L'Italia è l'unico paese in cui i vecchi partiti
dell'establishment hanno dovuto abbandonare la scena. Ma è l’intero quadro
dell’eurozona in movimento. Le elezioni di primavera apriranno nuovi scenari.
La lunga
controversia tra l'Italia e le autorità della zona euro è stata risolta
all'ultimo minuto. Non vi è stata attivata la procedura per “disavanzi
eccessivo” nei confronti dell'Italia, una misura senza precedenti nell'area
dell'euro fin dalla sua fondazione.
Dobbiamo
chiederci se questo scontro sia stato un semplice incidente di percorso o
piuttosto la manifestazione di una rottura del motore che ha dominato
l'eurozona negli ultimi due decenni. Vale la pena ricordare che il conflitto
aperto dalla Commissione europea contro il nuovo governo italiano riguardava
alcuni decimali del deficit di bilancio del 2019.
Per collocare la disputa in una prospettiva più ampia, bisogna tornare alla
natura delle sfide che hanno caratterizzato l’eurozona nell’ultimo decennio
dopo la crisi finanziaria prima esplosa negli Stati Uniti e poi in Europa.
La crisi
dell’autunno del 2008, ufficialmente iniziata con il fallimento negli Stati
Uniti della banca Lehman Brothers, fu considerata la peggiore crisi
finanziaria dalla Grande Depressione. Ma nei due anni successivi, il timore di
una catastrofe economica era stato scongiurato: Il contagio, invece, si estese
all’’Europa causando recessione e disoccupazione di massa.
Fu in queste
circostanze che Mario Draghi, il nuovo presidente della Banca centrale europea
(BCE), con un famoso discorso a Londra nel luglio 2012, annunciò quella che
sarebbe diventata una decisione storica: "All'interno del nostro mandato -
disse - la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare
l’euro e, credetemi, sarà sufficiente”
In
effetti, posta in una prospettiva più ampia, la dichiarazione non era così
sorprendente. Ben Bernanke, presidente della Fed, la Banca centrale degli Stati
Uniti, si era già mosso in quella direzione nei primi giorni della crisi,
fornendo al paese una liquidità illimitata al più basso tasso di interesse
della storia americana. Era il lancio del Quantitative easing (QE) – in
sostanza, l’immissione di liquidità da parte della BCE tendente
fondamentalmente ad ampliare gli spazi di manovra monetaria da parte del
sistema bancario degli stati membri.. .
Ma non solo.
Nei mesi successivi, Barack Obama, subito dopo la sua ascesa alla Casa Bianca,
aveva deliberato lo stanziamento di 800 miliardi di dollari destinati sia al
salvataggio di aziende in pericolo di bancarotta - come nel caso della General
Motor e della Chrysler – sia al sostegno di milioni di americani che avevano
perso il lavoro.
L'Europa
arrivò in ritardo ad adottare il QE, nel marzo 2015, quasi sette anni dopo
l'inizio della crisi, quando una recessione devastante aveva già provocato il
più alto livello di disoccupazione degli ultimi settant'anni, prima colpendo i
paesi più piccoli dell’eurozona, come l’Irlanda, il Portogallo e la
Grecia, e poi la Spagna.
E’
necessario tornare al 2013, quando i governi dell'eurozona adottarono il
cosiddetto Fiscal compact: cioè l'impegno di ogni stato membro dell'UE a
pervenire alla parità del bilancio e ad avviare la riduzione del debito
pubblico fino a raggiungere la soglia magica dei 60 per cento del PIL. E’ anche
utile ricordare che il Parlamento europeo non aveva discusso e tanto meno
approvato una scelta destinata a prolungare e intensificare la crisi in atto -
una misura imposta dalla Germania con l’acquiescenza della Francia di
Hollande, e subita senza batter ciglio dai governi europei.
In sostanza,
la politica monetaria diventava il cane da guardia della politica
dell’austerità: fondamentalmente, della riduzione della spesa pubblica e dei
salari. Mentre la soluzione della crisi veniva affidata alle cosiddette riforme
strutturali: in altre parole, all’adozione di politiche neoliberiste centrate
sulla liquidazione del potere contrattuale dei sindacati, la definitiva liberalizzazione
del mercato del lavoro e un'ondata di privatizzazioni.
Austerità e
riforme strutturali
Proprio come
nel mondo fisico, non ci sono vuoti nel mondo della politica ..
In Germania,
l'euroscettica Alternativa per la Germania (AFD) è diventato il terzo
partito federale nelle elezioni del 2017, togliendo voti dalla
"corazzata" CDU-CSU e alla SPD che negli ultimi settant'anni avevano
guidato la politica tedesca.
In Francia,
Emmanuel Macron, fino ad allora praticamente sconosciuto salvo aver servito
brevemente nel governo socialista di Hollande, con un programma di chiara
impronta neoconservatrice - favorito da un sistema elettorale che lo
contrapponeva all’ineleggibile Marine Le Pen alla testa del Fronte nazionale, e
privo della concorrenza del Partito socialista, ridotto a un umiliante sei per
cento dei voti nel primo turno, facilmente salì all’Eliseo.
In
Italia, la svolta fu ancora più radicale e imprevista con l’uscita di scena dei
partiti che, sotto diverse spoglie, avevano guidato il paese nell’ultimo quarto
di secolo. Conosciamo l’esito. In assenza di alternative percorribili - il
Partito democratico aveva respinto la possibilità di formare il governo con il
Movimento Cinque stelle – l’unico governo possibile era basato sulla coalizione
fra Cinque stelle e Lega, forze originariamente diverse. e per molti versi
contrapposte, alla fine convergenti sul cosiddetto Contratto.
Una
coalizione che metteva insieme, da un lato, la tipica linea di destra della
Lega: attacco ai migranti, "legge e ordine", appiattimento delle
tasse, e così via. Dall’altro, la piattaforma di Cinque stelle con un
orientamento genericamente riconducibile a posizioni di sinistra, basato
sull’ampliamento dell’intervento pubblico e una rinnovata politica sociale,
come l'introduzione del "reddito di cittadinanza " finalizzato ad
alleviare la condizione di cinque milioni di poveri, principalmente nel
Mezzogiorno.
La
Commissione europea ha attaccato il nuovo governo non per la politica di destra
della Lega - una politica in continua crescita in tutta l'UE - ma,
fondamentalmente, per i suoi obiettivi economici e sociali, contrastanti con
alcuni dei principi chiave su cui è basata la politica neoliberista
dell’eurozona. Lo scontro si è, infatti, concentrato sul rispetto delle regole
di bilancio - una sorta di catechismo che domina la zona euro - la cui
caratteristica principale è la cancellazione del ruolo nazionale nella gestione
della politica fiscale e, in generale, della politica economica e sociale.
Regole non solo di destra ma irrazionali. Non a caso, ill Financial Times,
che non può certo essere accusato di un pregiudizio anti-euro, scrive senza
mezzi termini che "Per quanto riguarda le regole fiscali della zona euro,
il problema essenziale è che sono arcane, illogiche e fonte di frequenti
attriti sia tra i governi che tra Bruxelles e responsabili politici nazionali
". (1) (Challenging times are ahead for the eurozone, 2 gennaio
2012).
In breve,
non è possibile ignorare che anche in una comune area monetaria, come
l’eurozona, ogni paese presenta caratteristiche economiche e sociali diverse,
per cui la politica di bilancio non può essere amministrata da una tecnocrazia
lontana senza alcuna investitura democratica e legittimità politica. Del resto,
ci si dovrebbe chiedere quale sia il senso di convocare periodiche elezioni
generali in uno stato democratico, se è vietato cambiare la politica del
precedente governo bocciato dall’elettorato.
La novità è
che il nuovo governo di coalizione italiano, investito di un consenso popolare
che non ha eguali nei paesi dell'eurozona, pur proclamando la sua
determinazione a mantenere l'Italia nella zona euro, ha sfidato
la leadership neo-conservatrice dell'UE.
I tre paesi
fondatori a confronto
Negli Stati
Uniti, che furono all’origine della crisi, la ripresa ha dato luogo alla più
lunga fase di crescita della storia americana. Il 2018 si chiude con un tasso
di crescita di circa il 3 per cento, mentre Il PIL è aumentato rispetto al
periodo antecedente alla crisi del 2008-09 di circa il 17 per cento, con una
crescita superiore al 3 per cento nell’ultimo anno e un tasso di
disoccupazione fra il 3 e il 4 per cento, il livello più basso da molti
decenni.
Nell’eurozona
la crescita totale nella decade iniziata all’insegna della crisi è stata
meno della metà, al di sotto dell’8 per cento. Mentre la disoccupazione tocca
alla fine del 2018 un tasso medio al di sopra dell’8 per cento, con punte di
circa l’11 in Italia e del 15 per cento in Spagna, per citare due dei quattro
maggiori paesi dell’eurozona. Se si considera - come scrive l’Economist
(Eur not safe yet ,5 gennaio, 2019) - che il passaggio all’euro era
considerato dai leader europei come l’avvento “di una nuova era di più
stretta integrazione …più intensa crescita (insieme con) l’edificazione di
una valuta che doveva rivaleggiare col dollaro”, l’esito non potrebbe essere
più deludente.
D’altra
parte non è necessario attraversare l’Atlantico per cogliere il
fallimento di quel progetto. Paesi appartenenti all’Unione europea, ma al di
fuori dell’eurozona, come per fare degli esempi, la Svezia, la Polonia, la
Repubblica ceca, L'Ungheria, e altri, hanno toccato tassi di crescita più alti,
talvolta doppi, rispetto a quelli dell’eurozona.
Ma non
basta. Il divario non si è manifestato solo tra l'area dell'euro, gli Stati
Uniti e paesi dell’Unione europea. All’interno stesso dell’eurozona si sono
moltiplicati gli squilibri economici. E’ sufficiente soffermarsi sul divario
crescente fra i tre maggiori paesi all’origine dell’euro- Germania, Francia e
Italia -.che da soli rappresentano i tre quinti della popolazione
appartenente al’eurozona.
La
Germania, profittando del basso tasso di cambio dell'euro rispetto a quello che
sarebbe stato il tasso di cambio del marco tedesco in assenza della moneta
unica, ha compensato, nel corso del decennio, la bassa crescita interna in
investimenti e consumi con il gigantesco surplus annuale della bilancia
commerciale pari a circa l'8 per cento del PIL - un record a livello mondiale.
Ha così realizzato una crescita mediamente superiore allo standard
dell’eurozona e il più basso tasso di disoccupazione dell’area, testimoniando
concretamente che la predilezione della Germania per la moneta unica ha
indubbie e ragionevoli motivazioni.
A differenza
della Germania, la Francia ha registrato un costante deficit commerciale, un
misero tasso di crescita intorno allo 0,8 per cento medio e un tasso di
disoccupazione superiore al doppio di quello tedesco. Al tempo stesso, la bassa
crescita è stata accompagnata, ad eccezione di un solo anno nel
decennio, da un deficit di bilancio permanentemente superiore al 3
per cento del PIL.
Il divario economico tra Francia e Germania appare ancora più clamoroso, se si
confrontano i dati sul PIL pro capite calcolati a livello europeo da Eurostat.
In questo caso, vediamo che in Germania solo il 18% della popolazione
vive in regioni con un reddito pro capite inferiore alla media europea. Mentre
in Francia, la popolazione che vive in regioni con PIL pro capite inferiore
alla media europea è quattro volte maggiore, raggiungendo il 72 per cento della
popolazione (24 ore, 2 gennaio 2019 e Eurostat)).
Un
divario regionale addirittura maggiore di quello che si osserva in
Italia, paese che soffre dello storico squilibrio del Mezzogiorno. E che
certamente non era immaginabile quando la Francia si batteva con Mitterand e
Delors per la realizzazione della moneta unica, come mezzo per rafforzare la
propria economia e promuovere una più equilibrata partnership con la Germania.
L’euro ha invece accresciuto lo squilibrio economico e sociale della Francia.
Un dato che contribuisce a spiegare il clima di rivolta di massa all’insegna
dei Gilets jaunes.
Guardando
all'Italia, la terza economia nella zona euro, il quadro è ancora più bizzarro.
Profittando, a differenza della Francia, di un elevata competitività
dell'industria manifatturiera, l'Italia ha stabilmente goduto di un costante
surplus commerciale - il quinto più alto tra i grandi paesi dopo Germania Cina
Giappone e Corea del Sud.
Questa performance
potrebbe essere stata un a buon viatico a sostegno della crescita interna.
È successo il contrario. Le norme sul disavanzo di bilancio dell’eurozona,
imponendo l'insensato raggiungimento della parità di bilancio nel mezzo della
crisi, hanno comportato la riduzione dei consumi privati e la sostanziale
paralisi degli investimenti pubblici. Non sorprende che il risultato sia stato
uno sconcertante calo di cinque punti del reddito nazionale rispetto al livello
del PIL del 2007, mentre la disoccupazione, che oscillava intorno al 6 per
cento alla vigilia della crisi, raddoppiava el corso del decennio.
La norma del pareggio del bilancio imposto dalla Commissione europea
compiva la sua opera demolitrice.
Ci si
potrebbe chiedere se le scelte di politica economica dipendano, in ultima
analisi, dall'osservanza di norme fissate da una remota, ai più sconosciuta,
tecnocrazia di Bruxelles. O se l’amministrazione del bilancio nazionale non
debba essere una normale prerogativa di un governo impegnato ad attuare il
programma che gli è stato affidato dall'elettorato. Ma per la Commissione
europea il periodico svolgimento delle elezioni è un esercizio che attiene
puramente all’estetica non alla sostanza della democrazia.
Verso un
nuovo modello dell’eurozona?
Concludendo,
il governo italiano ha contribuito all'apertura del vaso di Pandora, rendendo
palesi le contraddizioni della politica dell’eurozona. Le prossime elezioni di
maggio per il rinnovamento del Parlamento europeo rifletteranno i profondi
cambiamenti dello scenario politico europeo. Tra i quali spicca l'eclissi
dei partiti socialdemocratici e, in generale, di centro sinistra.
Il primo
obiettivo di una probabile nuova
maggioranza nel Parlamento europeo dovrebbe essere la cancellazione del Patto
fiscale, l'accordo intergovernativo che, come abbiamo visto , non è mai stato
discusso, per non dire approvato, dal Parlamento europeo. Annullare le sue
regole cervellotiche non significa un'Unione senza regole. Al contrario,
sarebbe sufficiente tornare al Trattato di Maastricht che nel 1992 fissò i
principi istitutivi della futura eurozona. Gli Stati aderenti alla moneta unica
avrebbero conservato un’autonomia di gestione del bilancio nel quadro di un
disavanzo flessibile entro il tre per cento del PIL. Su questa base sarebbe
stato possibile per ciascuno Stato membro gestire una politica economica
relativamente autonoma in linea con le sue specifiche esigenze strutturali e
congiunturali nell’ambito di un quadro di cooperazione predefinito.
Una nuova
maggioranza parlamentare europea non sarà presumibilmente posta di fronte
all'alternativa sul mantenimento o la cancellazione della moneta unica.
Il punto non è questo. Come abbiamo visto nell’Unione europea, che è la
conquista da salvaguardare, convivono paesi con e senza l’euro. L’obiettivo è
il cambiamento delle regole spesso arbitrarie che vi sono state
gradualmente sovrapposte attraverso un processo decisionale sfuggente al
controllo democratico e requisito dalle tecnocrazie dominanti a livello nazionale
e comunitario. Con l’indiscutibile e sconsolante risultato di allontanare
l’eurozona dalle aree più avanzate a livello globale, insieme alla creazione di
crescenti divergenze fra i paesi che ne sono stati all’origine, e all’interno
di ciascuno di essi.
Il
riconoscimento del fallimento della vecchia politica è la premessa per definire
un nuovo quadro politico basato sull'uso della moneta unica come
strumento che gli stati membri utilizzano collettivamente per creare più
avanzati equilibri economici e sociali nell’ambito di un ristabilito consenso
popolare.
In
definitiva, Un realistico riconoscimento della crisi dovrebbe essere la
premessa per l'apertura di una nuova fase dell’eurozona e, indirettamente,
dell’Unione europea. Non è sicuro che ciò avvenga. Ma è una possibilità reale.
E potrebbe anche essere l'ultima possibilità per dare all'euro un futuro
credibile dopo un decennio perduto.
* Editor of
Insight and President of CISS - Center for International Social Studies (Roma).
He was National Secretary of CGIL; Member of ILO Governing Body,and Advisor of
Labor Minister for European Affairs.(a.lettieri@insightweb.it)(Antoniolettieriinsight.blogspot.it/