Arbil 26 settembre 2017. Seggi chiusi
per lo storico referendum del 25 settembre nella Regione autonoma.
Nessun problema particolare, nemmeno
nelle aree contese, tra cui la città di Kirkuk, dove si temevano scontri
tra milizie peshmerga e arabe. Il risultato era scontato e non ha
tradito le aspettative: i “sì” per l’indipendenza da Baghdad e, quindi, allo
Stato curdo hanno stravinto. Secondo i primi dati della Commissione
elettorale con oltre il 78% di affluenza i “sì” ottengono circa il 93% dei
voti.
Del resto, buona parte del mito dei
curdi e dei peshmerga è nato proprio qui, nella resistenza contro il
regime di Saddam, che li ha a lungo repressi. E nelle strade della Regione
autonoma, già nelle settimane che hanno preceduto il referendum, il clima era
di grande euforia. La stragrande maggioranza di uomini e donne è convinta
che la separazione da Baghdad permetterà di superare la crisi economica e
sociale nella quale la Regione si dibatte ormai da anni, tanto per ragioni
contingenti, come la guerra contro lo Stato islamico (oltre ai costi militari
c’è da tener presente l’elevato numero di rifugiati iracheni che la Regione
automa ha dovuto ospitare: a oggi sono oltre il 30% della popolazione), che
strutturali (il bassissimo prezzo del greggio, in un’economia che vive quasi
esclusivamente della vendita del petrolio, ha negli ultimi anni azzerato le
entrate del governo).
Quali scenari apre questo
referendum? Forse, al di là delle dichiarazioni degli ultimi giorni dei leader
politici curdi e di quelli internazionali, questo voto sembra
caratterizzarsi esclusivamente come una manovra interna alla Regione autonoma,
che rischia di cristallizzare gli attuali rapporti di forza interni, impedendo
un’evoluzione del contesto politico verso forme più mature, democratiche e
autenticamente rappresentanti delle nuove istanze che pure stanno emergendo, ad
esempio tra i più giovani.
Innanzitutto il referendum: al
centro c’è l’indipendenza, ma di quale Kurdistan? Quello del sud, il Kurdistan
iracheno, in pratica dell’attuale Regione autonoma, costituita dai tre
governatorati di Arbil, la capitale, Dohuk e Sulaymaniyya (in pratica il nord
dell’attuale Iraq), tutt’altra cosa dal “grande” Kurdistan, lo Stato promesso
dagli Inglesi dopo la Prima guerra mondiale, che riunificherebbe tutti
curdi, compresi quelli che attualmente vivono in Turchia, Siria e Iran, e che
pure campeggiava su gran parte dei manifesti elettorali. Nemmeno è ipotizzabile
la nascita di un movimento pancurdo, innanzitutto proprio per le
rilevanti e profondissime divisioni nella compagine politica curda, con il partito
attualmente egemone ad Arbil, il Partito democratico del Kurdistan (PDK) del
presidente Barzani che ha più volte represso gli stessi curdi del PKK turco ed
è con gli anni diventato un alleato e un sicuro partner commerciale del governo
di Ankara.
Dunque, l’indipendenza è da Baghdad,
con la quale i curdi condividono dal 2005 la Costituzione, che ha garantito
loro lo status di Regione autonoma: nei fatti
sono quasi una realtà statuale autonoma, con milizie proprie (i peshmerga
che, sostenuti da americani ed europei, hanno svolto un ruolo centrale nella
lotta contro lo Stato islamico) e istituzioni quasi sovrane. Perché, dunque,
scegliere di effettuare proprio ora il referendum?
La decisione è stata assunta dal
presidente Barzani, la cui legittimità è contestata da altri partiti curdi: il
suo mandato è scaduto nel 2013 (dopo il limite dei due mandati) ma è stato
prorogato per due volte, illegittimamente a sentire le opposizioni. Tuttavia,
nel corso della guerra allo Stato islamico, Barzani ha potuto giovarsi della
più classica delle situazioni di emergenza, rinviando la soluzione della crisi
istituzionale alla fine della guerra. La liberazione di Mosul, però, ha
allontanato la minaccia dello Stato islamico, almeno per gran parte dei confini
curdi.
Il presidente curdo ha allora scelto
di utilizzare la questione nazionale per proporsi come unico leader curdo in
grado di trattare con Baghdad e dar vita a uno Stato curdo. L’annuncio ha
funzionato: in maggioranza il popolo curdo, che desidera ardentemente non
avere più niente a che fare con Baghdad, il governo che per anni lo ha represso
in modo spietato, si è schierato con Barzani e i partiti di opposizione hanno
potuto fare ben poco. Inizialmente avevano tentato di contestare la
legittimità stessa del referendum (convocato dal presidente della Regione e non
dal parlamento, i cui lavori sono stati bloccati dallo stesso Barzani per
anni), hanno dovuto infine accodarsi. Un uso quantomeno spregiudicato della
questione nazionale, permette al presidente curdo di prorogare l’emergenza
istituzionale per i prossimi anni, facendo del suo partito il motore politico
della Regione: lo si è visto anche a Sulaymaniyya, storica sede dei partiti
alternativi al Pdk (Il Partito democratico del Kurdistan), quando Barzani ha
radunato per un suo comizio miglia di curdi, palesando così, plasticamente,
l’unità del popolo curdo. Barzani può ora tentare di capitalizzare il successo
al referendum per vincere anche le prossime elezioni per il Parlamento (che ha
fissato per novembre) e poter guidare le trattative con Baghdad.
Il referendum, infatti, ha un valore
simbolico – altissimo, per i curdi, che da giorni festeggiano quello che è un
giorno atteso da decenni – ma è un fatto interno, che, a detta dello stesso
Barzani, non ha effetti immediati nel rapporto con l’Iraq e la comunità
internazionale. Il modello è quello della Brexit: saranno, quindi,
aperte trattative con il governo centrale che dureranno, parole dello stesso
Barzani, non meno di due anni.
Ecco quindi che il referendum
mette una seria ipoteca sulla possibilità di trasformazione ed evoluzione del
sistema politico curdo: contiamo di essere smentiti, ma il rischio è di una
prosecuzione del conflitto politico tra le storiche forze politiche del
Kurdistan meridionale, incapaci sin qui di individuare proposte valide per
uscire dalla crisi come pure sempre più distanti da una nuova generazione di
curdi che, nata dopo il 1990, dunque dopo la liberazione della Regione, non
vive più l’indipendenza come un elemento centrale (perlomeno non l’unico) per
affermare i propri diritti e la propria cultura.
Tra i grandi problemi, oltre a
quello dei proventi del greggio degli ultimi anni, sui cui da tempo si registra
una lite tra il governo di Baghdad e quello di Arbil, quello che più peserà
nelle trattative ci sono le aree contese, zone forzatamente arabizzate da
regime di Saddam e reclamate dai curdi, tra cui Kirkuk, ricchissima di petrolio.
Tante incognite restano, dunque, ancora da verificare: ed è probabile che nelle
prossime settimane all’euforia di questi giorni si sostituirà il ritorno della
contingenza pressante della crisi economica e sociale. Il popolo curdo,
tuttavia, potrebbe sorprendere nuovamente. Nel frattempo, però, i curdi
iracheni, almeno per qualche giorno, possono festeggiare. Ne hanno tutto il
diritto.