di
Carlo Petrini *
Chi dice Kobane purtroppo dice guerra, invece noi
diciamo orti, diciamo rinascita, diciamo libertà. Oggi ne parliamo proprio con Ozlem
Tankirulu, presidente dell’Ufficio di Informazione del Kurdistan
in Italia. Prima della guerra il territorio di Rojava, in
cui si trova Kobane, era ricco di coltivazioni: «Il 60% della produzione agricola della Siria arriva da quest’area»,
ci racconta Ozlem. Ora dopo la distruzione dei pozzi, molte zone accusano la
mancanza di acqua, ma si riesce comunque a coltivare ciò che non richiede molto
sforzo idrico. Le tecniche secolari di coltivazione – che risalgono a tempi
antichissimi, quelli delle grandi civiltà sviluppatesi sui fiumi Tigri ed
Eufrate – hanno permesso alla popolazione
locale di riprendere l’uso comune delle terre.
In alcuni villaggi semidistrutti dalla guerra, circondati da prati verdi e mucche libere al
pascolo, le famiglie hanno deciso di tornare e riabitare le terre liberate
dalla violenza. L’intento comune, adesso, è la necessità di avviare un processo
di ricostruzione profonda proprio a partire dalla terra, tornando a renderla
produttiva, tornando a cibarsi dei suoi frutti e restituendo speranza ai tanti
siriani che ancora vivono nella completa insicurezza. «Per la popolazione locale è fondamentale mantenere un legame
con la loro terra madre, significa continuare a coltivare la vita» continua
Ozlem.
Il futuro di Kobane adesso passa anche dagli orti,
«che rappresentano molto più di semplici appezzamenti di terreno: sono il
simbolo della libertà di un popolo e di una terra che è conosciuta come la
culla della civiltà». Nel 2015, una nostra delegazione ha avviato con l’amministrazione
democratica del Rojava un piano per realizzare orti nelle scuole, tramite il
progetto “Orti in Rojava”. Il nostro obiettivo? Portare in questa terra
martoriata l’esperienza di Slow Food, quegli orti didattici dove oltre a
coltivare il proprio cibo si partecipa a un programma di educazione ambientale
e alimentare. «L’iniziativa è stata accolta con
talmente tanto entusiasmo da grandi e piccini che siamo riusciti a dare vita a
orti urbani e scuole in una decina di villaggi coinvolgendo oltre 1000
studenti».
Le attività scolastiche sono destinate a promuovere la libertà dei bambini e delle bambine, in tutti i campi. Tra queste figura l’insegnamento
della lingua curda, in precedenza vietata, e dell’ecologia come principio
fondamentale della società. La coltivazione degli alberi da frutto era
scoraggiata dal regime per favorire la monocoltura di grano. Ora c’è la volontà
di progettare, nei dintorni di Kobane, la coltivazione di fichi, melograni e di
orti per il consumo delle famiglie e della comunità. Un sistema, questo, in cui
le donne giocano un ruolo cruciale sia a livello domestico che politico:
un’esperienza di avanguardia sociale che ha anche avuto, come momento
costitutivo, l’adozione di una carta che rifiuta autoritarismo e militarismo a
favore di uguaglianza e dritti umani.
«In curdo usiamo la stessa parola per indicare al
contempo donna
e vita, proprio per sottolineare il collegamento con la natura e la terra.
A Kobane è stato fondamentale agire per proteggere quella terra, quella vita, e
garantire così un futuro alle comunità locali». È a maggior ragione in contesti
difficili che il cibo ricopre un ruolo fondamentale per guardare avanti: «il
cibo crea speranza, rappresenta la vita, e chi sente di avere un collegamento
con la vita non lascerà la sua terra e la sua comunità». Questo per Ozlem
rappresenta il cibo del cambiamento: «Significa collaborare, responsabilizzare,
rafforzare il senso di unione, coltivare insieme un futuro per queste terre,
restituendo quella biodiversità
che l’ha resa ricca nei secoli passati».
* da Slowfood.it
, 25 Gennaio 2019
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