28 dicembre 2023

Libertà «declassate» in Senegal, ma la candidatura di Sonko alla fine c’è

 Verso le elezioni. Il principale avversario del presidente Macky Sall prova ad aggirare l’ostacolo delle firme per correre al primo turno del 25 febbraio. Al momento è in carcere, ma i giovani sono con lui. Nelle urne l’«eccezione» di una regione caratterizzata dai golpe militari in serie

 di Sofia Scialoja (Dakar) *

In Senegal si avvicina il primo turno delle elezioni presidenziali, previste per il 25 febbraio e basate su un sistema presidenziale a doppio turno con ballottaggio. Le violente manifestazioni di marzo e giugno sono state sedate con misure restrittive, come la sospensione dei corsi all’università Cheick Anta Diop e del principale collegamento marittimo tra Dakar e Ziguinchor, bastione del partito Pastef (Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità, dissolto da fine luglio) di Ousmane Sonko, principale oppositore dell’attuale presidente Macky Sall. Ma anche l’annuncio in giugno di quest’ultimo di non presentarsi per un terzo mandato ha contribuito a calmare gli animi.

CONDANNATO A DUE ANNI per «corruzione di minori», Sonko da luglio si trova in carcere con ulteriori pesanti accuse di «cospirazione», «attentato alla sicurezza nazionale» ecc. Ma il 14 dicembre il Tribunale di Dakar lo ha riammesso nelle liste elettorali, dandogli così il tempo di presentare la sua candidatura entro il termine del 26 dicembre. Sonko ha provato a raggirare gli impedimenti che venivano dalla Direzione generale delle elezioni, presentandosi senza le firme richieste (parrainages), ma assieme al partito Senegal in Testa.

La candidatura dunque c’è e prevede anche un piano “B”: Bassirou Diomaye Faye, suo braccio destro, curriculum molto simile, anche lui in carcere ma ancora candidabile. La palla ora passa al Consiglio costituzionale, che dovrà esprimersi entro il 12 gennaio su tutte le candidature. Degli oltre 200 candidati impegnati nella raccolta dei loro parrainnages – si è scherzato sull’inserimento del Senegal nel Guinness dei primati – ne sono rimasti infine 79.

LA PARTECIPAZIONE è palpabile: a Dakar il ronzio radiofonico dei dibattiti sulle elezioni è ovunque. Si vocifera che se Sonko potesse effettivamente correre per la presidenza stravincerebbe. Lo dicono le analisi degli esperti ma non solo: malgrado i sondaggi siano proibiti in Senegal, pare che alcuni privati – fra cui, secondo Jeune Afrique, lo stesso Macky Sall – ne abbiano commissionati alcuni. Sonko veniva dato sempre in testa. D’altro canto è ormai nota la sua smisurata popolarità, soprattutto tra i giovani.

Secondo il professor Oumar Dia, parte dell’intellighenzia del Pastef, studenti e professori sostengono Sonko per la forte inflessibilità morale e perché il suo è l’unico progetto di ripristino di un’autentica sovranità nazionale, svincolata da paesi terzi ma ancora a vocazione panafricanista. Nei suoi confronti emerge sempre più evidente anche il sostegno da parte di una classe media più silenziosa che, probabilmente, una volta alle urne, lo voterebbe.

TRA GLI ALTRI CANDIDATI spiccano Karim Wade, liberale, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade e da anni in esilio in Qatar; l’ex sindaco di Dakar Khalifa Sall; il veterano Idrissa Seck; alcuni ex vertici dell’attuale governo, che hanno deciso di dimettersi e correre per le elezioni dopo essere stati scartati come successori ufficiali, come l’ex ministro dell’agricoltura Aly Ngouille Ndiaye e l’ex Primo ministro Mahammed Boun Abdallah Dionne; e l’ex ministra Aminata “Mimi” Touré, che ha reciso il suo legame con Macky dopo la sua mancata nomina alla presidenza dell’Assemblea nazionale.

Esiste anche una sinistra, repubblicana e intellettuale, che non simpatizza per Macky Sall ma è in disaccordo con il Pastef per la componente di conservatorismo islamico e la radicalità del giudizio sull’attuale governo, il cui pugno di ferro viene relativizzato dalle attuali élites politiche come qualcosa che «accade ovunque nel mondo». Inoltre, secondo la sinistra non si può parlare di «dittatura», quindi la proposta di Pastef non può dirsi «rivoluzionaria».

ANCHE SE SONKO DOVESSE restare fuori dalla partita, non appare scontata una vittoria del designato delfino di Macky Sall, l’attuale primo ministro Amadou Ba, candidato della coalizione BBY come elemento di continuità. Può però presentare un bilancio del suo governo che include il secondo Pil dell’Africa occidentale francofona, importanti investimenti nelle infrastrutture legate ai trasporti, l’inaugurazione della nuova città Diamniadio, la costruzione di un gigantesco porto industriale, lo sviluppo parallelo del nuovo giacimento di gas offshore e conversione del 30% dell’energia elettrica in rinnovabile nel 2023, l’ aumento dei sostegni alla piccola e media imprenditoria con finanziamenti più agevoli…

La continuità va inoltre intesa come elemento di stabilità politica, essenziale per l’attrazione di capitali stranieri. Nel contesto regionale che ha visto negli ultimi anni un susseguirsi di colpi di stato militari, sempre di più il Senegal spicca come “eccezione”.

L’ALTRO LATO DELLA MEDAGLIA però vien esemplificato dallo studio dell’ong Civicus (un’analisi qualitativa e quantitativa del rispetto dei diritti e libertà civiche, di associazione e di espressione), che ha declassato il Senegal da paese con una libertà «ostacolata» nel 2022 a paese con libertà «repressa» nel 2023, con un indice peggiore dei vicini Mali e Niger. Sotto accusa la repressione delle libertà civiche, l’incarcerazione di oppositori come Sonko e un eccessivo uso della forza, talvolta letale, durante le manifestazioni.

D’altro canto, alcuni pensano che Macky Sall abbia designato Amadou Ba controvoglia, non reputandola una persona alla quale affidarsi per il mantenimento, a mandato finito, della sua incolumità giudiziaria. In tutti i casi lo attende un nuovo lavoro in Francia, cucito su misura da Macron, come inviato speciale del Patto di Parigi per il Pianeta e i Popoli.

In questo clima, durante la campagna elettorale i candidati dovranno trovare la chiave per proporre soluzioni potenti al fenomeno della disoccupazione giovanile e sul tema della gestione delle risorse – energetiche, agricole, alieutiche – per ricentrare la loro messa a profitto a favore del popolo senegalese.

nella foto: Una protesta dei sostenitori di Ousmane Sonko, il più celebre detenuto politico senegalese  

* da il manifesto - 28 dicembre 2023

Miniere, milizie e un premio Nobel nelle urne del Congo

Elezioni generali nella Rdc. Tra i quattro candidati che hanno possibilità c'è anche il ginecologo Denis Mukwege. Ma il favorito resta il presidente uscente Tshisekedi. Crisi economica e la guerra nelle regioni orientali. L’M23 intanto avanza su Goma

 di Filippo Zingone *

Oggi 44 milioni di congolesi saranno chiamati a votare per il prossimo presidente della Repubblica democratica del Congo (Rdc), insieme ai membri del parlamento nazionale e di quelli locali. In tutto i candidati alla presidenza sono 21, ma di questi solo 4 hanno una reale possibilità di aggiudicarsi la vittoria. Moïse Katumbi, ricco uomo d’affari ed ex governatore del Katanga; Martin Fayulu, ex direttore generale di Exxonmobil in Etiopia, uscito sconfitto dalle elezioni del 2018; Denis Mukwege, ginecologo premio Nobel per la pace nel 2018 per il suo lavoro con le donne vittime di stupro nei conflitti della Rdc; ultimo, e dato per favorito, il presidente uscente Felix Tshisekedi, che proverà a riconfermarsi dopo 5 anni di governo.

IL CLIMA ELETTORALE non sembra preludere a un voto pacifico e trasparente. Alcuni candidati dell’opposizione hanno deciso, a fine novembre, di fare ricorso contro la Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) per la consegna di schede elettorali stampate su carta scadente quindi ad oggi quasi illeggibili.

L’insicurezza nelle regioni orientali ha portato, mercoledì scorso, l’esecutivo ad annunciare che nei territori interessati dagli scontri tra M23 ed esercito non si potrà votare. Le opposizioni poi accusano il governo di avere un atteggiamento repressivo verso gli avversari di Tshisekedi: arresti arbitrari di esponenti delle opposizioni e giornalisti critici con il governo, ma anche morti sospette di alcuni membri delle opposizioni.

ANCHE NELLE PIAZZE gli ultimi mesi sono stati segnati da scontri tra i sostenitori dei vari candidati. Scontri documentati anche da Human Rights Watch che chiede ai candidati di non fomentare le violenze per dare la possibilità ai cittadini di scegliere liberamente chi votare.

La sicurezza nel Nord Kivu e nell’Ituri, che insieme alla grave situazione economica è stato uno dei temi più evocati durante la campagna elettorale, sembra essere peggiorata da quando la milizia M23, sostenuta dal Ruanda, ha ripreso la sua avanzata verso Goma. Il Sostegno del Ruanda ha reso sempre più tesi i rapporti tra i due stati, fino quasi allo scontro diretto. Non solo l’M23 avanza, ma anche le Forze democratiche alleate (Adf), milizia ugandese legata allo Stato islamico, continuano le incursioni in territorio congolese. A queste due milizie si aggiungono più di 120 gruppi armati che competono per il controllo delle miniere.

Una situazione che potrebbe degenerare definitivamente dopo che la scorsa settimana l’ex presidente del Ceni, Corneille Nangaa, oggi in esilio in Kenya, ha annunciato la nascita di un’alleanza politico militare con l’M23 e altri gruppi armati per «salvare il paese». Per tutta risposta Kinshasa ha ritirato il proprio ambasciatore da Nairobi e chiesto al governo keniano di arrestare gli esponenti della nuova alleanza, richiesta declinata e respinta al mittente.

IN 5 ANNI DI GOVERNO Tshisekedi ha cercato aiuto nei paesi della regione per porre fine agli scontri armati nell’est del paese. A questo era mirata l’entrata della Rdc nella East African Community (Eac), che ha schierato nel Kivu e nell’Ituri diversi contingenti militari dei paesi membri. Alla missione dell’Eac però l’esecutivo ha deciso di non rinnovare la fiducia. Anche la missione delle Nazioni unite, conosciuta come Monusco, dopo 30 anni di presenza sul campo ha concordato il suo ritiro entro la fine del 2024.

In tutto ciò, la popolazione delle regioni orientali rimane schiacciata tra l’esercito e le milizie. Sono diversi milioni i morti causati dalle guerre delle ultime tre decadi nelle regioni orientali della Rdc, che conta oggi 6,9 milioni di sfollati interni. Legata a stretto giro con gli scontri armati è la condizione economica sempre più disastrosa: due terzi della popolazione congolese vive sotto la soglia di povertà.

LA RISCRITTURA DEGLI ACCORDI con le potenze straniere riguardo l’estrazione mineraria e il ripristino del controllo delle miniere in mano ai gruppi armati sono, secondo i candidati, i punti di partenza per risollevare la malata economia nazionale. Se i sondaggi raccontano una popolazione che per l’85% si dice pronta a presentarsi alle urne, molti, soprattutto nelle regioni dell’est, non avranno questo diritto. «Noi dobbiamo stare a guardare queste elezioni dai campi profughi sotto la pioggia, senza poter votare. Siamo congolesi anche noi o no?» ha dichiarato all’East African News una madre di 8 figli in un campo profughi alla periferia di Goma.

nella foto: Manifesti elettorali in una strada di Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo

* da il manifesto - 20 dicembre 2023

 

19 dicembre 2023

Serbia: Vucic alla prova dell’opposizione unita

 Elezioni in Serbia. Oggi ( domenica 17 dicembre ) il quarto voto anticipato per le politiche. Si rinnovano il parlamento, 53 municipalità e 12 comuni, Belgrado compresa. Pesano, nell’eco della guerra ucraina, l’adesione all’Ue e il ricatto sul Kosovo «da riconoscere». Ma i nodi sono interni: corruzione, media sotto tiro, nuovo movimento contro la violenza

di Gennaro Serio *

Persino i lampioni opachi e le strade del centro, solcate da esili corsi d’acqua e ingombre solo del rumore della pioggia autunnale, e i fari che illuminano l’asfalto lucido, sembrano stanchi di questa ennesima chiamata: non si direbbe, ma Belgrado, e la Serbia tutta, si preparano a nuove, ennesime elezioni politiche, le quarte in pochi anni. E dire che stavolta c’è una novità rilevante: un grande cartello elettorale delle opposizioni, moderate, liberali, o di sinistra, che sfida il decennale potere del partito del presidente della Repubblica, Aleksandar Vucic, mentre le opposizioni della destra più nazionalista vanno in ordine sparso; e, accanto, un movimento d’opinione, chiamato «ProGlas», che fa una campagna civica e culturale invitando i cittadini a recarsi alle urne (alle ultime elezioni, l’anno scorso, l’affluenza è stata al 58%). In una delle nazioni al mondo che si spopolano a ritmo più elevato, impoverita dalla corruzione dilagante e depressa ulteriormente dalla corsa inarrestabile dell’inflazione, non è poco.

AD ACCENDERE I RIFLETTORI ci ha pensato curiosamente un presidente straniero, quello ucraino, qui non molto amato: trovando uno spazio nella sua fitta agenda, qualche settimana fa Volodymyr Zelensky ha infatti dichiarato di essere in possesso di informazioni sensibili che indicano nei Balcani il prossimo probabile focolaio di conflitti in Europa, e, dal suo punto di vista, il prossimo impedimento a concentrare tutta l’attenzione e le risorse (dell’Occidente) nel finanziamento della guerra in Ucraina. Questa curiosa dichiarazione si accoda all’antico adagio – e profezia che si autoavvera ciclicamente – dei «Balcani polveriera d’Europa»: da sempre evocato come una entità astratta e generica, quando usato per esprimere preoccupazione questo sostantivo geografico («Balcani») vuole designare in realtà il fastidioso paese cui i media d’Occidente non hanno voglia di riconoscere, di solito, nemmeno il nome: la Serbia. Al più, si dice e si scrive «I serbi», come un epiteto razzista e dispregiativo, ciò che fu in Europa appannaggio esclusivo, per qualche decennio, dei «Tedeschi», a partire dagli anni trenta del Novecento.

È DA QUESTO PAESE che ci si attende guai, e il presidente Vucic, forse condividendo i sospetti di Zelensky e dei suoi informatori, ha dichiarato più volte nei mesi scorsi che una nuova guerra con il Kosovo non è una possibilità presa in considerazione da Belgrado. Forse Vucic presagisce che l’Ucraina vorrebbe mettere la freccia a scapito dei candidati balcanici per l’ingresso in Europa, traguardo vagheggiato un po’ da tutti in Serbia – dal governo alle opposizioni – ma soggetto al (ricattatorio) riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo: una promessa sub condicione ribadita anche da Giorgia Meloni nella sua recente visita a Belgrado.

SÌ, CON IL KOSOVO ci sono state nuove tensioni: sia per quanto riguarda le relazioni diplomatiche generali, con un paese di cui Belgrado non riconosce l’indipendenza autoproclamata unilateralmente quindici anni fa, sia per la situazione dei 100mila serbi che vivono in Kosovo e che hanno subìto le conseguenze della gestione maldestra di alcune questioni specifiche nonché episodi di vera e propria discriminazione da parte del governo di Albin Kurti. Vucic vuole probabilmente far scivolare la questione kosovara in fondo alla pila dei dossier sulla sua scrivania, e le elezioni lo aiuteranno anche in questo. Tuttavia, si direbbe che indire la tornata del 17 dicembre sia la risposta del presidente serbo alle vicende politiche interne. Il suo sistema di potere, basato su una ampia rete clientelare e il controllo spregiudicato dei mezzi di informazione, corroborato anche da casi di minacce esplicite agli oppositori – come nel caso di Djordje Miketic, cui sono stati inviati video intimi di se stesso, precedentemente rubati dal suo computer, fatto preannunciato cripticamente da Vucic a mezzo stampa -, si è visto per la prima volta messo in discussione da una ampia partecipazione civile, non solo belgradese.

A PARTIRE DA manifestazioni di piazza suscitate dalla recrudescenza di atti di violenza armata nel paese, culminati a maggio nella sparatoria in una scuola di Belgrado nella quale hanno perso la vita nove persone, si è formato infatti quello che è diventato prima un movimento civico e d’opinione, e adesso, sotto l’insegna «Serbia contro la violenza», un cartello elettorale molto eterogeneo. Accreditato nei sondaggi di oltre il 20% dei voti, «Serbia contro la violenza» (Srbija Protiv Nasilja, SPN) contiene tra gli altri il Partito Democratico (DS), il Movimento popolare serbo (NPS) e l’agguerrito Fronte dei Verdi di sinistra (ZLF, vedi l’intervista sotto), oltre al movimento personalistico di Zdravko Ponos che era arrivato secondo alle elezioni per il seggio di Presidente della Repubblica. Il programma di SPN è vago, tenuto insieme da slogan generici, e difficilmente riuscirà a prevalere sulla macchina ben oliata di Vucic, il quale è intervenuto nella campagna elettorale e l’ha personalizzata, anche se il suo scranno non è in gioco (le presidenziali sono distinte dalle politiche, nelle quali si eleggono i 250 componenti dell’assemblea parlamentare che poi daranno mandato alla formazione di un governo), infrangendo la «costituzione materiale» e le regole istituzionali serbe, e proponendosi, ormai da anni, come il «presidente assoluto», che scavalca abitualmente la debole premier, Ana Brnabic (sua fedelissima).

SI VOTA ANCHE per il sindaco, in diverse città, compresa Belgrado: qui il presidente è meno popolare che altrove, e il candidato delle opposizioni non nasconde ambizioni di vittoria. Dal 2012, soltanto una volta i parlamentari hanno esercitato il loro mandato fino a conclusione della legislatura. A furia di promettere a studenti e pensionati mance che si contano nell’equivalente di centinaia o anche decine di euro, è probabile che Vucic con il suo Partito progressista serbo – che di progressista non ha niente – vincerà anche stavolta (nei sondaggi è al 44%), e la sua flotta corazzata potrà così tornare a muoversi tranquilla tra le anse del Danubio e della Sava. Alcuni anni fa, proprio sul lungofiume che dal centro di Belgrado porta verso i caliginosi sobborghi di Zemun si vide passare un inusitato, enorme papero giallo. Era una delle prime iniziative degli attivisti che poi avrebbero fondato ZLF. Chissà che quello scherzo non si riveli più persistente del previsto: una macchia di colore che risale lentamente il tappeto fangoso del Danubio.

nella foto. Le strade di Belgrado. Non sono le presidenziali ma Vucic, «presidente assoluto», ha voluto personalizzare la campagna elettorale - Getty Images

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Lazovic: «Qui non solo è inquinata l’aria ma le istituzioni che ci governano»

Serbia. Intervista al co-presidente del Fronte dei verdi di sinistra (Zlf): «L’obiettivo è sconfiggere il sistema clientelare di potere e combattere le disuguaglianze esplose in aree urbane come Belgrado dove la nostra coalizione è radicata»

di Elena Kaniadakis *

«La Serbia è un Paese inquinato: inquinate sono l’aria che respiriamo, e le istituzioni che ci governano». Radomir Lazovic è capolista per «Serbia contro la violenza», e co-presidente del Fronte dei Verdi di sinistra (ZLF), la terza forza politica della coalizione.

Mentre parla giocherella con una papera di gomma sulla scrivania del suo ufficio, simbolo del movimento «Non lasciamo che Belgrado affoghi», da cui è nato il suo partito. Il movimento era stato formato nel 2014 da un gruppo di cittadini uniti dalla protesta contro la speculazione urbanistica che stava convertendo il lungofiume della capitale in un’area residenziale di lusso, pullulante di grattacieli e centri commerciali.

Ogni anno in Serbia più di 10mila persone muoiono per l’inquinamento, causato, tra gli altri fattori, dalla produzione delle centrali a carbone.

Per noi lotta ambientale e lotta alla corruzione sono inscindibili. L’inquinamento è la conseguenza della mancanza di una visione politica che rimetta al centro gli interessi dei cittadini. La Serbia è un regime ibrido: sulla carta è una democrazia, ma le istituzioni, come le autorità di controllo e la magistratura, subiscono forti ingerenze da parte del partito al governo e dei suoi alleati. Per non parlare della criminalità organizzata: quattro anni fa è stata scoperta fuori da Belgrado la più grande piantagione illegale di marijuana d’Europa; il processo da allora è fermo, mentre gli investigatori sono stati intimiditi o rimossi dai loro incarichi.

Il grande obiettivo di «Serbia contro la violenza» è scalfire l’egemonia decennale di Vucic. Troppo poco per rendere il vostro programma convincente?

La coalizione comprende partiti molto diversi tra loro, ma ci siamo uniti dopo le proteste degli ultimi mesi: non succedeva da dieci anni che così tante persone manifestassero nelle strade. Finora abbiamo dimostrato di poter collaborare, anche se proveniamo da storie politiche diverse.

Uno dei minimi comuni denominatori della coalizione è quello di raggruppare partiti filo-europei. Ma il dibattito sull’adesione all’Ue si è spento da tempo in Serbia.

Il Fronte dei Verdi di sinistra è a favore dell’entrata nella casa europea, ma non pensiamo che Bruxelles debba risolvere i nostri problemi. L’obiettivo è sconfiggere il sistema clientelare di Vucic, e combattere le disuguaglianze che in posti come Belgrado stanno esplodendo: l’inflazione ha toccato il 15% ma molti cittadini non guadagnano più di 500 euro al mese, e sono vittima della crisi abitativa. I prezzi degli affitti sono schizzati alle stelle con l’arrivo di 100mila russi dallo scoppio della guerra in Ucraina. Non è un caso che la nostra coalizione sia radicata soprattutto nella capitale: qui abbiamo buone chance di vincere.

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Vladimir Arsenijevic, scrittore per una Serbia oltre la nazione

Intervista. Il romanziere e attivista racconta il suo lavoro, fortemente intrecciato agli eventi sociali e politici del XX e XXI secolo in Jugoslavia e a Belgrado

 di Franco Ungaro *

Nella biografia pubblicata sul sito personale, Vladimir Arsenijevic scrive che è nato a Pola, nella Repubblica Socialista di Croazia, nella Repubblica Socialista Federale della Jugoslavia. Una sottolineatura che lo pone distante se non avverso alla svolta nazionalistica della Serbia attuale. Scrittore, editore, columnist, attivista culturale ha pubblicato di recente Cloaca Maxima, una tetralogia che comprende Sottocoperta (con Predator gli unici due romanzi tradotti in italiano), Andela, Verso il confine, Spiriti.

Musicista punk, dopo una parentesi a Londra, nel 1989 tornò a Belgrado, dove visse l’esperienza della guerra. Nel 2009 ha fondato l’Associazione K.R.O.K.O.D.I.L che sta per ‘Incontro regionale letterario che allevia la noia e la letargia’, con cui organizza l’omonimo Festival che accoglie scrittori e intellettuali per discutere i temi più rilevanti della società contemporanea. Sono stati ospiti delle 14 edizioni precedenti autori come Irvine Welsh, Hanif Kureishi, Margaret Atwood, Georgi Gospodinov, Aleksandar Hemon, Mira Furlan, Boris Buden, Ivan Krasten.

Da musicista punk a scrittore militante… la tua vita, non solo letteraria, è sempre fortemente intrecciata agli eventi sociali e politici del XX e XXI secolo. Partiamo dalla tua ultima fatica letteraria, «Cloaca Maxima», finalmente pubblicata…
Ho iniziato a scriverlo trent’anni fa, primavera del 1991, quando l’esercito jugoslavo si mosse in Slovenia per rioccupare i luoghi di frontiera e scontrarsi con le guardie territoriali slovene che non avevano un esercito, perché fino ad allora non avevamo mai considerato la Slovenia uno stato straniero. Sono cominciate così le guerre balcaniche. Tutti eravamo assolutamente scioccati. Vedere questo scenario molto famigliare delle montagne slovene e tutto ciò che riconoscevamo come la nostra casa, e poi vedere le persone ammazzate sulla strada, è stato assolutamente scioccante. Non riuscivo proprio ad accettarlo, non aveva senso per me. Fra di noi parlavamo di crisi, non di guerra, dicevamo «sì, in qualche modo si risolverà, nel 1989 è caduto il muro di Berlino, c’è stato Gorbaciov, l’unificazione dell’Europa… Noi possiamo essere così stupidi?». Semplicemente non ci sembrava logico. E poi tutto è precipitato, con gli scontri fra i croati e i reparti dell’allora esercito federale jugoslavo, le distruzioni a Vukovar e poi a Dubrovnik furono assolutamente incredibili. Ero semplicemente scioccato.

Hai cominciato a scrivere Sottocoperta con il rumore delle armi…
All’inizio del 1992, Radio B92 così importante per la cultura giovanile era contro la guerra, invitava le persone a scrivere storie di guerra. Io ero davvero molto motivato da tutto ciò. È così che nacque la prima stesura di Cloaca Maxima, coincideva con la prima stesura di Sottocoperta, il mio primo romanzo, e gliel’ho mandata. Nel frattempo cominciava la guerra anche in Bosnia all’inizio di aprile. È impossibile che accada, mi dicevo, non era immaginabile che qualcuno osasse toccarla perché era così fragile. Ovviamente mi sbagliavo ancora. E così la guerra ricominciò…. Sottocoperta non venne inserita nell’antologia di B92, tutte le altre storie avevano davvero a che fare con situazioni di guerra reali. E io invece non avevo scritto come se fossi in trincea e sparassi al nemico.

È la tua biografia?
Avevo scritto di una giovane coppia che vive una vita apparentemente normale, col peso dei propri demoni e dell’eroina e altre bruttezze della vita a Belgrado, del desiderio di avere un bambino mentre la guerra continua e tutto viene distrutto e non riescono più a riprendersi la vita. E in quel processo di creazione, ho iniziato a pensare a cosa sarebbe successo dopo, perché non mi sembrava giusto che ci fosse quel lieto fine della nascita con la tragedia in corso. No, non andrà tutto bene. Lo sanno tutti. E così ho deciso di intitolare il romanzo Sottocoperta e di intitolare l’intero progetto dei quattro romanzi Cloaca Maxima. E ho aggiunto il sottotitolo soap opera perché oggi probabilmente l’avremmo chiamato reality show o qualcosa del genere. Scrivendo soap opera rappresentavo questa esagerata rappresentazione televisiva della realtà. E pensavo che ciò che stavamo vivendo in termini molto oscuri fosse in realtà qualcosa di simile a una telenovela.

È quindi un’opera cominciata con la guerra balcanica e finita con un’altra guerra, quella in Ucraina? Puoi dire qual è il sentimento comune dei serbi rispetto alla guerra in Ucraina?
Sì, stavo ancora finendo di scrivere Cloaca Maxima quando è scoppiata la guerra in Ucraina. Il sentimento dei serbi è molto pro Russia. All’inizio i pro erano quasi il 90% e ora meno del 70%, comunque due terzi della società. Quando è iniziata la guerra in Ucraina i titoli in prima pagina erano scioccanti, «L’Ucraina ha attaccato la Russia», hanno scritto che il 24 febbraio l’Ucraina è andata oltre il suo confine e ha attaccato la Russia, presentando Putin come un eroe. La narrazione è tutta così: i paesi occidentali ci hanno bombardato negli anni Novanta, la Russia non ci ha mai bombardato. Tutto viene semplificato ed è ridicolo.

In Serbia, sono arrivati circa 200.000 cittadini russi, e poi abbiamo una diaspora ucraina abbastanza consistente di circa 20.000 persone. Dieci russi per un ucraino. Senti parlare russo ovunque. Provengono da Mosca, da San Pietroburgo e altre grandi città. E si tratta per lo più di persone istruite, persone che lavorano nel settore informatico o persone in affari, ma anche un gran numero di persone Lgbt, attivisti anti-Putin e pacifisti in pericolo nel regime di Putin. Hanno organizzato manifestazioni contro la guerra, proteste davanti all’ambasciata russa. Siamo rimasti molto colpiti dal coraggio civico perché la maggior parte di queste persone sono obbligate a tornare in Russia dopo 30 giorni per rinnovare il visto turistico, ma non vogliono rimanere in Russia e neppure farsi arrestare. Se non ci fossero stati i russi queste manifestazioni contro la guerra a Belgrado non sarebbero mai avvenute.

Con la tua associazione Krokodil siete impegnati in azioni di sostegno umanitario ma anche per rafforzare il dialogo e la collaborazione con gli scrittori ucraini.
Abbiamo legato molto con la diaspora ucraina in Serbia. Non solo abbiamo raccolto aiuti umanitari, ma abbiamo accolto in residenza gli scrittori ucraini con il programma Writers in Exile. L’anno scorso abbiamo avuto 11 persone con le loro famiglie provenienti direttamente dalle zone di guerra. Abbiamo allestito una biblioteca ucraina nel KOKODRIL, acquistato 500 titoli di letteratura ucraina contemporanea, libri per bambini, abbiamo tradotto testi, organizzato prestito di libri, laboratori per bambini, lezioni di lingua serba. Eppure quando abbiamo iniziato a raccogliere aiuti umanitari per la prima volta, nel marzo 2021 il numero delle persone che hanno deciso di aiutare è stato solo di sei. Quattro erano serbi che vivevano all’estero e solo due provenivano dalla Serbia. Quando Andrej Ljubka, lo scrittore ucraino mi ha chiesto quanti soldi avevo raccolto dalla gente in Serbia, ho dovuto dirglielo, 150 euro. Mi sono vergognato. Raccoglievamo soldi per l’ospedale di Kharkiv, l’ospedale per i bambini nati prematuri. La gente non sapeva come reagire a quella cosa. L’estate scorsa, invece, molte più persone si sono unite e hanno portato tutto ciò che potevano, pannolini, cibo, vestiti caldi e qualsiasi cosa destinata a un centro sociale che si trova nell’estremo oriente dell’Ucraina, popolazione rurale che aveva bisogno di aspirina e pannolini per gli anziani. Facciamo tutto questo perché vogliamo davvero aiutare, ma lo facciamo anche perché vogliamo contrastare le narrazioni revisionistiche e nazionalistiche della Serbia.

nella foto: dalla pagina facebook di ZLF ( Fronte dei verdi di sinistra )

* da il manifesto 15 dicembre 2023

 

27 novembre 2023

In Messico, dove la violenza di genere resta impunita

25 novembre. Domani il corteo, passando per la Glorieta de las mujeres que luchan. Sedici femminicidi al giorno. Solo nell’1% dei casi si arriva a un processo

di   Daniele Nalbone *

Sedici donne uccise, in media, ogni giorno. Oltre 17mila negli ultimi tre anni. Un numero che però arriva a ventimila considerando le donne ancora oggi scomparse e di cui non si hanno notizie. Sono questi i dati dell’Osservatorio nazionale cittadino del femminicidio (OCNF) citati da Gabriela Amores, portavoce dell’Unione nazionale delle avvocate e tra le organizzatrici del Contingente 25N, nel corso di una delle conferenze stampa di avvicinamento alla manifestazione che si è tenuta alcuni giorni fa al Museo delle donne di Città del Messico per denunciare come sia l’impunità una delle cause di questa carneficina: «Solo l’1% dei casi in cui la vittima è una donna ha un vero processo giudiziario e arriva a sentenza» ha denunciato Amores.

Il 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, «scenderemo in piazza per chiedere giustizia e sostenere le famiglie delle donne uccise».

Ad aprire il corteo saranno proprio le madri delle vittime. La manifestazione partirà dal Monumento all’indipendenza e, passando dalla Glorieta de las mujeres que luchan, rotonda del Paseo de la Reforma che dal 2021 è un’installazione artistica dedicata alla donne combattenti, arriverà allo Zócalo, di fronte al Palazzo Nazionale, dove più di quattromila sagome – «figlie, sorelle e amiche assassinate» – ricorderanno al governo l’urgenza di affrontare la violenza di genere in Messico.

COME OGNI ANNO, sarà una manifestazione «difficile, per non dire pericolosa, per le decine di migliaia di donne che parteciperanno» ci spiega Silvia Ruiz di Rompe el miedo (Rompere la paura), rete di giornalisti e attivisti dei diritti umani per monitorare le manifestazioni nata nel 2013 in occasione del tragico anniversario del massacro noto come El Halconazo: era il 10 giugno 1971 quando il reparto paramilitare dei Los Halcones (i falchi) uccise 225 studenti che stavano protestando contro il governo allora guidato da Luis Echeverría Álvarez.

«DA NOVE ANNI LA RETE di giornalisti e attivisti dei diritti umani segue i cortei per documentare eventuali provocazioni e aggressioni da parte delle autorità», continua Ruiz, «e anche quest’anno saremo in piazza fin dalla mattina per seguire in tempo reale gli avvenimenti, denunciare incidenti, occuparci della sicurezza dei manifestanti». Per tutta la giornata «documenteremo eventuali attacchi alla marcia e saremo in contatto con le autorità di Città del Messico per denunciare eventuali violazioni da parte degli agenti di polizia». Un fenomeno, questo, che negli anni ha portato la rete a diffondere prima di ogni evento ritenuto a rischio – un corteo così come un appuntamento elettorale – un vero e proprio vademecum per i giornalisti e per gli attivisti dei diritti umani, «i primi a finire nel mirino di chi ha interesse a invisibilizzare le proteste, se non a provocare scontri per poterle poi criminalizzare».

LE RACCOMANDAZIONI per domani sono diverse: «Nessuna deve muoversi da sola; maglie viola o con simboli della protesta e della lotta femminista vanno indossate solo durante il corteo; il telefono deve essere sempre carico; a fine corteo evitare di girare per la città in piccoli gruppi». Perché «quella di domani sarà una giornata di lotta a tutti gli effetti».

Il contrasto alla violenza di genere sarà uno dei principali temi dell’ormai prossima campagna elettorale. A giugno il Messico sarà chiamato a scegliere il successore di Andrés Manuel López Obrador e il partito Movimento rigenerazione nazionale (Morena) ha individuato nell’ex sindaca di Città del Messico, Claudia Sheinbaum, la candidata alla presidenza. La sfida sarà con un’altra donna: la conservatrice Xóchitl Gálvez. A ridosso del 25 novembre, Sheinbaum ha lanciato la sua prima proposta sul tema: una procura ad hoc che si occupi della violenza di genere, «non solo di femminicidi».

La nuova fiscalía «dovrà muoversi fin dal momento della denuncia, ad esempio, per allontanare l’aggressore da casa. Oggi la prima misura preventiva è trovare un luogo sicuro per la donna che denuncia il proprio marito o compagno. Ma non può continuare così. A doversi allontanare deve essere chi aggredisce, non chi è aggredito».

Nella foto: Manifestanti alla "Glorieta de las mujeres que luchan" a Città del Messico

* da Il manifesto - 24 novembre 2023

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La rivoluzione dolce nella casa delle donne in Messico

L'intervista. Sandra Cardona coordina una rete messicana di centri per l'aborto che ha assistito oltre 20mila donne. Ed è recente, dopo la sentenza shock della Corte suprema, l'arrivo di molte statunitensi

  di Daniele Nalbone *

«Basta mandarci una mail. Oppure bussare direttamente alla porta della nostra casa». Unica regola: «Ingresso vietato agli uomini». Le donne che devono abortire «possono venire da sole o accompagnate da madri, sorelle amiche. Ma per gli uomini la casa è inaccessibile». Sandra Cardona ha fondato nel 2016 il gruppo Necesito Abortar (Devo abortire) nella città di Guadalupe, oggi di fatto un quartiere periferico di Monterrey, capitale del Nuevo León.

Nonostante dallo scorso settembre la Corte suprema abbia stabilito che abortire in Messico non è più un crimine, in questo stato al confine con gli Usa l’interruzione di gravidanza è consentita solo in caso di stupro o di rischio per la salute della donna, pena una condanna fino a un anno di carcere. Cinque anni è invece la pena massima stabilita dagli stati di Chihuahua e Tamaulipas, addirittura sei da quello di Sonora.

Al nord del Messico, soltanto in Baja California e Coahuila è possibile oggi interrompere una gravidanza senza incorrere in procedimenti penali.

Tutto ha avuto inizio su Facebook, ci racconta, e l’obiettivo era dare informazioni e assistenza a chi voleva interrompere la propria gravidanza: nemmeno lei si aspettava, in pochi anni, di arrivare ad aiutare oltre ventimila donne.

Soprattutto, mai avrebbe pensato di dover assistere cittadine statunitensi, come avviene da quando il Texas, nel settembre 2021, ha vietato l’aborto e la Corte Suprema, il 24 giugno 2022, ha annullato la storica sentenza Roe vs Wade del 1973 che garantiva l’accesso costituzionale all’interruzione volontaria di gravidanza in tutti i cinquanta stati. La contattiamo a ridosso della giornata del 25 novembre.

Sono tante oggi le donne statunitensi che si stanno rivolgendo a voi?

Da quando abbiamo aperto la “casa”, un luogo in cui venire per abortire farmacologicamente in maniera sicura, lontano dallo stigma sociale che accompagna l’interruzione di gravidanza in un paese come il Messico, capitava in media una volta al mese di essere contattate e aiutare donne statunitensi. Principalmente venivano da noi donne messicane o migranti. Ma negli ultimi due anni il numero è aumentato sensibilmente. Oggi sono almeno cinque o sei le donne che ogni settimana arrivano dagli Stati Uniti qui in Nuevo León.

Non avete paura a operare in luoghi così pericolosi, soprattutto per le donne, come gli stati del Nord del Messico?

Negli ultimi due anni abbiamo iniziato a lavorare addirittura a Ciudad Juárez, al confine col Texas, nonostante i rischi che comporta organizzarsi e soprattutto scendere in strada in quello che è uno dei luoghi più pericolosi al mondo per una donna.

Ma il nostro ruolo oggi ci obbliga a convivere con la paura. Dico convivere perché è impossibile non averne. La cosa che ci ha sorpreso è che le minacce contro le nostre attiviste sono aumentate da quando abbiamo iniziato ad accompagnare le donne statunitensi. Evidentemente questa “apertura” è stata malvista non solo dai gruppi criminali ma anche dagli antiabortisti.

Come funziona l’accesso alla casa di Guadalupe? E quali sono le maggiori difficoltà che incontrate nella vostra attività?

Dopo averci contattato, prendiamo un appuntamento e si procede con l’aborto: tutto molto semplice. La donna arriva la mattina e nel primo pomeriggio può già tornare a casa. Qui ha tutto il necessario per interrompere la gravidanza in tutta tranquillità.

Nella parte anteriore della casa c’è lo studio in cui si viene ricevute; nella parte posteriore ci sono le stanze con tutto il necessario per rilassarsi, libri, impianto stereo, televisione, divani. La parte più difficile del nostro lavoro è sicuramente fuori dalla casa, nella società.

Qual è il momento invece più bello delle vostre “giornate tipo” nella casa?

Da tanto tempo vorrei realizzare un progetto fotografico per raccogliere i ritratti delle donne che accompagniamo prima e dopo aver abortito. La loro espressione cambia radicalmente. Quando arrivano sono tese, preoccupate, spaventate. Quando escono, sorridono. Poter finalmente avere accesso ai propri diritti cambia la vita. E i loro volti ne sono la prova, ogni giorno.

Siamo ormai alla fine del mandato presidenziale di Andrés Manuel López Obrador. Com’è oggi la situazione in Messico? Qualcosa è cambiato?

La nostra rete sta crescendo ogni giorno di più. Il che ovviamente per noi è un grande risultato ma, al tempo stesso, è una brutta notizia perché significa che oggi abortire in sicurezza è ancora un problema. La desaparición e i femminicidi sono il problema più noto del Messico. Ma la violenza di questa società si mostra ogni giorno in modi meno visibili, negando diritti di base.

Oggi in Messico non si può incriminare nessuna donna per aver abortito. O meglio, non si potrebbe. Città del Messico non è il Messico: lontano dalla capitale la situazione è molto critica. Di fatto, non è cambiato niente, nonostante la sentenza della Corte suprema.

Qual è, in Messico, il valore di una giornata come quella del 25 novembre?

L’importanza che il 25 novembre ha assunto a livello mondiale è un riconoscimento alle donne che lottano ogni giorno per i propri diritti. E non parlo solo delle attiviste. Noi, per restare al nostro caso, accompagniamo casi di violenza sessuale e aiutiamo donne che hanno deciso di abortire. Ma sono loro che stanno affrontando davvero la società.

Rivoluzionario, oggi, in Messico è dire a una mamma e a un papà di volersi separare dal proprio marito perché è violento. Rivoluzionario è comunicare a un’amica la decisione di abortire. A essere rivoluzionaria è una sorella che ti accompagna a farlo.

Mi hanno colpito i disegni e i colori che caratterizzano report, studi e tutto il materiale che avete sul sito per raccontare il vostro lavoro. Perché questa scelta?

Perché qui diamo centralità ai diritti. E i diritti sono vita. E la vita è a colori. Anche in un luogo come il Nord del Messico. Anzi, soprattutto in un luogo come il Nord del Messico.

  * da Il manifesto 26 novembre 2023

22 novembre 2023

Stop alle fonti fossili, la risoluzione del Parlamento Ue in vista della COP28

L'Eurocamera ha formalizzato la sua posizione ufficiale per la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Dubai.

La delegazione del Parlamento europeo che parteciperà alla COP28 di Dubai siederà al tavolo presieduto dal sultano Ahmed Al-Jaber con una richiesta ben chiara: la fine di tutte le sovvenzioni dirette e indirette ai combustibili fossili a livello nazionale, Ue e globale “al più presto possibile” e comunque “entro il 2025”.

L’Eurocamera ha approvato ieri una risoluzione per il mandato dei suoi rappresentanti, con 462 voti favorevoli, 134 contrari e 30 astensioni. Nel testo si chiede inoltre di triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030 e di eliminare gradualmente i combustibili fossili.

I deputati hanno sottolineato l’importanza di proteggere, conservare e ripristinare la biodiversità e desiderano una significativa riduzione dell’impatto climatico e delle emissioni derivanti dal metano e da settori come il trasporto marittimo e aereo internazionale, l’agricoltura e la difesa.

La risoluzione chiede a tutti i Paesi di rafforzare i propri impegni sul clima e di contribuire “con la giusta quota per aumentare i finanziamenti internazionali per il clima”, si legge in una nota (link in basso). Sull’eliminazione dei sussidi per gas, petrolio e carbone, la posizione dell’Eurocamera è simile a quella assunta dal Consiglio europeo lo scorso 17 ottobre, il giorno dopo il vertice tra i ministri dell’Ambiente dei 27.

Anche in quella sede se ne chiedeva lo stop “il più presto possibile”, ammettendo però varie eccezioni. I capi di Stato e di governo fecero riferimento al phasing out soltanto delle fossili “unabated” (ossia quelle le cui emissioni non sono soggette a trattamenti come la cattura della CO2), mentre il Parlamento europeo non ha applicato questa distinzione.

Solitamente l’Unione europea è tra gli attori delle COP con la posizione più ambiziosa, ma quest’anno le difficili mediazioni tra i vari Stati ne hanno annacquato i propositi.

Circa 10 dei 27, tra cui Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Paesi Bassi e Slovenia, erano i promotori principali dell’eliminazione graduale di tutti i combustibili fossili.

Italia, Repubblica Ceca, Ungheria, Malta, Polonia e Slovacchia avevano invece portato proposte più caute, come lo stop graduale solo delle fossili “unabated”, che lasciasse quindi la possibilità di continuare a bruciare carbone, gas e petrolio a patto di catturarne le emissioni risultanti.

Una posizione simile a quella esposta alla pre-COP di ottobre da Al-Jaber, che ha parlato di “a responsible phase down of unabated fossil fuels”, cioè una riduzione graduale dei combustibili fossili “non trattati”. Viste le premesse risulta difficile pensare che da questa COP arrivi la frenata alle fonti sporche che servirebbe.

* Redazione QualEnergia.it  - 22 Novembre 2023