3 giugno 2023

Legambiente esce dal Patto per il clima e il lavoro dell’Emilia Romagna

 Dopo il botta e risposta tra sindaco di Ravenna e ambientalisti, anche in Regione volano stracci. Legambiente Emilia-Romagna decide di uscire dal Patto per il Lavoro e il Clima della Regione Emilia-Romagna, dopo un’esperienza durata due anni e mezzo.

di Linda Maggiori *

Il punto di non ritorno, è stato proprio il rigassificatore di Ravenna. Contestato anche il Piano Integrato dei Trasporti (Prit) e il Piano Rifiuti (Prrb), nonché la legge urbanistica che «non ha consentito di interrompere il consumo di suolo in Emilia-Romagna, i processi di copertura e impermeabilizzazione del suolo proseguono a ritmi elevati e i casi di grandi espansioni delle superfici urbanizzate non si sono fermati.

Resta particolarmente critico il tema dei poli logistici», ricorda Legambiente che entra così nella nutrita schiera delle associazioni che hanno ripudiato o mai firmato il Patto per il Lavoro e il Clima, ideato nel 2020 da Schlein quando era assessora regionale con deleghe al Welfare e appunto al Patto per il Clima.

«Come Reca (Rete emergenza climatica ambientale) che raggruppa oltre 80 associazioni in tutta la regione – spiega Viviana Manganaro – dopo aver contribuito al Patto con 700 pagine di osservazioni totalmente ignorate, ci siamo rifiutati di firmare. I fatti purtroppo ci hanno dato ragione. Non solo il patto era inconsistente ma non è stato rispettato nemmeno quel poco che era stato promesso. Con Legambiente abbiamo presentato 4 leggi regionali di iniziativa popolare, che dopo il termine di 6 mesi non sono ancora state discusse nelle commissioni consiliari».

Gelida invece la replica del sottosegretario alla presidenza della Regione Davide Taruffi: «Quella di Legambiente è una decisione che lascia stupiti e perplessi. Nel merito e per il fatto di averla appresa da una conferenza stampa».

Reca, Legambiente e altre associazioni ambientaliste si danno appuntamento il 9 giugno, a Bologna, alle 17 in Piazza Nettuno, per la manifestazione Scatena le Rinnovabili.

* da il manifesto - 3 giugno 2023

 

29 maggio 2023

Spagna, come sono andate le Comunali e perché sono così importanti. Il trionfo dei Popolari, l’allarme dei socialisti, la crisi di Podemos. E lo “spettro” di Vox cresce

di Elisa Tasca (FQ  29 Maggio 2023 )

L’espressione più indicata per descrivere il risultato delle elezioni amministrative spagnole l’ha utilizzata il presidente socialista uscente della comunità di Aragón, Javier Lambán, che ha definito l’avanzata dei popolari nei governi locali e regionali come uno “tsunami”. Questa domenica, infatti, la Spagna si è colorata di azzurro, dopo la vittoria dei indiscussa del Pp con più di 7 milioni di voti, contro i 6,3 dei socialisti. Gli spagnoli sono stati chiamati alle urne per scegliere i rappresentanti di 12 comunità autonome e 8.087 comuni, nella prima grande giornata elettorale dopo la pandemia. In molte località il margine di vittoria è stato di poche migliaia di voti e sarà necessario aspettare gli accordi post elettorali. Tuttavia, le tendenze di queste elezioni sono chiare: Ciudadanos sparisce dalla mappa politica e i suoi voti vengono assorbiti, quasi totalmente, dai popolari. Vox migliora in molte località e assume un ruolo chiave per permettere a popolari di governare in diversi municipi e comunità. Il Psoe peggiora le sue aspettative a sei mesi dalle elezioni generali, e Podemos riduce radicalmente la sua rappresentanza in diversi municipi e comunità.

I risultati principali

Il risultato più atteso di queste elezioni era quello della Comunità Valenciana, un bastione socialista che è passato nelle mani del Pp (40 seggi) che avrà però bisogno di Vox per poter governare. Lo stesso è accaduto in Extremadura, dove il Psoe è stato il partito più votato ma non ha raggiunto la maggioranza assoluta, che invece raggiungono i popolari insieme a Vox (28+5), Aragón (28 seggi del PP e 7 di Vox), Baleari (25 PP, 8 Vox) e Cantabria (15 PP e 4 Vox). Ne La Rioja e nella comunità di Madrid, invece, il Pp ha ottenuto la maggioranza assoluta (con 17 e 71 seggi rispettivamente) e la governatrice riconfermata Isabel Dìaz Ayuso potrà governare in autonomia, così come nel governo municipale della capitale spagnola (con 29 seggi) che ha ribadito il consenso per il sindaco José Luis Martínez-Almeida. Il Psoe ha mantenuto il governo della comunità di Castiglia La Mancha con un solo seggio di differenza (17) rispetto alla somma di Pp e Vox (16).

Tra le città più importanti in cui si è votato, il Pp recupera Siviglia e Valencia, dove però avrà bisogno di Vox. A Barcellona si dovrà aspettare il post elezioni per sapere chi governerà la città. Xavier Trias, candidato di Junts per Catalunya (indipendentisti di centrodestra, 11 seggi), è stato il più votato. Dopo di lui il socialista Jaume Collboni (10 seggi) e Ada Colau (9 seggi). La sindaca uscente, portabandiera di Barcelona en Comù (area Podemos), non potrà ripetere il mandato ma sarà fondamentale per scegliere chi sosterrà tra i due candidati a sindaco.

Verso le elezioni politiche di fine anno

La campagna elettorale per le elezioni di questa domenica è stata atipica. I temi di dibattito su cui i candidati si preparavano a discutere – salute, istruzione, mobilità tra gli altri – sono stati completamente offuscati dalle polemiche sulle liste del partito regionale basco Bildu e da diversi casi di brogli elettorali. La campagna, fin dall’inizio, si è giocata non a livello locale ma nazionale, con il leader popolare Alberto Nuñez Feijóo deciso sul condannare gli accordi tra il governo e la formazione basca e Pedro Sánchez che approfittava degli incontri elettorali per annunciare una raffica di nuove misure sociali (come il cinema a due euro per gli over 65).

Tuttavia i risultati di questa tornata elettorale suggeriscono alcune tendenze con le elezioni generali alle porte. Ai comizi municipali del 2019, in un momento di profonda crisi, il Partito Popolare aveva ottenuto 1,6 milioni di voti in meno rispetto ai socialisti. In quel momento, però, nello spazio politico della destra c’era una terza formazione, Ciudadanos, i cui voti, come previsto, sono stati assorbiti quasi totalmente dai popolari in questa tornata elettorale. Ciudadanos, che era arrivato​​ nel 2019 a essere la terza forza nel Congresso dei Deputati, solo dopo Psoe e Pp, ha decretato questa domenica la sua morte politica, che verrà verosimilmente certificata dalle elezioni generali di fine anno.

L’ultradestra di Vox migliora i suoi risultati e si converte in una forza politica determinante per i popolari per poter governare diversi municipi e comunità autonome. Si consolida nelle istituzioni municipali e regionali e l’interrogativo ora è se questo scenario si possa verificare fra sei mesi alle elezioni politiche, nel caso di una vittoria del Pp senza maggioranza assoluta. Feijóo ha ripetuto in diverse occasioni che non permetterà a Vox di entrare nei governi guidati dal PP ma il partito di estrema destra, con i risultati di questa domenica, alzerà la voce per ottenere rappresentanza istituzionale. Questo scenario ricorda quando Feijóo arrivò a presiedere il partito dopo la defenestrazione del precedente leader, Pablo Casado. Si erano appena celebrate le elezioni anticipate in Castilla e Leon, dove Vox è entrato nel governo regionale guidato dai popolari. In quel momento il leader gallego prese le distanze da questa scelta, scaricando la responsabilità politica dell’accordo sul presidente regionale, Alfonso Fernández Mañueco. Ora però i territori in gioco sono molti e lo scenario più probabile è che il centrodestra a guida “moderata” dovrà cedere alle richieste di Vox per poter governare.

Oltre a Ciudadanos, anche Podemos ha subito una forte debacle e ha perso rappresentazione in diversi governi municipali e regionali: a Madrid, per esempio, non ha superato la soglia di sbarramento né nel municipio, né nella comunità. I pessimi risultati di Unidas Podemos si spiegano in parte anche per la frammentazione dello spazio politico a sinistra del Psoe. Il lancio della formazione della vicepresidente del governo e ministra del Lavoro, Yolanda Diaz, ha provocato una certa tensione tra le formazioni che non hanno ancora deciso se si presenteranno insieme alle elezioni generali (Diaz non si è candidata alle regionali). Un problema che gli analisti avvertono da tempo e che si riflette nei sondaggi. L’ultimo di 40dB, pubblicato a inizio maggio e realizzato per El Paìs e la Cadena SER, include anche Sumar, la nuova formazione lanciata da Yolanda Diaz. Quest’ultima non ha partecipato a queste elezioni ma si candiderà alle Politiche. Secondo le stime, potrebbe arrivare a essere la quarta forza politica. Tuttavia, la divisione tra Podemos e Sumar – anche per i meccanismi della legge elettorale che premia i partiti più grandi – provocherebbe una perdita importante di seggi per la sinistra.

Inizia una nuova campagna elettorale, tra delusione ed euforia
Le reazioni ai risultati di queste elezioni riflettono la situazione della politica spagnola attuale. Da un lato il Psoe ha riconosciuto la sconfitta, affermando che da domani “si metteranno al lavoro da subito” per analizzare cosa è andato storto e cambiare strategia. Nella sede di Ciudadanos non hanno potuto far altro che constatare la quasi estinzione del partito che sicuramente non sopravviverà alle generali, e in Unidas Podemos hanno riconosciuto il fallimento di queste elezioni, andate forse peggio di come credevano, in cui hanno perso parte della loro rappresentanza.

Nella sede di Vox invece regnava la soddisfazione, coscienti di essere diventati decisivi per il Pp. La festa più grande, però, l’hanno vissuta i popolari davanti alla loro sede con centinaia di elettori che hanno atteso l’uscita del sindaco di Madrid, José Luis Martinez Almeida, della presidenta della comunità, Isabel Diaz Ayuso, e del leader del partito Feijóo. In un clima di euforia, in cui tutti gridavano all’unisono “presidente, presidente”, il leader gallego ha affermato che questa giornata segna “l’inizio di un nuovo ciclo” che terminerà con le elezioni di fine anno. In queste settimane si conosceranno gli accordi politici che governeranno comuni e regioni. Quel che è certo, però, è che nei prossimi sei mesi il Paese vivrà in un costante clima elettorale. Da oggi, infatti, inizia la campagna per le elezioni generali di fine anno, durante la quale tutti gli occhi saranno puntati sulla Spagna, che dovrà anche presiedere il semestre europeo.

 

Voto di scambio, decine di inchieste e pioggia di arresti in Spagna per le Comunali: scandalo bipartisan, coinvolti socialisti e popolari

di Elisa Tasca ( FQ del 26 Maggio 2023 )

Nelle due settimane di campagna elettorale per le elezioni comunali e regionali del 28 maggio i temi di dibattito su cui si sarebbero dovuti confrontare i candidati, come la salute, la questione abitativa e la mobilità sostenibile, sono passati in secondo piano. Se nella prima settimana Eta è stata la protagonista, in questi ultimi sette giorni non si parla d’altro che dei numerosi casi di brogli elettorali nel voto via posta, che si sono moltiplicati in diversi comuni spagnoli chiamati alle urne. Fino a ora, sono una decina le inchieste aperte in diversi territori: Melilla, Zamora, Huelva, Almería, Murcia, Alicante e Santa Cruz de Tenerife. Lo scandalo implica soprattutto due partiti, il Partito socialista e il Partito Popolare, con arresti tra le fila dei candidati.

Il voto via posta

 In Spagna, a differenza che in Italia, il voto per corrispondenza è possibile. Dal 4 aprile al 18 maggio era possibile infatti richiedere di votare via posta per le elezioni municipali e regionali del 28 maggio. Come funziona? Una volta ricevute le schede elettorali corrispondenti a ogni partito, l’elettore deve inserire nella busta inviatagli la scheda del partito che vuole votare (nel caso in cui si decida di votare in bianco, non deve inserire nessuna scheda). Una volta terminato questo procedimento, la busta deve essere consegnata presso un ufficio postale o inviata via posta certificata almeno tre giorni prima della giornata elettorale. Il giorno delle elezioni, Correos (le poste spagnole) invia ai seggi elettorali corrispondenti le buste elettorali, che vengono inserite nelle urne al termine delle votazioni e prima degli scrutini. Per votare via posta viene richiesto il documento d’identità. Tuttavia, quando si depositano le schede elettorali all’ufficio postale o quando si inviano non viene richiesta nessuna identificazione, e chiunque può depositare il voto di un altro elettore. Questo è uno dei principali problemi che aumenta il rischio di possibili brogli elettorali.

Decine di inchieste aperte e molti arresti

Lo scandalo dei presunti brogli elettorali è iniziato a Melilla, quando l’8 maggio sono state rubate decine di schede elettorali che i postini stavano consegnando agli elettori e che sono state successivamente annullate. Dopo il furto, i sospetti sono cresciuti dato che si è notato un aumento anomalo delle richieste di voto via posta. Grazie a un’inchiesta della Polizia Nazionale, si è scoperta una trama mafiosa che ha portato all’arresto di una decina di persone – ora poste in libertà vigilata – tra cui un consigliere del governo della città autonoma del partito Coalizione per Mellilla. Come spiega El País, a cittadini “vulnerabili” venivano offerti tra i 50 e i 200 euro. Gli elettori avrebbero dovuto richiedere il voto via posta, presentando il loro documento d’identità, e una volta ricevuta la documentazione l’avrebbero girata al gruppetto in cambio di denaro. Con le schede elettorali in mano, poi, gli arrestati avrebbero dato il voto al miglior offerente tra i partiti. In seguito a questi scandali, la Junta Electoral Central ha comunicato che gli uffici postali di Melilla avrebbero richiesto il documento d’identità anche per depositare il voto.

Vicenda simile è stata scoperta a Mojácar (Almería) e ha portato all’arresto di 7 persone, tra cui due candidati del Psoe. In questo caso, agli elettori veniva richiesto di depositare personalmente il voto all’ufficio postale, dopo aver controllato che la scheda elettorale inserita fosse dei socialisti. A Huelva – racconta ElDiario.es – è stato invece proprio il Partito socialista a denunciare il Partito popolare e il comune di Villalba del Alcor, guidato dai popolari, che avrebbero gestito direttamente la richiesta di voto via posta di vari elettori.

A Zamora il Psoe ha denunciato il candidato sindaco di Zamora Sí del comune Moraleja de Sayago per aver presumibilmente manipolato il voto via posta di circa 50 anziani di una residenza. Ad Albudeite (Murcia) sono scattati 13 arresti, tra i quali figura la candidata sindaca del Psoe, e un’altra candidata dello stesso partito. Altre inchieste sono in corso a Mazarrón (Murcia) e a Bigastro (Alicante): in questi casi sono stati coinvolti esponenti del Partito Popolare.

Spagna, ex terroristi dell’Eta candidati alle amministrative. L’azzardo basco monopolizza il dibattito, Sánchez: “Legale ma indecente”

di Elisa Tasca ( FQ 21 Maggio 2023 )

Nessuno si sarebbe aspettato che la prima settimana di campagna elettorale per le elezioni amministrative in Spagna si sarebbe conclusa con un solo tema al centro del dibattito, l’ETA. Da giorni non si parla d’altro. L’organizzazione terrorista dei Paesi Baschi, che 12 anni fa annunciò la fine della lotta armata e cinque anni fa la sua dissoluzione, è diventata la protagonista dei dibattiti dopo che il partito basco EH Bildu aveva presentato una lista di candidati municipali che includevano 44 ex membri di ETA, compresi sette condannati per delitti di sangue. Bildu è una coalizione di partiti indipendentisti baschi fondata nel 2012, che comprende Eusko Alkartasuna, Aralar, Alternatiba e Sortu, successore di Batasuna, il braccio politico di ETA. È un partito legale, nel cui statuto rifiuta qualsiasi forma di violenza, anche quella terrorista. Di fronte alle durissime critiche del governo, dei collettivi di vittime del terrorismo e dell’opposizione, i sette candidati hanno annunciato che in caso di elezione rinunceranno all’incarico. Tuttavia, il Partito Popolare (PP) ha approfittato della situazione, in particolare la candidata alla Presidenza della Comunità di Madrid, Isabel Díaz Ayuso, che ha portato la polemica all’estremo. “ETA è viva”, ha detto lo scorso giovedì, inorridendo i familiari delle vittime.

La presenza di ex membri di ETA nelle liste elettorali di Bildu nei Paesi Baschi e in Navarra, denunciata dal Collettivo di Vittime del Terrorismo (Covite), ha colto di sorpresa il presidente del Governo, Pedro Sánchez, che si trovava in viaggio negli Stati Uniti per un incontro con Joe Biden. Dalla Casa Bianca ha affermato: “Esistono cose che possono essere legali, ma che non sono decenti, e questa è una di quelle (…) l’unica cosa che possono apportare queste persone alla vita pubblica è un messaggio di perdono, di riparazione e di pentimento”. Il collettivo Covite ha denunciato subito in un comunicato la gravità della decisione del partito definendola “un pericolo per la democrazia”. Con le dichiarazioni di Sánchez, il governo sperava di chiudere la questione il prima possibile e di ritornare alle promesse elettorali. Al contrario, era solo l’inizio di una polemica che ha assunto fin da subito scopi elettorali. Il Partito Popolare, attraverso il suo dirigente Alberto Nuñez Feijoó, non ha tardato a ricordare pubblicamente gli accordi del governo con Bildu che durante la legislatura hanno permesso di adottare leggi importanti: l’ultima fra tutte, quella sulla casa. Il partito ultra Vox, invece, per l’ennesima volta ha chiesto a gran voce di rendere illegale il partito basco.

Di fronte alle critiche, Bildu ha fatto marcia indietro. In una lettera pubblicata nel giornale Naiz, i sette ex membri di ETA condannati per delitti di sangue e presenti nelle liste elettorali hanno annunciato che rinunceranno all’incarico nel caso venissero eletti. Alla decisione dei membri di Bildu, è seguita la risposta della giustizia, interpellata dall’associazione di vittime Dignità e Giustizia sull’inclusione di ex terroristi nelle liste, che ha confermato l’eleggibilità dei candidati dato che avevano già scontato la loro pena e gli anni di inabilitazione. Di nuovo, quando si credeva possibile voltare pagina e abbandonare la polemica, i toni si sono inaspriti, soprattutto con l’insistenza di Isabel Díaz Ayuso che reclama la messa al bando di Bildu, esattamente come fa Vox. Tuttavia gli stessi popolari escludono questa possibilità dato che la giustizia si è già pronunciata al riguardo, stabilendo che il partito basco è una formazione democratica. In un incontro con i giornalisti, Ayuso ha difeso così la sua posizione: “Bildu non sono gli eredi di ETA; è ETA (…) ETA è viva, è nel potere, vive dei nostri soldi, minaccia le nostre istituzioni, vuole distruggere la Spagna, e privare a milioni di spagnoli dei loro diritti costituzionali”.

Le dichiarazioni della presidenta hanno inorridito le vittime del terrorismo che non sono rimaste in silenzio. Pablo Romero, giornalista, figlio del tenente colonello Juan Romero Álvarez assassinato da ETA nel 1993 a Madrid, ha scritto in un tweet, rivolgendosi ad Ayuso: “La smetta di dire queste atrocità. Mi risparmi il dolore di sentire che ETA continua a vivere. Glielo chiedo per favore, se davvero vuole rispettare le vittime del terrorismo che lottano per la memoria e per la giustizia”. Anche Consuelo Ordoñez, presidente di Covite e sorella di Gregorio Ordoñez, deputato popolare del parlamento basco assassinato da ETA a San Sebastian nel 1995, ha risposto alla candidata del PP. “È la banalizzazione allo stato puro, non rispettano i morti, non rispetteranno i loro familiari”. Alle critiche si è unita anche Maria Jauregui, figlia di Juan Maria Jauregui, politico socialista assassinato da ETA nel 2000 a Tolosa, che ha criticato Ayuso per la mancanza di rispetto verso le vittime: “Non vale tutto in politica. È indecente”, ha dichiarato.

 

22 maggio 2023

Alluvione in Emilia-Romagna e Marche: le 5 richieste di Legambiente al governo Meloni

 Negli ultimi 20 anni è mancata una seria politica di governo del territorio e i 10,6 miliardi di euro per la prevenzione sono stati spesi in modo inefficace. Italia ancora una volta fragile e impreparata di fronte alla crisi climatica. Sono 6,8 i milioni di cittadini a rischio alluvione

In questi giorni difficili per l’Emilia-Romagna e le Marche colpite da una violenta alluvione, Legambiente esprime la sua vicinanza e solidarietà, alle famiglie delle vittime, agli abitanti delle aree colpite e alle squadre di soccorso e di pronto intervento che, senza sosta, stanno aiutando la popolazione e sottolinea che «Quello a cui stiamo assistendo è l’altra faccia della crisi climatica che si ripercuote sui territori con eventi estremi sempre più intensi, con rischi per la vita delle persone e impatti sull’ambiente e sull’economia. E l’Italia ancora una volta si dimostra impreparata di fronte alla crisi climatica e agli eventi estremi».

Per questo Legambiente lancia oggi un appello al Governo indicando i 5 interventi da mettere in campo e che devono essere al centro di una chiara ed efficace strategia di prevenzione: 1) approvare definitivamente ilPiano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, ancora in standby dopo la fase di VAS (valutazione ambientale strategica) avviata dal governo alla fine dello scorso anno dopo la tragedia di Ischia; 2) stanziare le adeguate risorse economiche per attuarlo; 3) rafforzare la governance del territorio, affidando un ruolo centrale alle autorità di distretto in merito al monitoraggio e alla gestione del territorio; 4) approvare una legge sullo stop al consumo di suolo che il paese aspetta da 11 anni: la proposta di legge, il cui iter legislativo è iniziato nel 2012, è bloccata in Parlamento dal 2016, quando fu approvata dalla Camera dei deputati, prevedendo di arrivare a quota zero, cioè a non cementificare un metro quadro in più, entro il 2050; 5) promuovere efficaci politiche territoriali di prevenzione e campagne di informazione di convivenza con il rischio per evitare comportamenti che mettono a repentaglio la vita delle persone.

Frane e alluvioni fanno parte delle caratteristiche intrinseche del nostro Paese. I numeri di Ispra parlano chiaro: «L’8,7% del territorio è classificato a pericolosità da frana elevata e molto elevata; il 15,4% invece è classificato a pericolosità media ed elevata alle alluvioni. Numeri che si riflettono sulla popolazione a rischio. Sono infatti 6,8 milioni i cittadini a rischio alluvione e 1,3 milioni quelli a rischio frana».

Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente, spiega che «Nel nostro Paese  il rischio idrogeologico è noto, mappato e ci sono le conoscenze giuste per intervenire ma continua a non essere affrontato e gestito in maniera adeguata, anche in quelle aree in cui eventi analoghi si sono già verificati come ad esempio le Marche colpite violentemente anche lo scorso settembre e negli anni passatiInoltre, bisogna considerare che i terreni si sono inariditi e induriti dopo mesi di siccità, e questo fattore li ha resi meno permeabili ad assorbire una parte delle precipitazioni che si sono riversate in questi giorni. I due fenomeni vanno trattati in maniera integrata per poter sviluppare soluzioni efficaci. Servono anche più politiche territoriali di prevenzione e campagne informative sulla convivenza con il rischio per evitare azioni che mettono a repentaglio la vita dei cittadini».

Secondo i dati forniti dalla piattaforma Rendis di Ispra, a livello nazionale in Italia dal 1999 al 2022 sono stati spesi per la prevenzione del rischio idrogeologico ben 10,57 miliardi di euro per finanziare 11.204 progetti e opere per mitigare il rischio. Di questi ultimi, il 43% (4.834 su 11.204) sono state opere terminate. Al di là di valutare se i soldi siano stati tanti o pochi, per Legambiente «E’ utile fare una riflessione se quelli che sono stati spesi in questi due decenni hanno portato a una effettiva mitigazione e riduzione del rischio in Italia».

Il presidente nazionale del Cigno Verde, Stefano Ciafani, conclude: «Negli ultimi decenni è mancata in Italia una seria politica di governo del territorio, troppo spesso spezzettata e scoordinata, e le risorse stanziate in questi anni per la prevenzione, oltre 10 miliardi, sono stati spesi in modo inefficace. Il rafforzamento della governance del territorio rappresenta un primo passo fondamentale per non esporre al rischio la popolazione, ma soprattutto per garantire quella capacità di adattarsi meglio al verificarsi dei prossimi eventi estremi. Le immagini dell’alluvione che sta colpendo Emilia-Romagna e Marche ci ricordano l’urgenza di intervenire per tempo. Continuiamo a rincorrere le emergenze senza una strategia di prevenzione, che ci permetterebbe di risparmiare il 75% delle risorse economiche spese per i danni provocati da eventi estremi, alluvioni, piogge e frane. Gli strumenti ed i soggetti competenti ci sono. Le conoscenze anche. Serve la volontà politica che è mancata finora».

21 maggio 2023

Elezioni Grecia: Tsipras punta ai giovani. La sinistra marcia divisa

Il Pasok è in crisi esistenziale, con i comunisti del Kke i rapporti sono a zero

 di Dimitri Deliolanes *

Oggi votano 9 milioni 810 mila greci. La maggior parte sono donne e pensionati. I nuovi elettori, coloro che hanno compiuto il 17simo anno di età e voteranno per la prima volta, sono 438 mila. Tra di loro si annoverano anche quei 250 mila giovani, che già lavorano in strutture turistiche nelle isole, cui il premier Kyriakos Mitsotakis non ha voluto concedere il permesso di tornare oggi a casa per votare. La società americana che cura la campagna elettorale di Mitsotakis ha scoperto che tra i ragazzi il premier non va fortissimo. È meglio quindi che non tornino a casa.

Al contrario di Mitsotakis, Tsipras conta molto sul voto giovanile, anche se c’è il rischio che una parte vada dispersa tra le tante liste della sinistra. Tra queste solo i comunisti del Kke (il più vecchio partito del paese) e il Mera25 di Varoufakis entreranno in parlamento. Le altre liste, per la maggior parte, rimarranno sotto l’uno per cento.

Syriza affronta questa scadenza elettorale con grande impegno e con l’aria del vincitore sicuro. La verità però è che non è riuscito a liberarsi completamente di un grave peso. Riguarda il suo cedimento nell’agosto del 2015 alle feroci pressioni di Berlino, accettando il terzo disastroso «piano di salvezza», cioè di insopportabile austerità. È vero che Tsipras subito dopo ha proclamato nuove elezioni nel settembre 2015 e le ha vinte. Ed è anche vero che negli anni seguenti ha gestito nella maniera migliore possibile le imposizioni punitive dell’eurozona, salvando il salvabile, difendendo le classi più deboli e conducendo infine il paese fuori dalla crisi. Ma come Tsipras stesso ha ammesso qualche anno fa, nella campagna per le elezioni del 2015 aveva tirato troppo la corda, usando slogan «populisti» e «demagogici», alimentando così «aspettative irrealizzabili». Oggi però si trova in un paese senza memoria e completamente disinformato (le tv greche sono in mano alla destra di governo), a dover ricordare a tutti che certe misure odiose, come il pignoramento della prima casa per debiti bancari, non erano scelte sue ma di Angela Merkel.

La scommessa che Syriza ha fatto imponendo a suo tempo il sistema elettorale proporzionale non riguarda solo la rappresentanza in parlamento e la formazione di un governo di coalizione. Punta anche alla regolamentazione dei rapporti interni nell’area della variegata sinistra ellenica, da tempo sofferente di autismo ideologico e dispersa in mille rivoli. È un terreno minato, in cui c’è ancora molto da fare.

Lasciando da parte i socialisti del Pasok, che ancora devono decidere se sono di sinistra o di destra e cosa faranno da grandi, c’è da confrontarsi con il Partito comunista Kke forte del 5%. Oggi i rapporti tra Kke e Syriza sono praticamente inesistenti. Pochi giorni fa il segretario comunista Dimitris Koutsoumbas ha dichiarato che «il governo Tsipras è stato il peggiore degli ultimo decenni». Attacchi del genere il partito comunista li lancia in ogni direzione. In sostanza, la loro attività politica si limita in sparate del genere. I comunisti greci da molti anni vivono trincerati in uno splendido isolamento a difendere la «purezza ideologica» del marxismo-leninismo e l’esperienza sovietica, che è terminata «a causa delle trame dell’imperialismo e del tradimento di Gorbaciov». Difficile parlare di politica con un partito simile.

Anche con Varoufakis i rapporti continuano a essere freddissimi. La ferita del 2015 non si è mai rimarginata. Il brillante economista segue la sua strada con Mera25, un movimento internazionale contro il neoliberalismo. In Grecia il disegno di «ribaltamento» ha un certo seguito, in queste elezioni c’è anche un’alleanza con altri ex Syriza. E Varoufakis non nasconde la sua soddisfazione. Questa volta quindi se dovrà partecipare a qualche governo, lo farà non da ministro ma da premier, pronto a duellare con il «minotauro globale».

leggi anche:

                                                                                                                                                                   - La Grecia torna alle urne, ma rischia il binario morto                                          

- Varoufakis (Mera25): «Il paese crolla. Bisogna rompere con l’austerity»

* da il manifesto 21 maggio 2023

29 aprile 2023

Turchia al voto, sfida al sultano Erdogan: la “missione impossibile” del “Gandhi” Kılıçdaroğlu. L’ago della bilancia? I giovani indecisi

 di Futura D'Aprile *

Il 14 maggio sarà una data decisiva per la storia della Turchia. A cento anni dalla nascita della Repubblica, gli elettori sono chiamati a rinnovare il Parlamento e ad eleggere il prossimo presidente. I principali sfidanti per il posto di capo di Stato sono Recep Tayyip Erdogan, leader del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) da vent’anni alla guida del paese, e Kemal Kılıçdaroğlu, segretario della formazione repubblicana di ispirazione kemalista (chp). 

 Ad aspirare alla carica di presidente sono anche altri due politici, Muharrem İnce e Sinan Oğan, le cui possibilità di vittoria però sono decisamente basse, stando ai sondaggi delle ultime settimane. La sfida dunque sarà tra Erdogan e Kılıçdaroğlu, due uomini molto diversi tra di loro sia caratterialmente che politicamente, con visioni differenti sul futuro della Turchia e sulla gestione stessa del potere. Gli ultimi sondaggi fanno emergere l’indecisione dei giovani e un lieve vantaggio per il presidente in carica. Secondo la rilevazione realizzata da al-Monitor e Premise Data, l’11.3% dei giovani non ha ancora deciso per chi votare e il sostegno a uno o all’altro candidato sarà certamente determinante nel momento in cui a separare Erdogan e Kılıçdaroğlu sono solo pochi punti. Sempre secondo al-Monitor, il presidente uscente dovrebbe ottenere il 45.2% delle preferenze, contro il 44.9% del leader del Chp. Il risultato delle elezioni, dunque, non è per nulla scontato e anche una manciata di voti potrebbe essere decisiva per il futuro della Turchia.

La Turchia di Erdogan – Il presidente uscente, leader dell’Akp, è al potere ormai da più di venti anni. Il suo primo mandato da premier risale infatti al 2002 e ha già ricoperto per due volte la carica di presidente, dal 2014 ad oggi. Il Consiglio elettorale supremo però gli ha permesso di ricandidarsi per quello che sarebbe a tutti gli effetti un terzo mandato, in violazione quindi del limite imposto dalla Costituzione, iniziando a contare i suoi incarichi dal 2017 in poi, anno della riforma costituzionale che ha trasformato la Turchia in una repubblica presidenziale. A sostenere la candidatura di Erdogan è ancora una volta il partito di estrema destra nazionalista Mhp, ma in questa tornata elettorale il presidente uscente ha deciso di allearsi anche con Huda-Par, il partito di estrema destra curdo-sunnita, e con il Nuovo partito del benessere (Yrp) di Fatih Erbakan, figlio del mentore dell’attuale presidente e leader dell’islam politico Necebettin Erbakan. L’Huda-Par è l’erede dell’Hezbollah turco (che non ha alcun legame con Hezbollah sciita del Libano), ed è noto per aver seminato il terrore nelle comunità curde di sinistra alla fine degli anni Novanta; l’Yrp invece è temuto da una parte della società turca per le sue posizioni particolarmente misogine. In cambio di questa alleanza, Fatih Erbakan ha chiesto a Erdogan di cancellare la legge n. 6284 che tutela le donne contro la violenza di genere e previene il fenomeno delle “spose bambine”.

Nel suo programma elettorale, però, Erdogan ha volutamente tralasciato questo dettaglio, promettendo invece un futuro radioso ai suoi elettori. Nello specifico, il presidente uscente si è impegnato a ridurre l’inflazione e i costi dell’energia grazie al nuovo giacimento di gas del mar Nero e alla centrale nucleare appena inaugurata; ad accrescere l’export e il turismo; ad offrire una serie di agevolazioni agli studenti, alle famiglie e alle fasce della popolazione più indigenti. A chi è stato colpito dal terremoto del 6 febbraio, invece, ha promesso nuove abitazioni entro la fine dell’anno. Il rafforzamento dell’economia e una maggiore indipendenza sul piano energetico sono anche utili per perseguire una politica estera più assertiva e che permetta al presidente di accrescere il ruolo della Turchia nello scacchiere internazionale. Per raggiungere questo obiettivo Erdogan ha anche intenzione di continuare a puntare sulla Difesa, un settore ampliamento sostenuto dal presidente e che ha registrato un’importante crescita negli ultimi anni. Con grande soddisfazione del leader turco, che ha giocato la sua campagna elettorale anche su droni, jet, elicotteri e portaerei realizzati interamente o quasi dalle industrie nazionali.

Kılıçdaroğlu e il Tavolo dei sei – Principale sfidante di Erdogan è Kemal Kılıçdaroğlu, segretario del Chp del 2010 e candidato del cosiddetto Tavolo dei sei, formato da partiti che vanno dal centro-sinistra alla destra nazionalista. Considerato un uomo dai toni pacati e conciliatori, Kılıçdaroğlu non è un politico particolarmente carismatico ma è riuscito a conquistarsi la fiducia degli elettori proprio grazie ad un carattere e a uno stile di vita molto diversi rispetto al presidente uscente. In Turchia è anche noto con il nome di “Gandhi turco” per aver organizzato nel 2017 una “Marcia della giustizia” in risposta all’arresto per motivi politici del suo vice, Enis Berberoglu. In quell’occasione Kılıçdaroğlu ha percorso a piedi 450 chilometri andando da Ankara a Istanbul e organizzando diversi comizi durante il suo cammino grazie ai quali è riuscito ad aumentare la sua popolarità.

La mancanza di carisma però aveva inizialmente messo in pericolo la sua leadership all’interno della coalizione, anche se alla fine tutti i partiti del Tavolo lo hanno accettato come loro candidato. I vice di Kılıçdaroğlu, in caso di vittoria, saranno due personaggi popolari dell’opposizione: il sindaco di Ankara, Mansur Yavaş, e il primo cittadino di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, entrambi del Chp. A sostenere la candidatura di Kılıçdaroğlu, seppur indirettamente, è anche il partito filo-curdo Hdp, che ha deciso di non presentare un proprio esponente per la carica di presidente. A unire tutti questi partiti è il desiderio di mettere fine all’era Erdogan e di ritornare al sistema parlamentare, ripristinando l’equilibrio tra poteri dello Stato e garantendo ai cittadini quei diritti che Erdogan ha invece sempre più ridotto. Tutte misure che dovrebbero avvicinare la Turchia all’Europa e consentire la riapertura del tavolo delle trattative per l’adesione di Ankara all’Unione. Sul piano economico, Kılıçdaroğlu ha promesso invece una maggiore ortodossia e l’abbandono delle politiche monetarie imposte da Erdogan, ripristinando anche l’autonomia della Banca centrale. In politica estera, invece, il leader dell’opposizione promette un riavvicinamento alla Nato, pur mantenendo un rapporto «bilanciato e costruttivo» con la Russia e continuando a mettere al primo posto gli interessi nazionali.

Gli altri candidati e i sondaggi – A contendersi la carica di presidente sono anche Muharrem İnce, ex leader del Chp e fondatore del Partito della patria, e Sinan Oğan, per lungo tempo membro dell’Mhp e sostenuto da una coalizione di partiti di destra nazionalisti. Nessuno dei due raggiungerà percentuali particolarmente significative, ma la loro indicazione di voto per un eventuale secondo turno potrebbe determinare l’esito delle urne. İnce, attestato intorno all’8%, sta avendo particolare successo tra i giovani, la fascia di popolazione in cui si registra ancora il maggior numero di indecisi.

* da FQ 29 aprile 2023


21 aprile 2023

Il piano tedesco per i riscaldamenti sostenibili e quello europeo che vuole vietare le caldaie a gas


di Elena Tebano*

Il governo tedesco ha approvato l'annunciato progetto di legge sull’energia degli edifici: prevede che dal 1° gennaio 2024 gli impianti di riscaldamento di nuova installazione debbano essere alimentati da almeno il 65% di energie rinnovabili. Questo di fatto esclude i riscaldamenti a gas, mentre è compatibile con le pompe di calore, il teleriscaldamento e gli impianti di riscaldamento a gas che possono essere convertiti a idrogeno (in questo ultimo caso però bisogna che il fornitore di gas presenti un piano vincolante in cui si impegna a passare all’idrogeno). La proposta di legge prevede alcune esenzioni (i proprietari di casa che hanno più di 80 anni possono continuare a installare nuovi impianti a combustibili fossili, così come le «case sotto tutela monumentale») e fondi per la transizione agli impianti sostenibili, con un sussidio che copre il 30% delle spese di conversione e può arrivare fino al 50% grazie ai bonus clima (saranno finanziati grazie al Fondo per il clima e le trasformazioni). «Questa legge non porterà nessuno a rimanere senza riscaldamento, né a dover vendere la propria casa» ha detto la ministra federale dell’Edilizia, la socialdemocratica Klara Geywitz. La riforma è stata fortemente voluta dal ministro dell’Economia dei Verdi Robert Habeck, tra le resistenze degli alleati di governo liberali. Il ministro delle Finanze e leder della Fdp Christian Lindner, racconta il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha messo a verbale di sperare che i partiti di governo «discutano intensamente la legge nell’ambito della procedura parlamentare e apportino anche le ulteriori modifiche necessarie».

La proposta di legge tedesca anticipa la riforma che la Commissione europea vuole introdurre in tutta l’Unione europea dal 1° gennaio 2029, e cioè il divieto di usare caldaie a gas (per ora è una bozza, la Commissione ne discuterà la prossima settimana). L’Unione europea progetta da tempo di imporre «limiti di progettazione ecocompatibile più rigorosi per i sistemi di riscaldamento, che implicano il 2029 come data finale per l’immissione sul mercato di caldaie a combustibili fossili autonome» (potrebbero essere ancora usati gli impianti ibridi che usano caldaie a gas insieme a pompe di calore).

In Germania i riscaldamenti ammontano al 30% di tutti i consumi energetici. In Italia secondo l’Ispra il settore residenziale e dei servizi produce il 25% di tutte le emissioni di gas serra del settore energetico, che a sua volta contribuisce per l’80% alle emissioni totali di gas serra. Significa che se si vuole combattere il surriscaldamento globale l’introduzione di impianti di riscaldamento più sostenibili è un passaggio ineludibile. Ma è anche il passaggio destinato a rendere più evidenti il prezzo della transizione verde per i “normali” cittadini. Cambiare l’impianto di riscaldamento è costoso e complicato: in molte case, soprattutto quelle più vecchie, non ci sono gli spazi per mettere le pompe di calore. E non tutti possono permettersi un investimento di migliaia di euro. Non solo: il divieto di installare nuove caldaie a gas colpirà anche tutta l’industria del settore.

La scommessa sul clima si giocherà tutta su riforme come questa. Stati ambiziosi in fatto di protezione dell’ambiente come la Germania e l’Europa tutta riusciranno a imporre una politica sostenibile solo se sapranno accompagnare i cittadini in questi cambiamenti, sostenendoli a livello pratico e finanziario. Imporre riforme così gravose dell’alto, senza aiuti, significa di fatto condannare al fallimento le politiche contro il surriscaldamento globale.

Il governo italiano finora ha dichiarato la propria contrarietà alle norme europee che obbligano all’efficientamento energetico degli edifici. «La direttiva sulle Case Green approvata in Parlamento europeo è insoddisfacente per l’Italia» ha detto a marzo il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin. «Individuare una quota di patrimonio edilizio esentabile per motivi di fattibilità economica è stato un passo doveroso e necessario, ma gli obiettivi temporali, specie per gli edifici residenziali esistenti, sono ad oggi non raggiungibili per il nostro Paese». Pesa il precedente del Superecobonus, che per come è stato formulato e messo in pratica ha dato adito a sprechi e truffe. Ma non fare niente per la protezione del clima è egualmente costoso. Il Consiglio dell’Unione europea stima che negli ultimi 40 anni le perdite finanziarie causate da fenomeni meteorologici e climatici estremi nell’Ue abbiano superato i 487 miliardi di euro, «un importo considerevolmente maggiore di quello sborsato dall’Ue in due anni per tutte le sue politiche e i suoi programmi». I Paesi europei che hanno pagato di più per le conseguenze del surriscaldamento globale sono Germania, Italia e Francia. Adattarsi ai cambiamenti climatici e prevenirli è dunque l’unica soluzione. È anche per questo che il governo dovrebbe usare il Pnrr per sostenere la transizione verde e renderla il più possibile sostenibile per cittadini e imprese. 

nella foto:  il ministro dell’Economia dei Verdi Robert Habeck

* da Corriere della Sera  - 21 aprile 2023 Rassegna Stampa