, la cultura, l’organizzazione idonee) di modificare il canovaccio della storia che viene messo in scena da alcuni decenni, piegandolo a favore di quelli che normalmente sono le comparse di contorno ai primi attori. Le comparse si raccolgono nei poveri, nei precari, nei ceti medi declassati, ma anche in una parte della élite culturale preoccupata per il declino sociale, ambientale, corruttivo, clientelare, mafioso. Probabilmente sono più della metà della società italiana che a gradi diversi anela ad una alternativa ma non trova alcun soggetto stabilmente credibile, né nei partiti né nei movimenti organizzati della società e si disgrega quindi in mille rivoli compreso l’astensionismo elettorale. Così si diventa marginali fino a ridursi con l’astensionismo sociale ad una inconsapevole quinta colonna del conservatorismo.

La fatwa all’italiana contro i grillini è stata lanciata almeno cinque anni fa da destra e da sinistra e la condanna a morte del movimento per blasfemia sembra aver raggiunto gran parte dell’obiettivo (vedremo fino a che punto nelle settimane dopo il 25 settembre). I 5stelle sopravvissuti difficilmente saranno il partito più votato e con l’imbroglio del rosatellum ed il conseguente ricatto del voto utile saranno comunque sottorappresentati. Con questo obiettivo d'altronde avevano inventato il rosatellum.

Già cinque anni fa, nel 2017, scrivevo che non avrebbero mai permesso ai grillini di governare davvero, usando tutti i mezzi possibili.  Da parte loro questi hanno aggiunto davvero un eccesso di ingenuità e di fragilità culturale e organizzativa che hanno favorito l’autodistruzione.

Il tentativo di Conte ed un manipolo di altri, liberatisi di veleni e trasformismi, avrà più chance di ripresa tanto quanto più si accentuerà la totale autonomia dal tradizionale sistema di partiti e quanto più si avrà il coraggio di riordinare in forma meno precaria le connotazioni genetiche di nascita del Movimento e definirne una collocazione estranea agli schemi destra-sinistra. Una scelta chiara, che fino a ieri Conte e gli altri non hanno fatto. A destra e a sinistra un terzo polo al centro davvero riformatore, radicale e autonomo è uno scenario che terrorizza tutti.

Specie nella palude della politica italiana definire la propria collocazione diventa un fattore decisivo di chiarezza. Un movimento di alternativa non può che collocarsi al centro della società e delle istituzioni con un progetto di trasformazione che dia soluzione a disagi profondi che vengono da tutti i lati del sistema sociale indirizzandoli verso un futuro di convivenza solidale e di tutela e conversione ecologica. Non c’è praticamente quasi nulla di utile in quanto offrono le destre e le sinistre all’italiana per avviare davvero un percorso riformatore e di aggregazione popolare.

Un progetto di alternativa potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile da una grande maggioranza della società.

Non c’è alcun motivo di confondersi con le discutibili e confuse collocazioni a destra o a sinistra nella palude del frammentato panorama politico italiano compreso il modesto moderatismo di centro, malato di trasformismo da decenni, che di un centro radicale è geometricamente all’opposto. Attenzione: a destra, al centro, a sinistra, come oggi mediaticamente si rappresentano, si esprimono certo problemi reali che emergono dalla società, a cui di solito si dà risposte sbagliate o pericolose o nessuna risposta. A questi si affiancano problemi inesistenti o sovradimensionati utilizzati come armi di distrazione di massa. Di tutti però va tenuto conto, offrendo soluzioni più convincenti e adeguate a mantenere la coesione e la solidarietà sociale.  

In più occasioni ho sottolineato che una maggioranza disponibile al cambiamento si è manifestata come tale in varie occasioni, seppure in momenti circoscritti e in modo quasi casuale: i referendum del 2011 su acqua pubblica ed il secondo sul nucleare, il NO al referendum anti-Costituzione di Renzi del 2016, il sorprendente voto al M5S del 2018. Sono convinto che questa maggioranza riemergerebbe in modo prepotente se si tentasse davvero di demolire la carta costituzionale, ad esempio con l’aprire varchi al presidenzialismo che nel nostro paese è il modo surrettizio per demolire i fondamenti della Costituzione come è avvenuto in altri paesi europei.  Se questa maggioranza non si manifesta in modo stabile è per l’assenza di progetti e di soggetti credibili in grado di offrirne una rappresentanza istituzionale, una presenza territoriale virtuosa, una espressione programmatica e culturale capace di sintesi e di semplificazione che li renda comprensibili a tutti.

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Comunque vadano le elezioni del 25 settembre alla distanza si presenteranno due alternative che vanno in direzioni contrapposte. La prima, quella permessa dal possibile astensionismo sociale, ha caratteristiche elitarie, autoritarie, di erosione sostanziale dei principi costituzionali che in Italia fino ad oggi sono particolarmente avanzati. Che abbia caratteristiche “di destra o di sinistra” come si sul dire, è relativamente di poco peso se ci si mette nella prospettiva della crisi ambientale galoppante e delle difficoltà dello sviluppo democratico e dei diritti sociali in varie parti del mondo. (Sono consapevole che molti non condividono questa valutazione).

Si aprirà il varco a presidenzialismi magari inizialmente nella forma di un draghismo permanente, con la disgregazione del paese attraverso malintese autonomie locali differenziate, ulteriori privatizzazioni e marginalizzazione dello Stato in tutti i settori che producono reddito e ricchezza, subalternità ad attori esterni al paese, con il diffondersi di un ineluttabile fatalismo e indifferenza sulla crisi ambientale immaginando che le élite potranno sopravvivere e i deboli crolleranno. Tutti fenomeni disgregativi in realtà già presenti in altre aree del pianeta.

L’altra alternativa è quella che porta a maturazione progetti di alternativa che poco hanno a che fare con gli attuali schieramenti, coalizioni, programmini elettorali che io presumo vengano cancellati il giorno dopo il voto ritornando alla palude precedente. Non ho dubbi che si proverà prima di tutto a tornare al draghismo con Draghi in uno dei due palazzi istituzionalmente più significativi del paese oppure con una controfigura di rincalzo a garantire, se ci riesce, una apparente continuità.  L’alternativa invece ha bisogno prima di tutto di costruire le proprie basi in modo chiaro, semplice, comprensibile e realisticamente perseguibile nel tempo aggregando attori nuovi o con alleanze di programma senza legami indissolubili che non hanno alcuna ragione di essere stabiliti.

Accenno qui a una decina di punti, alcuni non sviluppati, che mi sembrano quelli essenziali su cui fare una riflessione, consapevole che in alcuni casi non sono presenti nella comune discussione ma possono essere invece utili a risolvere alcune delle più difficili fratture presenti nella società italiana.

1)        Serve un sistema elettorale rinnovato basato su uno schema proporzionale limitato da un quorum adeguato (5% almeno) utile a consolidare un sistema di partiti stabile, che elimini sia la finzione delle coalizioni che durano un mese, sia l’invenzione di partitini inesistenti in funzione di acchiappa voti. È la prima cosa da fare, estendendolo anche alle Regioni, contrastando anche le ipotesi di finto proporzionale con premio, con la balla della stabilità, che è il modo per ritornare daccapo alle alleanze di affari, non di programmi comuni). Il proporzionale limitato, nei suoi effetti concreti, è un sistema praticamente opposto al sistema proporzionale cosiddetto puro, con quorum zero o basso, dove proliferano micropartiti gregari o inventati che non hanno in realtà alcun peso se non quello di raccogliere qualche voto in più e soddisfare una patologica vocazione narcisistica di leader modesti. Il proporzionale con quorum restituirebbe dignità alla rappresentanza (tanti voti, tanti eletti). Produrrebbe fra l’altro in poco tempo un solido partito di sinistra vero e un significativo movimento politico di stampo ecologista oggi assenti.

L’annosa questione delle preferenze o delle liste bloccate, fra le quali è arduo definire quale ha i peggiori difetti, è un aspetto di scarso peso, agitato per nascondere il vero imbroglio del rosatellum che sono  gli uninominali. La questione può essere risolta con il compromesso dell’indicazione dal partito dei primi due nomi e del lasciare a due preferenze la scelta degli altri possibili eletti. Anche la dimensione di collegi o circoscrizioni (conseguente al numero totale di seggi prefissati) ha scarso peso. Tranne che per gli aspetti clientelari o mafiosi gli eletti in parlamento si occupano del paese intero, dei rapporti con l’Europa e delle questioni internazionali e del pianeta. Per il resto esistono come tramite sui temi locali gli eletti in comuni, provincie e regioni.

2)           La Conversione ecologica dell’intero sistema sociale e produttivo sembra ormai essere la strada obbligata per permettere la sopravvivenza delle generazioni future, tutte quelle che vivranno nell’arco di questo secolo che io chiamo generazione 100. La crisi climatica porta molte istituzioni internazionali a definire obiettivi al 2030 o al 2050. Alcuni vorrebbero far finta di niente immaginando di poter rimandare le scelte oltre la metà del secolo. Ho l’impressione come altri che invece in realtà la crisi ambientale proceda ad una velocità maggiore di quella che anche i meno ottimisti immaginavano. Comunque ciò sembra avvenire nell’area del Mediterraneo. La transizione ecologica è terreno di confronto e scontro già oggi specie per i paesi che più contribuiscono all’inquinamento del pianeta (l’occidente americano e quello europeo) anche se gli effetti nefasti colpiscono per primi i paesi meno sviluppati (gran parte dell’Africa e alcune zone dell’Asia). È passata quasi inosservata nelle settimane scorse la notizia che la concentrazione di CO2 in atmosfera, arrivata attorno ai 420 ppm nella prima metà dell’anno abbia toccato di recente punte superiori a 440 ppm. Venti anni fa si dava come limite di sicurezza 350 ppm ma si dà ormai per scontato che anche con grandi interventi ci vorrebbero decenni per ridiscendere sotto i 400 ppm.                                                                                                              

3)  La lotta alla povertà e alla precarietà è l’azione principale utile per riformare e risanare la società italiana. Non siamo di fronte a malattie endemiche o effetti di un destino sfortunato. La disuguaglianza sociale che si accentua è la condizione per produrre una minoranza che si arricchisce a sfavore di una consistente maggioranza che, a differenza di qualche decennio fa, tende a impoverirsi. Ribadisco: la condizione dell’arricchimento di una minoranza è che ci sia un impoverimento di una significativa maggioranza. Quale esempio migliore del prezzo del gas che esattamente un anno fa ha iniziato a salire?

Non è una novità ovviamente ma è patologico il grado di diffusione di questo dualismo nel nostro paese negli ultimi decenni.

- Siamo l’unico paese dell’Europa dove i salari si sono fermati negli ultimi 30 anni. L’unico in cui sono addirittura scesi (circa 3%) negli ultimi dieci anni: anche sotto alla Grecia e a tutti i paesi dell’est europeo.

- Fra i maggiori paesi siamo l’unico a non avere un salario orario minimo. La proposta 5stelle già presentata da sei anni è sempre stata boicottata da tutti. Incredibilmente anche dai sindacati principali che con strampalate obiezioni ritengono di perdere ruolo. Con una certa faccia tosta PD e altri, dopo averlo boicottato fino a ieri, hanno inserito il salario minimo nel programma elettorale. Sono favorevoli in tv e contrari nelle aule delle Commissioni parlamentari. Come per il rosatellum (al rovescio ovviamente). Altro che destra e sinistra ...

- La guerra contro il reddito di cittadinanza è cosa nota. Il RDC non coinvolge comunque, per il boicottaggio della Lega, decine di migliaia di rom e di immigrati regolari e stabilizzati. Serve la residenza da almeno dieci anni, il permesso di soggiorno di lungo termine. Sono quindi di nazionalità italiana almeno l’86% dei percettori e gli altri ricevono in media non più di 500 euro al mese.   Invece di correggerne i difetti, azzerarne gli abusi o trovare altre soluzioni minime per gli esclusi, si punta a cancellare il RDC. In Germania la crisi ha portato a estendere il sussidio in questi giorni. Dopo 17 anni Hartz-IV dal gennaio 2023 sarà sostituito dal “Bürgergeld“ un vero reddito di base, che si avvicina a quello italiano, con prestazioni aumentate, minori sanzioni e meno severe, ritenendo le attuali non conformi alla loro Costituzione. I beneficiari verranno trattati con maggior "rispetto" e "dignità".

È evidente che è necessario ridurre a non più di tre i contratti di lavoro: indeterminato, determinato, occasionale. Tutti comprendenti le tutele pensionistiche e sanitarie E’ anche necessaria una legge che regoli e riduca la formazione di sigle sindacali che oggi sono più di novecento. Utili solo per abbassare e indebolire il livello della contrattazione.

3)           I migranti e l’assenza di idee. In più occasioni, in particolare qui due anni fa, ho espresso l’opinione che non c’è alcuna destra né alcuna sinistra che abbia un progetto per affrontare in qualche modo il complicato problema delle migrazioni ed in particolare l’immigrazione di irregolari e di clandestini che è la forma prevalente di entrata nel nostro paese.

Qui faccio solo una sintesi di quanto penso. La destra sarebbe quella che risolverebbe il problema (!) chiudendo i porti e le porte e aggiungendo venature di xenofobia e antirazzismo che diventano esplicite in una parte dei loro sostenitori. La sinistra sarebbe quella che risolverebbe il problema (!!) aprendo porte e porti agli immigrati di qualunque tipo e provenienza, ritenendo irrilevante che centinaia di migliaia di irregolari (almeno 700 mila dal 2015 ad oggi) entrino e si disperdano nel paese, con scarsa attenzione al loro destino prima e dopo il loro tragitto di clandestini. Le ONG che intervengono in mare per salvare barconi e persone in difficoltà confondono una azione di volontariato umanitario con un progetto, ad oggi del tutto inesistente, di soluzione a lungo termine del problema. Contribuendo forse alla fine a peggiorare la situazione.

Il risultato è l’assenza di idee. Al massimo si è arrivati a finanziamenti ambigui con l’obiettivo di ridurre l’attività degli scafisti.

Sono sempre più convinto che l’unico tentativo che valga la pena di percorrere è quello di sostituire lo Stato e l’Europa agli scafisti, aprire qualche decina di strutture a fianco di ambasciate e consolati nell’Est Europa, in Africa e in alcune zone dell’Asia, attraverso le quali organizzare corridoi umanitari e strutture di ricezione e integrazione di alcune decine di migliaia di persone, che possiamo accogliere ogni anno e addirittura ci sono necessarie, garantendo un reddito minimo provvisorio di sopravvivenza, assistenza sanitaria, istruzione e formazione di base, avvio al lavoro in tutti i settori nei quali annualmente viene richiesta questa manodopera. Si stroncherebbero così tutti i canali dei percorsi irregolari che sono oggi molto diffusi. Il più noto è quello degli stagionali clandestini, arruolati in nero dai caporali e super sfruttati, ormai dilaganti dal sud al nord in tutto il paese. Per non parlare dei percorsi organizzati verso spaccio e prostituzione.

I corridoi umanitari potrebbero dare priorità ai più disagiati (in fuga da guerre e crisi ambientali) privilegiando nuclei famigliari (che invece lo scafismo distrugge), contrastando duramente gli ingressi irregolari, la clandestinità, il super sfruttamento. Riducendo i migranti economici ed esaurendo il ruolo dello scafismo attraverso il quale non si entrerebbe nel circuito di assistenza, tutela e integrazione. Simbolicamente il primo intervento potrebbe essere lo svuotamento dei centri di detenzione libici.

I corridoi umanitari esistono già da alcuni anni, non solo in Italia, praticati solo da alcune associazioni cattoliche (Sant'Egidio, Evangelici, Valdesi) con la collaborazione del Ministero dell’interno. Fra gli ultimi interventi, che hanno già coinvolto parecchie migliaia di persone, Libano, Siria e di recente Afghanistan. L’azione diretta dello Stato svuoterebbe le vie illegali e renderebbe più realistica la possibilità di una azione di tipo europeo che coinvolga tutti i paesi disponibili della UE.

4)           - La conversione ecologica dell’intera società ed economia (punto 2) resta una dichiarazione di principio se non avvia una fase di transizione che modifica ed in alcuni casi rovescia l’attuale modello sociale, formatosi nel secolo scorso ed oggi da superare al più presto. Si tratta di un percorso probabilmente inevitabile e più lo si rallenta più le difficoltà e i costi potranno diventare pesanti. Rimandando a interventi specifici i temi dell’Istruzione per tutti e della Sanità decentrata cito in sintesi tre aree che mi sembrano le più importanti:

a) - Abitare - Le abitazioni devono diventare autosufficienti con le rinnovabili dal punto di vista dei consumi energetici (illuminazione, servizi, riscaldamento) consumando energia dalla rete solo per una piccola parte e solo in alcuni momenti del giorno. Riversando nella rete l’eventuale surplus semplificando le procedure che hanno solo la funzione di boicottaggio dell’autogestione. Le nuove costruzioni e le ristrutturazioni devono prevedere forme di recupero delle acque piovane e l’ombreggiamento estivo diffuso al fine di azzerare l’uso di condizionatori energivori estivi. Tutti gli appartamenti devono prevedere terrazzi e/o aree esterne per piccole autoproduzioni alimentari. Tutti questi accorgimenti esistono già, seppure in zone limitate, in diverse parti del pianeta.

b) - Muoversi - Bisogna superare l’idea che il vettore più naturale e principale per muoversi sia l’auto. Ciò a prescindere se abbia motore endotermico, batterie elettriche, od altri futuri improbabili sistemi di alimentazione. L’auto è un retaggio del secolo scorso che non possiamo più permetterci se non nei momenti e per gli usi per i quali è indispensabile. Dobbiamo stravolgere completamente la mobilità singola e privata con la diffusione di reti metropolitane in tutte le grandi e medie città (sopra i 100mila abitanti). Le auto elettriche sono solo un diversivo e una fonte di finanziamento statale delle multinazionali del settore attraverso gli incentivi. Anche parecchi ambientalisti son plagiati dalla singolare idea che le elettriche e l’elettrico in sé siano sostenibili. Le elettriche attuali, il cui mercato italiano negli ultimi mesi è addirittura in flessione, vanno per lo più a petrolio, gas e carbone sebbene con emissioni differite alla fonte nelle centrali. Nei prossimi dieci anni servirebbe la costruzione di un migliaio di km di rete metro in una quindicina di grandi città italiane. Ho stimato un costo di 10 mld all’anno ma i risparmi degli utenti oltre ai vantaggi ambientali, di tempo e di stress sarebbero maggiori anche pagando una tassa annuale per la libera circolazione sulla rete. Inevitabilmente alcune multinazionali distribuirebbero dividendi un po’ minori ai propri azionisti.

c) - Mangiare - Sebbene sembri singolare il primo obiettivo da raggiungere nel campo della alimentazione è quella di riequilibrare le diete degli italiani per combattere l’obesità. Il secondo obiettivo è quello di garantire una alimentazione sufficiente per tutti. Il terzo obiettivo è quello di ridurre alla metà il consumo di carni (specie quelle rosse) e ridurre, diradare, e migliorare le condizioni degli allevamenti intensivi. Nell’insieme si dovrebbe spostare la produzione di cereali di vario tipo dal consumo animale al consumo umano e avvicinare il più possibile i luoghi della produzione e quelli del consumo (io la chiamo autarchia ecologista, di solito si chiama km zero). 

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La disgregazione del M5S che è iniziata già 5 anni fa ci insegna che non basta avere un progetto generico ed alcuni obiettivi del tutto condivisibili di tipo solidale orientati ad un cambiamento della società e auspicare un percorso di conversione ecologica.  Sono state sottovalutate le reazioni di chi è ostile e la necessità di avere un gruppo dirigente in grado di rispondere alle aggressioni dei media in modo organizzato e con propri strumenti mediatici all’altezza dello scontro. Ci si è affidati alle efficaci battute di Grillo, finché ha retto, o all’idea che con Roussou si potesse sostituire un dibattito interno meticoloso con periodiche consultazioni on line preparate da.. nulla.

E’ stato un grave errore (credo di Di Maio) cadere ingenuamente in trappole come quella di ottenere la riduzione dei parlamentari ( invece di ridurre l’indennità e contenere la riduzione del numero) senza contemporaneamente depotenziare il rosatellum. Senza l’eliminazione dei collegi uninominali, delle coalizioni prevoto e senza l’imposizione di un quorum adeguato a evitare i partitini veri o finti aggregati ai due poli, era scontato lo scenario presente: il ricatto del voto utile, il bipolarismo forzoso, la proliferazione delle piccole sigle. La scelta del “soli contro tutti” non deve essere scontata.

La frammentazione politica non può essere trascurata come fosse irrilevante: è un segnale seppure distorto della frammentazione sociale. In assenza di un forte protagonista dell’alternativa si producono aggregati numerosi, di poco peso, fallimentari, che segnalano l’insufficienza di progetti convincenti. Si ripresenta il trasformismo senza pudori, la proliferazione dei cosiddetti “cambia casacca”, il prevalere di un eccessivo personalismo e narcisismo di piccoli leader di scarso peso.

Qualche mese fa indicando la frammentazione in corso ho contato circa 30 sigle che in modi diversi si dichiarano, pur con grande confusione “alternativi”. Qualche giorno dopo è comparso un intervento che allargando il campo comprendendo l’intero centrosinistra in senso lato arrivava a contare 50 sigle. Conteremo nei prossimi giorni quante centinaia di migliaia di voti verranno dispersi da liste che non eleggeranno nessuno, o magari pochi miracolati che in Parlamento non avranno, ne potrebbero avere, alcun peso se non quello del proprio stipendio. Voti dispersi che vanno aggiunti ai 10-12 milioni di voti che negli uninominali verranno cancellati totalmente dal rosatellum. Pochi se ne rendono conto ma praticamente è come se non si avesse votato e si fosse regalato il proprio voto ad altri. 

24 settembre 2022