16 marzo 2025

Serbia: La rivoluzione di Belgrado non si ferma

 Centinaia di migliaia di persone sfilano fino al parlamento. È una delle più grandi manifestazioni nella storia moderna del Paese


Elena Kaniadakis *

Ed ecco una grande piazza europea dove si fa politica, cioè si propone un cambiamento allo stato delle cose: Belgrado, piazza del parlamento. Di bandiere blu con le stelle gialle non ce n’è neanche una, solo tanti volti giovani che chiedono una magistratura indipendente, stampa libera, rispetto dello stato di diritto e non un presidente padrone. Hanno sfilato per le strade, dandosi il tempo con i fischietti, promettendosi di buttare giù un sistema che offre come orizzonte solo insicurezza, o l’‘esilio volontario’ verso altri paesi. «Hai mai visto così tanta gente?», chiede una ragazza alla sua amica, con una grande mano rossa come il sangue dipinta sulla guancia, simbolo della protesta. «Nikad, mai» risponde quella, e soffia tutto il fiato di cui è capace nel fischietto che si porta al collo. Vucic ha fatto a lungo leva sulla paura e sulla frammentazione sociale per evitare questo tipo di rivolta, ora è sulla difensiva, nel tentativo di spegnere il fuoco


È TRA LE PIÙ GRANDI manifestazioni nella storia moderna serba. Sono centinaia di migliaia di persone, tra gli organizzatori si sussurra «mezzo milione», a riempire tutte le principali strade e piazze di Belgrado, inclusa Slavija, quella che ospita la fontana sonora, simbolo delle brutture e delle speculazioni urbanistiche in atto nel paese. Il volto di Aleksandar Vucic, presidente serbo e protagonista indiscusso degli ultimi dieci anni con il Partito progressista serbo (Sns), non figurava da nessuna parte fra i cartelli della marea umana né negli slogan: non ce n’era bisogno. Ha a tal punto incarnato il potere autoritario in Serbia da essere naturalmente il destinatario politico del movimento di protesta.

TUTTI I CHILOMETRI percorsi in questi mesi di manifestazioni partecipatissime – a partire da novembre, quando la pensilina della stazione ferroviaria appena ristrutturata di Novi Sad è crollata sui passanti, uccidendone 15 – hanno condotto qui, davanti alla sede del parlamento. Senza simboli politici o partitici, questo movimento sta dando alla Serbia la scossa più politica di tutte, e chiede partecipazione ai processi decisionali, trasparenza, a partire dalla pubblicazione di tutti i documenti relativi al progetto di rifacimento della stazione. «La nostra è una domanda rivoluzionaria, molto più delle semplici dimissioni del governo: pubblicare i documenti vorrebbe dire smascherare le responsabilità criminali del potere, chiedere che la classe politica corrotta vada in prigione», racconta uno studente con il gilet catarifrangente e il casco protettivo, che cala sulla fronte, pronto, teoricamente, a proteggere la folla dalle auto che in più occasioni, nei mesi scorsi, hanno speronato i manifestanti. I trattori dei contadini arrivati dalle campagne aprono e chiudono i cortei, bloccando le strade e assicurando protezione. «Il nostro sembrava un paese vecchio, morto, e invece…», esulta Zoran, la sigaretta spenta tra le labbra, osservando compiaciuto il fiume in piena di persone, assiso sul suo trattore.

NIŠLIJE, LOZNICA, Kraljevo, Cacak, Užice, Kragujevac: i ragazzi di tante città hanno risposto all’appello, nonostante molte linee ferroviarie siano state interrotte per due giorni, con la motivazione ufficiale di un allarme per un «pacco bomba». Hanno macinato fino a 150 chilometri, dormendo nelle palestre comunali dei piccoli centri abitati, che li hanno accolti con lunghi applausi e mestolate di zuppe calde. È una delle tante magie portate da questo vento di primavera: anche i residenti delle zone rurali, dove il controllo clientelare del potere è asfissiante, e a lungo è riuscito a bloccare la scintilla della protesta, sentono di avere nuove energie. Belgrado non appare più come la roccaforte del dissenso politico, isolata dal resto del paese, ma la destinazione finale di una staffetta liberatoria. Anche le nonnine serbe davanti al parlamento premono a tutto spiano sulle trombette da stadio.

Nei giorni precedenti era stato tutto un tambureggiare bellico di dichiarazioni: «Ci aspettiamo violenze», «c’è un piano per scatenare la guerra civile», aveva dichiarato la presidente del parlamento, Ana Brnabic. Toni apocalittici di chi, più che temere lo scontro, sembrava auspicarlo.

Loschi figuri si erano accampati in piazza dai giorni scorsi, i bicipiti e qualche cicatrice bene in mostra: «Studenti impazienti di tornare sui banchi dell’università», li ha presentati il governo. Sono perlopiù scagnozzi prezzolati del Sns, ultras della squadra di calcio del Partizan, in cui sono confluiti alcuni ex riservisti dell’Unità per le operazioni speciali durante l’era Miloševic, tra i cui ranghi fu rintracciato l’assassino del primo ministro serbo Zoran Dindic nel 2003. Nella messa in scena, che avrebbe anche qualcosa di comico se non fosse per la violenza insita in essa, non potevano mancare i «trattori senza conducenti», fatti arrivare in fretta da un’azienda fuori città, per creare un cordone a difesa dell’accampamento, sulla falsariga di quanto avevano fatto i contadini «veri», a protezione degli studenti «veri». Nel tardo pomeriggio, fra «desiderosi di apprendere» e alcuni manifestanti c’è stato uno sporadico lancio di fumogeni, e gli organizzatori hanno spostato la parte finale del concentramento in una piazza più decentrata per allentare la tensione.

GLI SQUILLI DI TROMBA, gli applausi e le urla di incoraggiamento degli studenti coprono così il silenzio dell’Unione europea, al cui consesso la Serbia rimane candidata. Le proteste oceaniche sono state finora sostanzialmente ignorate da Bruxelles. Solo venerdì la rappresentanza Ue in Serbia ha invitato al «rispetto dei diritti democratici».

Qualcuno, più spiritoso, sventola in corteo le bandiere dei regni mitici del Signore degli anelli per incoraggiare la lotta contro Vucic, «l’oscuro signore». Perché un mondo letterario sia da preferire all’Ue è presto detto. «L’Europa è complice», attacca Milos, uno studente che si trascina dietro una gigantografia con la copertina della costituzione serba. «In tutti questi anni ha sostenuto Vucic, convinta che fosse il solo capace di assicurare la stabilità e lasciare campo libero agli investimenti che le stanno a cuore. La Germania vuole che venga aperta qui la più grande miniera di litio d’Europa, la Francia ha firmato un accordo per vendere i suoi jet Rafale… lo stato di diritto, per cui noi ci battiamo, viene calpestato in nome della ‘stability’».

VUCIC, IL LEADER POLITICO alto due metri che sognava di fare il pivot ed è stato invece ministro dell’Informazione negli anni novanta, durante la presidenza di Miloševic, ha addolcito da tempo i toni da giovane radicale nazionalista, quale era, e si è accreditato come il leader pragmatico, abile nel destreggiarsi su più tavoli da gioco, non solo con Bruxelles, ma anche con la Cina e ovviamente la Russia, di cui la Serbia rimane storica alleata (Belgrado non si è unita alle sanzioni contro Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina). «Ha fatto a lungo leva sulla paura e sulla frammentazione sociale per evitare questo tipo di rivolta – spiega Ivica Mladenovic, ricercatore presso l’Istituto di filosofia dell’Università di Belgrado – ora è sulla difensiva, costretto a destreggiarsi tra repressione e concessioni limitate nel tentativo di spegnere il fuoco». Finora ha preso tempo, tenendo nella manica la carta delle elezioni anticipate che in più occasioni ha fornito la scappatoia ideale, grazie alla forte presa esercitata sugli impiegati statali, dopo le dimissioni del primo ministro avvenute a gennaio. Ma nessuno, tra i manifestanti, ha urgenza di tornare alle urne, proprio perché sa che la libertà di voto rischia di non essere garantita (Vucic ha annunciato un discorso alla nazione in tarda serata, dopo la chiusura del giornale).

TRA LE AULE OCCUPATE delle 60 facoltà, negli estenuanti dibattiti che si susseguono prima degli eventi di protesta, serpeggiano le opzioni più disparate: chiedere un governo di transizione, fondare un nuovo partito, rimanere fuori dall’arena parlamentare. La protesta ha anime politiche variegate e finora ha tratto vigore dall’aver convogliato il grande risentimento nei confronti della corruzione.

«Non c’è ancora una forza strutturata che possa incarnare l’alternativa» riflette Milos, proteggendosi con una bandiera serba dalle sparute gocce di pioggia che bagnano la festa.
«Dobbiamo organizzarci al di là delle strade, costruire una base militante nelle campagne, nelle assemblee locali, nei sindacati». La strada è in salita, ma la Serbia si è risvegliata giovane, si è affacciata sulla piazza del proprio futuro, e pretende che nessuno le chiuda la finestra in faccia.

* da il manifesto 16 marzo 2025

 

11 marzo 2025

L’Europa ha già riarmato, e sono armi made in Usa

 IL RAPPORTO SIPRI SULL’IMPORT-EXPORT BELLICO 2020-2024

 Giorgio Beretta (Opal): «L’export italiano è esploso, ma grazie alle autorizzazioni di Renzi e Gentiloni»

 di Roberto Zanini *

Il riarmo dell’Europa non l’ha inventato Ursula von der Leyen, né alcuno dei suoi valorosi epigoni freneticamente impegnati in vertici e incontri per fissare una cifra da sottrarre ai bilanci nazionali e investire in spese militari. E forse non l’ha inventato nemmeno Donald Trump, che pure ne è un favoloso acceleratore. Il suo riarmo, l’Europa lo sta già facendo da almeno cinque anni. E lo sta facendo con armi made in Usa. Quasi due terzi delle armi importate dai paesi europei della Nato negli ultimi cinque anni sono state prodotte negli Stati uniti. L’importazione di armi da parte dei paesi europei è più che raddoppiata dal 2020 al 2024 rispetto ai precedenti cinque anni, e quasi due terzi provengono dagli Usa: il 64%, contro il 52% del quinquennio precedente.

I dati sono contenuti nel nuovo rapporto sull’import-export bellico mondiale diffuso ieri dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), la più autorevole centrale di controllo del mercato bellico del pianeta – il suo meticoloso Yearbook è un primario strumento di lavoro per chiunque si occupi della materia. È una fotografia dello spirito militare del tempo, quella del Sipri, fondato in Svezia nel 1966 per celebrare i 150 anni di pace ininterrotta del paese e diventato il miglior raccoglitore mondiale di dati e analisi sulle armi – la Svezia intanto faceva un altro percorso, e da esattamente un anno il paese è l’orgoglioso 32esimo membro della Nato.

I DATI del Sipri dicono che un riarmo era già lanciato, la guerra in Ucraina ne ha moltiplicato enormemente la scala, fino a oggi è stato dipendente dalle forniture degli Stati uniti, il clamoroso voltafaccia del neo-presidente americano Trump costringerà l’Europa a spendere molto di più per essere molto meno legata agli approvvigionamenti Usa. Con un enorme dubbio nel mezzo: proprio la dipendenza dalle forniture americane sarebbe la miglior garanzia che Trump non sfilerà gli Stati uniti da quel patto atlantico firmato ottant’anni fa e ormai modificato da intangibile alleanza politica a trattabilissima relazione economica.

NEL PERIODO analizzato dal Sipri, l’Ucraina è comprensibilmente diventato il principale importatore mondiale di armi, comprandone quasi cento volte di più che nel quinquennio precedente e ricevendo l’8,8% di tutte le armi importate nel mondo (poco sotto ci sono India, Qatar e Arabia Saudita). Nello stesso periodo le importazioni europee sono aumentate del 155% – almeno 35 stati, in maggioranza europei, hanno ceduto armi a Kiev dopo l’invasione della Russia. Gli Stati uniti hanno aumentato la loro fetta di contratti militari globali e ora sono al 43%. La Russia ha invece visto cadere le sue esportazioni belliche del 64% – le armi che fabbrica hanno un uso immediato e ne resta meno per l’export.

64%. È la quota di armi americane acquistate dai paesi Nato, che nel quinquennio 2020-2024 hanno più che raddoppiato gli acquisti. La quota precedente era il 52%

C’È DA DIRE che nel quinquennio è solo marginalmente aumentata la quantità complessiva di armi comprate e vendute. Sono invece cambiati, e molto, gli acquirenti. E in parte anche la classifica di chi compra e di chi vende: se i primi dieci venditori sono rimasti gli stessi, Italia ha scalato la graduatoria passando dal decimo al sesto posto globale, un più 138% – il più grande aumento tra i dieci top produttori globali – che aveva già messo le ali ai piedi all’industria bellica nazionale prima che Trump e RearmEurope facessero anche di più. «L’export è aumentato – sottolinea Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente armi leggere (Opal) – ma l’aumento del Sipri registra le consegne finali e dipende da ordinativi e autorizzazioni rilasciate durante i governi Renzi e Gentiloni, quando hanno toccato il loro massimo storico».

138%. Il Made in Italy è esploso: dei primi 10 produttori mondiali l’Italia è il paese che registra l’aumento maggiore (ma sono autorizzazioni dei governi Renzi e Gentiloni)

Quella nei numeri del Sipri è produzione bellica di centrosinistra, ingrassata di vendite a vari petrostati come Arabia saudita e Emirati. Per calcolare quella della destra bisognerà aspettare qualche tempo, anche se i dati di Borsa illuminano un po’ il quadro: la nuova belligeranza europea ha fatto volare la tedesca Rheinmetall (+114% in un anno nel 2024), le italiane Leonardo (+73%) e Fincantieri (+60), la svedese Saab (+53%), la tedesca Hensoldt (+41%), la britannica Quinetiq (+34) e tutte le altre del comparto.

IL FUTURO? Si può indovinare nella tabella Sipri degli ordinativi già firmati. Con 996 aerei, 342 elicotteri da combattimento, 7 navi da guerra, 41 sistemi missilistici terra-aria e 403 carri armati, gli Stati uniti resteranno – e largamente – il principale fornitore di armi del mondo. A remotissima distanza la Francia per i 214 caccia e le ben 22 navi da guerra, la Germania per i 454 tank, l’Italia per i 1.865 “altri veicoli blindati”. Ma ora arriveranno gli 800 miliardi di RearmUe.

nella foto: manifestazione per la pace a Roma

* da il manifesto - 11 marzo 2025

8 marzo 2025

Iran, il velo «sconfitto»

 Pezeshkian rifiuta la richiesta dei parlamentari: «Non farò rispettare la legge su hijab e castità: non mi metto contro il popolo». Già è cominciata l’offensiva delle forze conservatrici anche contro lo stesso presidente

 

 di Francesca Luci *

209 deputati (su 290) del Parlamento della Repubblica Islamica hanno inviato una lettera al presidente della Camera, chiedendo l’applicazione della legge sulla castità e sull’hijab, sospesa lo scorso dicembre dal Consiglio supremo per la sicurezza. La normativa prevede pene severe per le donne e le ragazze che violano l’obbligo del velo, tra cui multe, pene detentive e fustigazioni.

MERCOLEDÌ 5 febbraio, il presidente iraniano Pezeshkian, in una sorprendente presa di posizione contraria, ha dichiarato: «Non posso far rispettare la legge perché crea problemi alla popolazione e io non mi metterò contro il popolo».

Le parole semplici di Pezeshkian contengono un enorme significato politico e sociale. È stato implicitamente riconosciuto che la legge contraddice l’articolo 9 della politica generale del sistema, che stabilisce che le leggi devono essere applicabili, orientate ai bisogni reali e garantire la massima partecipazione.

CIÒ DI FATTO significa che la legge si è scontrata con il volere del popolo, che ne ha avuto abbastanza della pretesa del sistema di controllare la sfera privata delle famiglie, delle donne e dell’istigazione degli uomini contro madri, sorelle, mogli e figlie. Certo, non c’era forse bisogno di sentire queste parole dopo decenni di proteste e repressioni, ma l’affermazione di Pezeshkian suona come una certificazione ufficiale della vittoria del movimento femminile contro le imposizioni del regime.

IL MOVIMENTO femminile iraniano è in prima linea nella battaglia per i diritti civili da diversi decenni. È riuscito a creare una catena di equivalenze tra le sue attiviste, concentrandosi sulla lotta contro le leggi discriminatorie. Le differenze tra donne religiose e secolari, tra socialiste e liberali, tra nazionaliste e attiviste per i diritti delle minoranze etniche si sono ridotte in favore di un’identità collettiva basata sulla lotta contro la discriminazione legale.

Negli anni, il movimento, colpito dall’esilio forzato di molte, ha visto una nuova generazione di donne più giovani e radicali portare la battaglia su un nuovo fronte, concentrandosi sulla liberazione del corpo femminile dal controllo statale. La lotta contro il velo obbligatorio è divenuta il centro del discorso femminile e il punto di incontro per donne di tutte le classi sociali, dalle lavoratrici urbane alle donne della borghesia religiosa, ed è diventata il simbolo dell’opposizione al regime.

QUESTA NUOVA fase ha rafforzato l’identità femminile come opposizione diretta all’identità teocratica dominante, favorendo l’alleanza con altri movimenti sociali. Le donne sono diventate protagoniste della protesta studentesca, hanno organizzato movimenti sindacali e si sono alleate con i lavoratori, portando il movimento femminile al centro della lotta per la democrazia in Iran.

LE GIOVANISSIME ragazze hanno ballato per le piazze del paese, bruciando i loro copricapo nella straordinaria mobilitazione di protesta “Donna, Vita, Libertà”, che ha attraversato l’intera società iraniana. Le onde di protesta si sono ritirate solo apparentemente dopo una lunga e sistematica repressione. Tuttavia, hanno lasciato una scia di disobbedienza civile che di fatto ha spazzato via l’obbligo del velo. La resistenza femminile, nonostante anni di repressione, ha radicalizzato profondamente il discorso democratico, rendendolo più inclusivo e universale. La società iraniana ha accumulato un tale livello di azione collettiva e resistenza che è pronta per la transizione democratica.

Le dichiarazioni di Pezeshkian, per quanto significative, certo non segnano una vittoria definitiva: le forze conservatrici al potere continueranno il tentativo di controllo sociale. Già è cominciata l’offensiva anche contro lo stesso presidente. Tuttavia, il fatto di riconoscere apertamente l’impossibilità di applicare una legge repressiva rappresenta un punto di svolta, pur non essendo appagante rispetto all’immenso tributo che le donne iraniane hanno pagato in questi anni.

LA BATTAGLIA non è solo una questione di indumento per le donne, ma il simbolo di una più ampia lotta per i diritti, la libertà e la democrazia in Iran. La voce delle donne iraniane è ormai troppo forte per essere ignorata.

* da  il manifesto 8 marzo 2025

4 marzo 2025

Armaroli: «Le centrali che vuole il governo non esistono»

 Intervista Il dirigente di ricerca del Cnr: «L’azienda che stava sviluppando il nucleare modulare ha chiuso il progetto. L’Italia e l’Europa non hanno materia prima. Il più grande player è Rosatom, di proprietà del governo russo. Contro di essa ci si è ben guardati da imporre sanzioni»

di Luca Martinelli *

In Italia si è acceso il dibattito sul nucleare: venerdì scorso il consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge per conferire una delega all’esecutivo su quello che è stato definito il «nuovo nucleare sostenibile», da allora i membri del governo hanno continuato a rilasciare interviste che mancano di descrivere che cosa renderebbe davvero diverso un ritorno all’atomo. Ieri il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin si è arrampicato su specchi molto inclinati cercando di spiegare il motivo per cui il provvedimento non sarebbe in contrasto con la volontà espressa dai cittadini di cancellare il nucleare con due referendum nel 1987 e nel 2011. «Questa scelta, dopo un’analisi fatta anche con molti giuristi, non va a contrastare i referendum. Il ddl dice chiaro che non ci saranno più le grandi centrali. È un po’ come un referendum su un motociclo anni Trenta e poi una Ferrari di oggi». La Ferrari di cui parla, però, non c’è, come spiega Nicola Armaroli, dirigente di ricerca presso il Cnr: «Si continua a parlare di una tecnologia che non esiste. Questo fa sì, tra l’altro, che non si possa sapere quanto costano queste nuove centrali. E io mi chiedo qual è la base numerica di un business plan in base al quale questo governo dice che l’energia prodotta dalle centrali costerà meno. Sulle bollette non si può scherzare».

A febbraio è stato audito alla Camera: ha spiegato che le tecnologia su cui punta l’Italia non ci sono. Che cosa intende dire?
La prima azienda che stava sviluppando il nucleare modulare su piccola scala, NuScale, alla fine del 2023 ha annunciato che chiude il progetto. Si tratta di un’azienda Usa, la prima ad avere ottenuto l’autorizzazione a mettere sul mercato un reattore da 77 megawatt. Arrivati però al dunque, con l’impianto già venduto a un paio di aziende, ha dovuto ammettere che le stime promesse sui costi di produzione di energia elettrica erano errate, che il prezzo reale sarebbe stato ben più alto rispetto a quanto prospettato. In Francia, invece, Edf ha abbandonato il piano di realizzare quelli che si chiamano Smr, Small modular nuclear reactors. Questi sono i fatti. L’idea dei Smr non è nuova. Prima però occorre un prototipo credibile dai costi certi e poi fabbriche che lo producono in serie. Il governo dovrebbe essere più esplicito su questo dettaglio.

Grafici alla mano, nella sua audizione ha sfatato anche il mito di un presunto rinascimento nucleare. Qual è la realtà?
La curva dell’andamento degli impianti nucleari è ben nota. I tre decenni d’oro del nucleare sono stati quelli tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Da quarant’anni le installazioni non aumentano. Gli Usa, paese che detiene la tecnologia, le risorse e i siti in cui realizzare nuove centrali, ha zero reattori in costruzione. Perché? Poniamoci la domanda.

C’è poi un altro limite, legato all’uranio, alla sua disponibilità e al suo prezzo, che è schizzato del 137% dal 2021.
L’Italia e l’Europa non dispongono di materia prima. Il più grande player del settore nucleare è Rosatom, una società di proprietà del governo russo, che dispone di una filiera integrale del nucleare. Contro di essa ci si è ben guardati da imporre sanzioni, anche perché questo avrebbe creato seri problemi a numerose centrali in tutto il mondo, alle quali fornisce ad esempio le barre di combustibile. Oggi i dominatori della tecnologia nucleare, che nelle economie di mercato ha fallito, sono Cina e Russia. Questa è la situazione. E non si capisce perché se sulle risorse e tecnologie russe e cinesi facciamo tanti distinguo, l’idea che dominino nella filiera nucleare passi sotto silenzio. Mi chiedo poi se è plausibile quello che propone il governo, ovvero che gli investimenti del programma italiano li faccia il privato. Non esiste un paese al mondo a economia di mercato dove il nucleare sta in piedi da solo. Quindi il decreto certifica che il nucleare non si farà. A meno che non si voglia aggirare l’ostacolo, considerando «private» le grandi aziende nazionali partecipate a maggioranza dallo Stato.

Quanti sarebbero i reattori in costruzione in Italia?
Decine di piccoli reattori, indicativamente tra 50 e 200, quindi molto diffusi lungo lo Stivale. Ho però l’impressione che il nucleare sia soprattutto un argomento politicamente comodo. Si dichiara di risolvere un problema (bollette alte). Tanto poi, coi tempi biblici in gioco, la patata bollente toccherà a qualcun altro.

* da il manifesto 4 marzo 2025

13 febbraio 2025

Mobilità: Vienna, paradiso europeo per chi viaggia sui mezzi

Per quel che valgono le classifiche, è bene sottolineare che Vienna è appena stata eletta dal settimanale The Economist «città più vivibile del mondo» anche grazie alla qualità dei suoi trasporti pubblici.

Un dato su tutti: nella capitale austriaca, una città con circa 2 milioni di abitanti, la metà dei cittadini possiede un abbonamento per i mezzi pubblici.  Non da oggi: dal 2012 con il costo di 1 euro al giorno si può viaggiare su tutti i mezzi pubblici urbani. Altre statistiche dicono che tre viennesi su dieci si spostano abitualmente con i mezzi, un terzo degli abitanti va a piedi e solo un abitante su quattro sale in automobile. Dei 792 milioni di passeggeri delle «Wiener Linen» – dato 2022 – 352 milioni viaggiano in metropolitana e 274 milioni in tram.

Il tasso di soddisfazione dei cittadini è al 91%, il primo posto tra le 83 città europee considerate nel sondaggio.

 da il manifesto Redazione – 23 gennaio 2025

10 febbraio 2025

Gli studenti serbi candidati al Nobel, dopo mesi di proteste nell’indifferenza del mondo

Gli studenti serbi ufficialmente candidati al premio Nobel per la pace. Una candidatura inconsueta, ma che ha sicuramente forti motivazioni, come ha ribadito sui social il famoso drammaturgo serbo Sinisa Kovačević.

  di Zara Audiello *

Gli studenti serbi ufficialmente candidati al premio Nobel per la pace. Una candidatura inconsueta, ma che ha sicuramente forti motivazioni, come ha ribadito sui social il famoso drammaturgo serbo Sinisa Kovačević. Il Movimento Studentesco, ispirato al gandhismo e alla nonviolenza, è prezioso per la sopravvivenza di una nazione europea, per il ritorno della dignità di tutti i cittadini della Serbia, per la conservazione dello Stato e per l’instaurazione di una pace duratura in una regione turbolenta. Questo premio accelererebbe la caduta dell’ultimo regime dittatoriale in Europa, incoraggiando i giovani a essere più coraggiosi nel plasmare il proprio futuro e affermando la pace e la nonviolenza come paradigma fondamentale, si legge nella motivazione della candidatura.

Storia di una protesta

Gli studenti serbi dunque ufficialmente candidati al premio Nobel per la pace. Andiamo con ordine, ripercorriamo fatti molto poco noti al di fuori della Serbia, e analizziamo il percorso che ha portato alla candidatura. Alle 11:52 del 1° novembre 2024, la pensilina della stazione di Novi Sad crolla con i suoi 48 metri di cemento, uccidendo 15 persone e ferendone un grande numero. La costruzione, risalente al 1964, era stata recentemente rinnovata ed è diventata il simbolo della mala gestione e della mancanza di trasparenza del governo serbo, sia per quanto riguarda i progetti pubblici che più in generale per tutta la sua azione politica, da sempre denunciata dalle opposizioni.
Da allora gli studenti serbi sono in protesta, e le loro azioni hanno trovato il sostegno di molti cittadini in tutto il Paese. La mobilitazione è iniziata con il blocco delle facoltà universitarie, per poi evolversi in manifestazioni pubbliche in cui hanno chiesto che le loro istanze fossero accolte dalle autorità. Nonostante i tentativi del governo di fermare la protesta offrendo varie concessioni, gli studenti non si sono arresi, e hanno mantenuto ferme le loro richieste anche di fronte alle pressioni, alla demonizzazione mediatica da parte dei media filogovernativi e agli attacchi fisici subiti.

Il primo blocco si è verificato alla Facoltà di Arti Drammatiche, dove studenti e docenti sono stati aggrediti il 22 novembre mentre fermavano pacificamente la strada per 15 minuti, in segno di rispetto per le vittime del crollo della pensilina alla stazione ferroviaria di Novi Sad. La protesta si è poi estesa rapidamente a più di 60 facoltà universitarie in tutta la Serbia.
Questo movimento di protesta nei confronti del presidente Vučić e del suo Partito Progressista Serbo (SNS), che esercita il potere in Serbia sin dal 2012, è stato descritto da numerosi analisti come una delle forme di opposizione più significative della storia della politica serba. Infatti, è stata protesta più numerosa e imponente in tutto il territorio balcanico dopo il ’68, nettamente superiore alle proteste per rovesciare il regime di Milošević. Il movimento ha ricevuto un fortissimo sostegno internazionale anche tra VIP, tanto da trovare perfino il sostegno di Madonna su Instagram.

Vučić, trentanni di sovranismo serbo

Aleksandar Vučić dopo aver iniziato nel Partito radicale serbo nel 1993, che non ha nulla a che vedere con il partito radicale italiano laico e progressista, in quanto basa la sua ideologia sul nazionalismo e l’estrema destra, fortemente sovranista e anti europeo, è stato ministro dell’Informazione (1998-2000).
Si stacca dai radicali e nel 2008 fonda  il Partito progressista serbo (SNS), diventandone vicepresidente. Ha ricoperto il ruolo di vicepremier e ministro della Difesa (2012-2013) nel governo Dačić. Nel 2014 è diventato primo ministro grazie alla vittoria elettorale del SNS e ha portato avanti politiche pro-UE, di lotta alla corruzione e risanamento economico. Ha vinto le elezioni del 2016 con la maggioranza assoluta e nel 2017 è stato eletto presidente con il 55% dei voti. Riconfermato nel 2022 con il 59,8%, ha consolidato la sua leadership con le elezioni parlamentari del 2023, in cui il SNS ha ottenuto la maggioranza dei seggi.

Una figura così dominante, Comandante delle forze armate, in un sistema elettorale in parte simile a quello italiano, ma dove il Presidente è eletto dal popolo e soprattutto con un Parlamento monocamerale che dunque accentra più poteri, e soprattutto dove il  Parlamento nomina i giudici delle Corti di Giustizia, ha dato sicuramente una parvenza di stabilità al paese che ha evidenziato una crescita economica non indifferente negli ultimi anni, ma poco sostenibile senza gli investimenti stranieri e soprattutto a discapito della democrazia.

Le richieste degli studenti

Il rifiuto di un’affiliazione politica da parte degli studenti è l’aspetto distintivo di questa contestazione.
Gli studenti chiedono invece la divulgazione completa della documentazione relativa ai lavori di ristrutturazione della stazione, terminati poche settimane prima del crollo, l’individuazione e la punizione dei responsabili delle aggressioni contro i manifestanti, il rilascio di tutti gli arrestati durante le proteste e un incremento del 20% dei fondi destinati a università e scuole superiori. Vučić ha più volte affermato che tali richieste sono già state soddisfatte, ma il confronto tra le istituzioni e i manifestanti appare sempre più complesso. Non è compito del Presidente della Repubblica garantire giustizia, ma delle istituzioni che devono operare nel rispetto dello stato di diritto. Per questo, anche dopo le dimissioni del premier Vucevic, la situazione è rimasta invariata.

Le dimissioni del primo ministro Vučević

Martedì 28 gennaio, il primo ministro Miloš Vučević ha rassegnato le dimissioni, dichiarando di voler “evitare ulteriori complicazioni e non alimentare le tensioni nella società”. Anche il sindaco di Novi Sad ha ceduto alle pressioni delle manifestazioni, annunciando le sue dimissioni e sottolineando che “la stabilità, la riduzione delle tensioni e la fine delle divisioni sociali sono essenziali per il progresso e lo sviluppo di Novi Sad e per migliorare la vita dei suoi cittadini”.  Il fatto che i politici coinvolti nella tragedia di Novi Sad si siano dimessi rappresenta una chiara ammissione di debolezza da parte del governo, ma non porterà a cambiamenti sostanziali per il movimento di protesta. Il sindaco e il primo ministro saranno probabilmente sostituiti da figure appartenenti allo stesso ceto politico, e che non potranno quindi realizzare la discontinuità attesa e auspicata da chi protesta. Questo movimento infatti non è nato solo per la rimozione di alcune figure di potere, ma come risposta a un sistema che ha generato disagio e insoddisfazione nella popolazione sin dalla dissoluzione della Jugoslavia.

La lunga marcia

IL 31 gennaio, centinaia di giovani universitari hanno percorso 80 chilometri da Belgrado fino a Novi Sad, nel nord della Serbia, in una nuova mobilitazione. Una marcia commovente che ha avuto il sostegno quasi totale della popolazione, tanto da indurre gli abitanti dei paesini lungo il tragitto, a organizzare presidi offrendo loro cibo, bevande e coperte.
Le proteste sono proseguite per tutto il weekend e i ponti di Novi Sad sono stati bloccati da centinaia di migliaia di persone per commemorare i tre mesi dalla tragedia ferroviaria. Il sostegno è arrivato anche dai tassisti che si sono messi a disposizione per riportare a casa gli studenti gratuitamente dopo i cortei. Negli ultimi due mesi, le dimostrazioni non si sono mai interrotte, e gli studenti promettono di continuare fino a quando il presidente Vučić non si dimetterà.

Il colpo di coda dei conservatori

I sostenitori del governo e i conservatori rivendicano l’incremento del 20% nel bilancio per l’istruzione superiore rappresenta un chiaro segno di impegno da parte del governo per migliorare il settore educativo, anche se mancano ancora dettagli su come sarà realizzato.L’ex primo ministro della serbia Barnabić, sempre al fianco del presidente, ha sottolineato la necessità di una comunicazione chiara per evitare malintesi, suggerendo che le richieste degli studenti non sempre riflettono la realtà degli investimenti e delle risorse effettivamente allocate.

Inoltre, molti conservatori ritengono che le proteste siano strumentalizzate da forze esterne, in particolare dall’Occidente, per destabilizzare il paese e minare la sua indipendenza. La Serbia, infatti, è l’unico paese europeo che non ha aderito alle sanzioni contro la Russia, il che la pone sotto un’intensa pressione da parte delle potenze occidentali, che potrebbero cercare di influenzare negativamente la sua politica interna. L’accusa di una “rivoluzione colorata” in corso, come accaduto in altri paesi, viene interpretata dai sostenitori del governo come una strategia per indebolire la sovranità della Serbia, e per rallentare la sua crescita economica e il suo sviluppo, soprattutto considerando il tasso di crescita molto sostenuto rispetto ad altre nazioni europee.

Inoltre, il governo, dai suoi sostenitori, viene descritto come il garante di una stabilità necessaria per evitare il caos e la divisione sociale, ritenuti alimentati da media locali che, secondo questa visione, sono influenzati da poteri esterni. I filo governativi non mancano di fare riferimento agli anni ’90 del secolo scorso, quando la Serbia ha subito le conseguenze delle sanzioni internazionali, serve a ricordare i sacrifici e le difficoltà passate dal paese. Secondo i sostenitori del governo, la Serbia ha già pagato un prezzo molto alto e sta finalmente riuscendo a risollevarsi, nonostante i tentativi di ostacolare il suo progresso. L’allarme riguardo a un possibile conflitto interno o un intervento straniero in caso di ulteriore destabilizzazione potrebbe essere interpretato come un avvertimento per evitare di ripetere gli errori del passato, quando le interferenze esterne hanno avuto effetti devastanti.

*     * da www.glistatigenerali.com - 7 Febbraio 2025

5 febbraio 2025

La nuova Siria, Al-Sharaa ( Al Jolani) vola da Erdogan: nel mirino c’è il Pkk

Medio Oriente La Turchia è vicina a un obiettivo perseguito per 13 anni: assumere il controllo del paese vicino. Il presidente turco accoglie il neo-leader e promette collaborazione militare ed economica e sostegno nella lotta all'esperienza democratica del nord-est

di Murat Cinar da il manifesto 5 febbraio 2025

Ieri, 4 febbraio, Ahmed al-Sharaa (Mohammed al-Jolani), proclamato presidente del governo di transizione in Siria, è arrivato ad Ankara su invito del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. È il suo secondo viaggio all’estero dopo l’Arabia saudita. Al-Sharaa è stato trasportato dalla capitale Damasco ad Ankara con un aereo della presidenza turca, poi Erdogan lo ha accolto nel palazzo presidenziale di Bestepe. ALLA CERIMONIA UFFICIALE erano presenti anche il capo dei servizi segreti, Ibrahim Kalın, il direttore della comunicazione della presidenza, Fahrettin Altun, il consigliere capo per la politica estera e la sicurezza, Akif Çagatay Kılıç, e il ministro degli Esteri, Hakan Fidan.

Alla fine dell’incontro a porte chiuse, durato poco più di due ore, Erdogan e al-Sharaa si sono presentati davanti alle telecamere per una conferenza stampa. Il presidente turco ha ricordato le brutalità commesse dal regime baathista negli ultimi tredici anni ed elogiato l’operato delle formazioni paramilitari che hanno preso il controllo lo scorso dicembre. «Come abbiamo fatto in passato, anche oggi e domani sosterremo il popolo siriano. Da circa due mesi lavoriamo intensamente per ripristinare i rapporti e spero che le visite reciproche continuino anche in futuro», ha dichiarato Erdogan, segnando ufficialmente l’inizio di un percorso molto atteso.

Entrambi i leader, dice, sono d’accordo su tutti i punti: «Soprattutto sulla lotta contro le organizzazioni terroristiche e separatiste e i loro sostenitori, che occupano il nord-est della Siria. Per ogni tipo di azione contro il terrorismo siamo pronti a fornire alla Siria tutto il nostro sostegno», ha affermato Erdogan, riaprendo così il capitolo Rojava. Il governo turco, sin dalla nascita dell’esperienza del confederalismo democratico, ha sempre definito le forze politiche e armate presenti nella regione come una «minaccia». Tra i temi discussi dai due leader c’è stato anche quello dei centri penitenziari in Rojava, dove si trovano circa novemila ex militanti dell’Isis, attualmente sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) con il supporto dell’esercito statunitense. Erdogan ha sottolineato che Ankara sarebbe pronta ad affiancare Damasco nella gestione di questi centri.

Lo scorso mese, anche Michael Kurilla, comandante generale del Comando combattente unificato delle forze armate degli Stati uniti, durante una visita nella Siria del nord-est aveva definito il tema «cruciale» per il futuro della regione. Inoltre, Erdogan ha dichiarato che la Turchia è pronta a offrire ogni tipo di sostegno per ripristinare le infrastrutture e ricostruire le città. Secondo il presidente turco, questo percorso consentirebbe ai cittadini siriani presenti in Turchia di rientrare nel loro Paese in modo più sereno. INFINE, HA INVITATO «il mondo musulmano e arabo» a fornire il necessario sostegno alla Siria in questa fase storica. Il neo presidente siriano ha tenuto un intervento più breve, ricco di ringraziamenti nei confronti di Erdogan e della Turchia. Al-Sharaa ha sottolineato che per Damasco il legame storico tra i due Paesi è indimenticabile e ha ribadito la necessità di costruire una partnership strategica in tutti i settori per il futuro, soprattutto in quello della sicurezza. «Abbiamo analizzato le attuali minacce presenti nel nord-est e quelle provenienti da Israele. Tel Aviv deve ritirarsi e rispettare i confini del 1967», ha dichiarato al-Jolani. Infine ha ringraziato Erdogan per i piani di sostegno alla ricostruzione della Siria e lo ha invitato a visitare presto il Paese. A 13 anni dallo scoppio della guerra civile siriana, la Turchia si avvicina al suo obiettivo: assumere il controllo del paese vicino.

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Nord-est siriano, democrazia in cerca di futuro


Resistenze Dalla diga di Tishreen a Damasco, l'autonomia è a un bivio

di Chiara Cruciati e Giansandro Merli da il manifesto

NORD-EST SIRIA  Il primo convoglio è partito da Kobane alla volta della diga di Tishreen l’8 gennaio. Di fronte aveva 76 chilometri e il fuoco delle milizie filo-turche, la galassia salafita e islamista riunita sotto l’appellativo di Esercito nazionale siriano (Sna). Auto e furgoncini si sono messi in marcia per proteggere una diga che è molto più di una semplice infrastruttura: è il punto che segna il passaggio a nord-est, il confine invisibile tra la sopravvivenza del confederalismo democratico e l’occupazione turca. Le marce, dalle comunità vicine e da quelle lontane, non si sono mai interrotte. Da tre settimane, tra le colline boscose del nord, la popolazione siriana presidia la diga con i propri corpi. Arrivano a piedi, si fanno forza gridando «lunga vita alle Sdf, lunga vita alle Ypj», tributo alle Forze democratiche siriane e alle Unità di autodifesa curde delle donne, prezioso patrimonio di 13 anni di rivoluzione. Con le bandiere in mano si affollano sull’impianto che attraversa l’Eufrate, 40 metri di altezza per sei turbine. L’ex partito di regime Baath ne avviò la costruzione nel 1991 per fare il paio con la diga più a sud, sul Lago Assad. Il rischio è altissimo. Dall’8 gennaio 24 civili sono stati uccisi a Tishreen dal fuoco sparato dai miliziani filo-turchi e dai droni di Ankara. Tra le vittime anche tre operatori sanitari del presidio medico permanente, tre ambulanze e un gruppo di infermieri e paramedici. Almeno 221 i feriti, tra cui sette giornalisti. Gli attacchi dal cielo hanno preso di mira le auto e i piccoli autobus, parcheggiati alla diga o ancora in cammino, e messo fuori uso l’infrastruttura: centinaia di villaggi sono a secco e al buio. «La diga è un’infrastruttura vitale per la popolazione civile – ci spiega Hussein Othman, co-presidente del consiglio esecutivo dell’Amministrazione autonoma del nord-est siriano – Fornisce acqua ed elettricità a tutta la regione, per questo la gente è in prima linea». Un impianto vitale tanto più in un contesto di isolamento: l’accerchiamento del Rojava da parte della Turchia e l’embargo di fatto imposto da Ankara rendono la regione quasi impermeabile al mondo esterno. Sono i paesi vicini a decidere cosa entra o esce. Ogni risorsa naturale a disposizione è preziosa. «La gente ha ribattezzato Tishreen diga della resistenza», dice Rojhelat Afrin, la comandante delle Ypj. Ci accoglie in una base militare: «La linea del fronte è dieci chilometri a ovest di Tishreen e, più a nord, del ponte Qaraqozaq. L’Sna tenta di avvicinarsi e la Turchia colpisce dal cielo. Se i mercenari dovessero raggiungere la riva orientale del fiume Eufrate, potrebbero arrivare a Taqba, Raqqa, Kobane. La gente lo sa, la resistenza sta bloccando l’avanzata islamista».

Dalla deposizione del presidente Bashar al-Assad, l’8 dicembre 2024, l’unico fronte militare aperto in Siria è questo. L’Sna, manovrato ed equipaggiato dalla Turchia, non si è mai diretto a sud, verso Damasco. Dall’inizio dell’offensiva-lampo di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), il 27 novembre scorso, l’Sna ha guardato a oriente, all’occasione sempre rimandata di prendersi – per conto di Ankara – l’intero Rojava. Da allora, sono 51 i civili uccisi in tutta l’area, 245 i feriti. Il massacro peggiore è del 25 gennaio, 12 vittime al mercato di Sirin. La via di uscita sarebbe il cessate il fuoco con la Turchia, per salvaguardare la popolazione civile e le conquiste del sistema democratico. L’altro fronte è politico e guarda a sud, verso la capitale. La linea delle autorità del Nord-est è chiara: apertura al dialogo con la nuova Damasco e al processo di integrazione nazionale. Una disponibilità che può diventare effettiva solo a certe condizioni. Toccano il rispetto delle prerogative democratiche, di un certo grado di autonomia, dei diritti di donne e minoranze. I rappresentanti dell’Amministrazione vogliono essere parte del processo costituente che dovrebbe scrivere una nuova Carta. Al momento, però, l’unica questione sul tavolo dell’unico incontro è stata militare. Il 30 dicembre Abu Mohammad Al Jolani, neopresidente ad interim, ha ricevuto Mazloum Abdi, ministro della Difesa del Nord-est e capo delle Sdf. «Stiamo tentando di risolvere le questioni attraverso il negoziato con il nuovo governo. Non vogliamo separarci ma essere riconosciuti. Siamo d’accordo a non dividere la Siria in più entità e avere un unico esercito. I dettagli, però, arriveranno in futuro», ha dichiarato lunedì scorso Abdi davanti a una delegazione internazionale. Alle sue spalle la bandiera siriana con tre stelle rosse, simbolo del pre e post Baath, e i vessilli delle Sdf/Ypg. È proprio nei «dettagli» del rapporto tra Stato centrale e autonomia regionale, però, il cuore del problema. Il 19 gennaio il nuovo ministro della Difesa di Damasco Murhaf Abu Qasra, citato da Reuters, ha respinto le richieste Sdf di partecipare all’esercito nazionale come blocco. Devono «entrare nella gerarchia della Difesa ed essere distribuiti in modo militare», ha detto. Sarebbe la fine della federazione di unità combattenti, creata dai curdi ma a maggioranza araba, che tra 2014 e 2019 ha sconfitto l’Isis e garantito l’autodifesa del confederalismo. «Insistiamo per entrare nell’esercito come gruppo o brigata speciale, altrimenti la situazione sarebbe peggio che sotto Assad. Butteremmo via tutta la nostra lotta», ha risposto Rojhelat Afrin. La comandante ha lasciato intendere che le forze del Nord-est puntano a un comando decentralizzato, almeno per ora. Perché, spiega, «con un governo rappresentativo di tutti i siriani non avremmo problemi a rispondere a un comando unico. Ma prima serve un processo democratico inclusivo».

I segnali che arrivano dalla capitale, però, vanno in direzione opposta. Nella cerimonia di insediamento di Al Jolani le autorità del Nord-est non sono state invitate. C’era invece l’Sna. Non sono loro la minaccia principale al confederalismo democratico, ma il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il suo esercito, il secondo della Nato, preme da nord. Le milizie a lui affini attaccano da ovest. L’Hts, che prima governava solo la regione di Idlib dove la lira turca è la moneta corrente, governa a sud. La regione autonoma e il suo progetto di convivenza tra popoli, di eguaglianza tra uomini e donne è nella morsa di Ankara, in una fase particolare, di riavvio del dialogo tra la Turchia e il fondatore del Pkk, Abdullah Öcalan, di cui a breve è atteso un messaggio: conterrebbe – dice Abdi – «cose positive anche sulla Siria». Sembra quindi fondamentale che la Coalizione internazionale anti-Isis, Stati Uniti e un po’ di Francia, non lasci l’area. A dicembre il Pentagono ha reso noto che i militari statunitensi in Siria sono 2mila. Resta da vedere cosa deciderà Trump. Voci su una prossima smobilitazione paiono smentite. «Il team che lavora con noi ritiene che la posizione Usa non cambierà», afferma Abdi.

Altra questione geopolitica riguarda Israele. I suoi attacchi ai siti militari siriani dopo la caduta di Assad hanno fatto comodo alle forze del Nord-est, che senza il vicino turco risulterebbero quelle meglio attrezzate e organizzate. Sulla relazione con Tel Aviv , però, gli ufficiali Sdf danno risposte evasive. «Non ci sono comunicazioni», taglia corto il portavoce Abgar Daoud. L’impressione è che da un lato pesino le politiche coloniali e genocidarie del governo israeliano, dall’altro il fatto che quello potrebbe rimanere l’unico protagonista regionale non ostile. Anche perché le differenze con la presidenza di Al Jolani non sono legate alla contingenza o agli interessi di Ankara. Sono profondamente politiche, quasi antropologiche. Dopo la rivoluzione a Nord-est tutte le cariche importanti hanno due co-presidenti: un uomo e una donna. A Damasco l’unica ministra donna, Aisha al-Dibs nominata su pressioni internazionali, seguirà gli affari femminili. Le sue prime dichiarazioni sollevano dubbi: «Le donne sono responsabili in primo luogo delle famiglie e dei mariti». Nella regione autonoma, al contrario, le donne sono determinanti a livello militare e politico. È per questo che la comandante Afrin sfida i nuovi padroni di Damasco: «Siete pronti a nominare una donna a capo del ministero della Difesa?».

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 Hamdan Al-Abed: «Al contratto sociale non rinunceremo mai»

Intervista Uno dei membri arabi del Consiglio esecutivo dell'Amministrazione autonoma (Daanes) racconta la situazione nella sua città, Tal Abyad, e il precario equilibrio, anche politico, nella Siria del nord-est

 di Chiara Cruciati  ( da RAQQA ) su il manifesto -  1 febbraio 2025

I membri del Consiglio esecutivo sono seduti una accanto all’altro davanti al logo dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est (Daanes): intorno alla mappa del paese, tagliata dal blu del fiume Eufrate, il nome dell’autonomia è in tre lingue, curdo, arabo e siriaco. Donne e uomini, curdi, arabi, siriaci, sono lì a raccontare – con la loro mera presenza – il senso più profondo del progetto rivoluzionario. Rappresentante di una democrazia diretta, il Consiglio esecutivo coordina il lavoro e le decisioni assunte dai comitati di base, quelli che dai quartieri salgono su fino ai cantoni, passando per città e villaggi. Tra loro c’è Hamdan al-Abed, vice co-presidente arabo del Consiglio, il capo coperto da una kefiah bianca e la voce poderosa quando dice che «no, non siamo separatisti, ma non rinunceremo al nostro contratto sociale. La Daanes non è solo curda, né solo le Sdf. Io sono di Tal Abyad, occupata dai turchi: sono uno sfollato, ho sofferto come gli altri, da arabo». Lo intervistiamo a margine dell’incontro.

Qual è la situazione oggi nella sua città, Tal Abyad?

È occupata dalla Turchia dal 2019. È passata da un sistema dispotico a un sistema di occupazione, in tutti gli aspetti della vita, politici, economici, sociali. Nella mia città vivono curdi, arabi, turkmeni, siriaci, armeni, ma le forze che ora la controllano accettano un solo colore, quello turco. Gli armeni sono fuggiti in altre parti della Siria, ma anche all’estero. Odiano anche noi arabi perché, dicono, non sosteniamo il progetto neo-ottomano.

Ha ancora familiari lì? La sua casa esiste ancora?

Io ora vivo a Raqqa, da sfollato. La mia casa a Tal Abyad è stata occupata dalle milizie filo-turche. Se scoprono qualcuno a chiamarmi o a comunicare con me, lo puniscono duramente.

Quanto è importante la componente araba dentro le Sdf, le Forze democratiche siriane?

Almeno la metà delle Sdf e della Daanes è araba. Abbiamo combattuto a Kobane sotto le Ypg e le Ypj, le unità curde popolari e delle donne. Ogni persona deve combattere per la propria esistenza: dovevamo e dobbiamo difenderci dal terrorismo. Non crediamo nel separatismo, crediamo nella coesistenza di ogni componente della società, etnica e religiosa.

Come vede il futuro delle donne nella nuova Siria?

Nella Daanes le donne sono presenti a ogni livello e in ogni settore, non intendiamo rinunciarci nel dialogo che avremo con il nuovo governo di Damasco. Al momento non abbiamo risposte: il ministero della difesa ha detto che le donne entreranno nell’esercito? I nuovi leader hanno parlato di diritti delle donne? Andranno creati dei comitati, militari, politici e sociali e le donne con le loro organizzazioni dovranno partecipare, insieme agli esponenti di tutte le comunità della Siria. La conferenza nazionale promessa, che dovrebbe discutere della futura forma di governo, non è ancora partita, è presto per dire cosa accadrà. Di certo noi non intendiamo dissolvere le Sdf fin quando non avremo rassicurazioni sul rispetto dei diritti di tutti. Non ci sarà alcuna integrazione fino alla stesura della nuova Costituzione.

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 Siria: Al Hol, la bomba che ora rischia di esplodere

Reportage dal Nord-est della Siria Visita al campo che ospita 40mila familiari dei jihadisti catturati dopo la fine del Califfato. Un inferno con i suoi gironi - siriani, iracheni, stranieri "rimossi" dai loro paesi - e dinamiche di un piccolo Stato islamico. Pronto pericolosamente a risorgere. Parla la direttrice della struttura Jihan Hanan: «Abbiamo avuto informazioni che l’Isis sta pianificando qualcosa. Non sappiamo se un attacco dall’esterno o una rivolta all’interno». Ma in questo momento nella regione a maggioranza curda retta dall'Amministrazione autonoma il principale incubo è la Turchia

di Chiara Cruciati e Giansandro Merli da il manifesto

AL HOL Una distesa di reti, grate e filo spinato taglia il deserto. Fuori, tutto intorno, ci sono le postazioni asaysh, la polizia dell’Amministrazione autonoma del Nord-est della Siria (Aanes). Più lontano vigilano le Syrian Democratic Forces (Sdf), la federazione di unità di autodifesa nata dalla rivoluzione del Rojava, il Kurdistan siriano. La terra è una piana di sfumature di giallo. Non cresce un albero. Dentro, nelle tende, vivono 39mila persone: al 95% donne e bambini, la maggior parte familiari dei miliziani dell’Isis e alcuni sfollati di guerra. I minori sono 24mila, i più piccoli sono nati dietro la recinzione e non hanno mai visto il mondo fuori. Alcuni di loro lanciano sassi verso i pulmini che sfilano all’esterno, altri fanno ciao con le mani, uno mostra l’indice destro: è il saluto dello stato islamico.

IL CAMPO DI AL HOL – 85 chilometri a sud di Qamishlo, capitale della regione a maggioranza curda – è «una bomba a orologeria», dice la direttrice della struttura Jihan Hanan. «Abbiamo avuto informazioni dagli alleati della coalizione internazionale (guidata dagli Usa, ndr) e dal governo iracheno che l’Isis sta pianificando qualcosa. Ma non sappiamo se un attacco dall’esterno o una rivolta all’interno», aggiunge. Parla davanti a una delegazione europea di giornalisti, deputati e amministratori locali. L’obiettivo è riportare l’attenzione internazionale su quello che accade nel Nord-est: dopo la caduta del regime di Assad riflettori e promesse di investimenti sono puntati solo su Damasco. Il campo, creato da rifugiati iracheni nel 1991 durante la prima guerra del Golfo, è tornato a riempirsi dopo la battaglia di Baghuz del marzo 2019. Quella che ha segnato la sconfitta militare dell’Isis e posto fine a Daesh come entità territoriale. «Il Califfato, però, continua a esistere come ideologia, come progetto da realizzare», dice Hanan. E proprio da Al Hol, secondo alcuni, dovrebbe nascere di nuovo. LE DINAMICHE che si sono ricreate nella tendopoli sono le stesse che per cinque anni hanno permesso alla creatura di al-Baghdadi di farsi stato: molte delle donne detenute non erano «solo» mogli e madri ma ingranaggi di quella macchina, responsabili di torture, polizia morale, addestramento. Tra il 2019 e il 2020 all’interno sono stati registrati 150 omicidi di abitanti del campo. Poi sono iniziati i blitz militari, sostenuti dalla coalizione, alla ricerca delle armi che continuano a entrare attraverso i camion e il personale locale che fa la spola ogni giorno. L’inferno di Al Hol è diviso in gironi: quello per i siriani, quello per gli iracheni e la sezione ancora oggi quasi inaccessibile dove si trovano i parenti dei foreign fighters che gli altri paesi non hanno voluto riprendersi. Complessivamente la popolazione si è ridotta, dopo aver raggiunto un massimo di 64mila presenze, ma nel 2024 solo 304 stranieri sono stati rimpatriati: oltre la metà in Kyrghizistan, poi in Russia, Turkmenistan e a seguire altre nazionalità. Quando l’8 dicembre 2024 è caduto il regime di Assad i siriani sfollati di guerra hanno festeggiato: per la prima volta dopo un decennio sperano nel ritorno a casa, che nei giorni scorsi l’Amministrazione autonoma ha detto di voler sostenere. Dal canto loro le famiglie dello Stato islamico hanno subito intravisto nella destabilizzazione dell’area una possibile via di fuga collettiva. «GLI STRANIERI erano convinti che in una settimana Al Jolani sarebbe venuto a liberarli», continua Hanan. Così si sono barricati nella sezione Annex: per dieci giorni hanno impedito alle Sdf di entrare e per una settimana alle ong di consegnare cibo e servizi. La «ribellione» è finita solo a causa della fame, ma il segnale è stato chiaro: le fazioni più radicalizzate vogliono approfittare del momento.

Il campo non è impermeabile. All’ingresso ci sono solo le Sdf e le asaysh, le forze di sicurezza interne, ma nessun metal detector. «Ogni giorno transitano 400 veicoli e migliaia di persone. Il contrabbando avviene così. È impossibile controllare tutto», afferma Hanan. Entrano armi, telefoni cellulari, denaro: a fare da corriere sono gli addetti locali delle organizzazioni che operano nel campo e chi consegna beni alimentari, costretti da minacce di morte delle milizie islamiste e da un po’ di soldi. IL DENARO CHE ENTRA serve anche al mantenimento dei familiari dei membri dell’Isis. Accanto alle tende della sezione, alla fine di una piccola salita, c’è una sorta di mercato all’aperto, baracchine di ferro tinteggiato di blu. Scatoloni di cartone, buste di patatine, sacchi di iuta sporcano il pavimento di sabbia gialla che corre giù fino alla tendopoli. Qui l’amministrazione del campo consegna frutta, verdura, riso, snack, lattine di ceci. «Arriva tutto da fuori, loro comprano quello che serve e cucinano da sé – ci dice un’operatrice -. I camioncini, però, non servono solo a far entrare dentro il campo, servono anche per le evasioni: le persone si infilano nelle cisterne dell’acqua o nei furgoncini dei commercianti e scappano». Altri tentano di rompere la recinzione, «ci provano quasi ogni notte». È la recinzione a cui rivolge lo sguardo un gruppo di bambini, nessuno ha più di dieci anni. Qualcuno è più giovane del campo di Al Hol: sono i bambini nati dai matrimoni tra adolescenti, forzati dalle famiglie e dalle loro gerarchie interne che replicano la modalità di gestione della comunità secondo Daesh. ALLE DONNE È AFFIDATO lo stesso compito che avevano fuori: mettere al mondo nuovi «cuccioli del califfato» e proseguire un’opera feroce di indottrinamento. Le famiglie si rifiutano di mandare a scuola bambini e ragazzini e gli inculcano l’unica «educazione» possibile, l’ideologia dell’Isis. Il resto lo fa quel limbo miserabile che è Al Hol: il gelo invernale, l’arsura estiva, le tende ingiallite, i libri che non ci sono, il mondo irraggiungibile, le ore e i giorni che si ripetono uguali a se stessi. L’Amministrazione autonoma sa che il campo è uno Stato islamico in miniatura. Per questo, da qualche anno, ha aperto due centri di rieducazione dove finiscono i maschi una volta compiuti i 12 anni. Vengono sottratti alle famiglie per interrompere il processo di indottrinamento e per impedire nuove nascite. Non è facile: le madri li nascondono, rendendo impossibile sapere con esattezza in quanti vivano nella sezione Annex.

«Sono centri per la deradicalizzazione – ci dice Sara, parte dell’amministrazione di Al Hol – e una sorta di case famiglia. Vivono là, hanno un alloggio e la mensa, un percorso educativo e uno sportivo, le aule e il campetto. Non arrivano tutti da Al Hol, alcuni provengono da Al Roj». È il campo gemello, l’altro centro di detenzione per membri e familiari dell’Isis. «Non sappiamo per quanto tempo ancora questi due campi dovranno restare aperti – continua Hanan – Gli sfollati devono poter tornare a casa e i foreign fighters vanno rimpatriati: gestire 40mila persone è un peso insopportabile per l’amministrazione». Questa, nel corso degli anni, ha ripetutamente chiesto alla comunità internazionale l’istituzione di un tribunale che giudichi gli affiliati allo Stato islamico, consapevole del dilemma etico e politico di imprigionare migliaia di persone senza processo. Nessuno ha mai accolto questa proposta. OGGI LA PREOCCUPAZIONE principale delle autorità della Siria del Nord-est sono gli attacchi turchi sul fronte lungo l’Eufrate dove gli F-16 di Ankara continuano a bombardare militari e civili nei pressi della diga di Tishreen e del ponte di Qaraqoz, a sostegno delle milizie islamiste raggruppate nell’Esercito nazionale siriano. Nonostante questo ennesimo sforzo militare, però, le Sdf hanno scelto di aumentare la presenza intorno ad Al Hol, la «bomba a orologeria» che rischia di esplodere.

nella foto: Una veduta del campo di Al Hol

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