Il programma è composto da 336 pagine e contiene gli
step che porteranno Berlino a dire addio al fossile entro 20 anni. Previsto lo
stanziamento di circa 40 miliardi per ricollocare i circa 20mila lavoratori del
comparto in altri settori ad alto contenuto innovativo, in primis quelli
relativi alle energie rinnovabili. Una mossa pensata anche per recuperare
consensi rispetto alla destra e alla sinistra
di Francesco Sassi *
Il quarto e
ultimo governo guidato da Angela Merkel, in coalizione con i socialisti
dell’SPD, si è assunto la storica responsabilità di pianificare
l’uscita della Germania dall’era del carbone. In una giornata che
rimarrà a lungo nella storia tedesca ed europea, sabato scorso una Commissione
di 28 esperti ha definito la data ultima di utilizzo del carbone come
materia prima per la produzione di energia elettrica. Una risoluzione
che ha forti ricadute, ben al di là della lotta al cambiamento climatico
e le cui conseguenze sono tutt’altro che relegate al futuro di Berlino.
Entro il 2038 tutte le centrali a carbone attive in terra tedesca cesseranno
qualsiasi attività. Questo è l’esito politico dopo la conclusione
di uno studio finanziato dall’attuale governo tedesco e che è stato portato
avanti dalla scorsa estate, aggregando esperti e rappresentanti
dell’industria tedesca del carbone, del mondo accademico e diverse associazioni
ambientali.
Per capire
l’entità della presa di posizione di Berlino, occorre notare che attualmente il
carbone, nelle sue diverse forme, produce all’incirca il 34%
dell’elettricità necessaria ad alimentare la principale potenza economica e
industriale del nostro continente. Soltanto le energie
rinnovabili, solare ed eolico in testa, producono un volume maggiore di energia
elettrica. Ecco perché la decisione di sabato scorso segna un passo
risolutivo della Germania nel percorso verso il raggiungimento degli
obiettivi imposti dall’accordo di Parigi del 2015. La politica adottata,
nonostante l’inevitabile ricaduta sui costi dell’elettricità per i consumatori,
gode di un largo supporto da parte della popolazione. Circa tre quarti
degli intervistati dalla ZDF, televisione pubblica con sede a Mainz,
si dice a favore di un’uscita veloce del paese dalla dipendenza dal
carbone. Ecco, in parte, il perché il provvedimento sia arrivato alla sua adozione,
nonostante l’opposizione esplicita della lobby del carbone.
Il programma
di fuoriuscita è composto da 336 pagine e contiene diversi punti
salienti. Una revisione triennale degli obiettivi di riduzione
dell’utilizzo del carbone è stata pensata per pianificare una graduale,
ma perentoria, discesa dei consumi del combustibile fossile
più dannoso per l’ambiente. Entro il 2022 dovranno invece essere chiusi circa
un quarto degli attuali impianti, per un totale di circa 12,5 Gigawatt
di potenza. La commissione non ha specificato quali impianti dovranno essere
spenti. Saranno le stesse compagnie a scegliere quali arrestare entro 3
anni. Il piano prevede un’eventuale anticipazione della deadline al 2035
e nel 2032 una speciale commissione deciderà se imporre uno stop
anticipato, il quale non dovrà in ogni caso andare oltre il 2038. La Commissione
ha previsto lo stanziamento di circa 40 miliardi di euro nei prossimi 20
anni, una cifra che servirà ad accompagnare la Germania fuori dalla
dipendenza dal carbone. L’obiettivo principale di tale operazione è il ricollocamento
di migliaia di posti di lavoro, attualmente circa 20mila, in altri
settori ad alto contenuto innovativo. Il governo tedesco ha anche
promesso lo spostamento di 5mila posizioni all’interno della struttura amministrativa
federale verso le regioni che verranno più colpite dalla chiusura
delle centrali, in particolare quelle della Sassonia, Brandeburgo,
Nordreno-Vestfalia e Sassonia-Anhalt.
Proprio in
Sassonia si gioca una partita assai importante per gli equilibri politici
nel paese. La crescita repentina dei consensi del partito di destra AfD
(Alternative für Deutschland) negli ultimi anni è dovuta, in parte,
alla capacità della formazione di criticare l’operato in campo economico
del governo federale. Oltretutto, la stessa formazione ha bollato
i report climatici, stesi dalle Nazioni Unite negli ultimi
anni, come “Non scientificamente solidi”. Alice Weidel, membro del
Bundestag e fra i personaggi di spicco di AfD, condivide le posizioni di Donald
Trump riguardanti il cambiamento climatico in corso e ritiene che sia “impossibile
che gli umani abbiano dato inizio alle presenti fluttuazioni”. Va
da sé che AfD abbia espresso la propria contrarietà alla decisione di Berlino
riguardante la fine del ciclo del carbone.
Le
condizioni economiche sfavorevoli nel Länder, comparate ad altre regioni
del paese, e l’ascesa di AfD, avrebbero potuto intimorire il governo
nella scelta di un provvedimento così impetuoso. Ora la parola passerà
proprio ai 16 Länder tedeschi, i quali dovranno approvare, o meno, la delibera.
Un segnale positivo a livello internazionale, così ha definito il decreto la
ministra per l’Ambiente Svenja Schulze, appartenente alle fila dell’SPD.
L’enorme interesse e supporto a livello elettorale che le tematiche
ambientali riscuotono nel paese ha certamente avuto un peso
sull’accelerazione impressa dal governo. L’emorragia di voti sofferta
dai socialdemocratici durante gli ultimi turni elettorali, in
particolare nei confronti del partito dei Verdi, ha innescato a Sinistra
una sfida in positivo fra SPD e Die Grünen, con il tentativo dei primi di far
valere la propria posizione all’interno dell’esecutivo e così recuperare
terreno in materia ambientale.
La Germania
punta quindi a slegarsi dalla zavorra del carbone proprio durante gli
ultimi anni di vita delle proprie centrali nucleari. Infatti, nel
marzo 2011, a seguito del disastro giapponese di Fukushima, il secondo
governo Merkel aveva deciso di chiudere tutte e 17 le proprie centrali entro il
dicembre del 2022. Sei mesi dopo la compagnia tedesca Siemens aveva
annunciato di volersi ritirare completamente dalla costruzione di
qualsiasi centrale nucleare. Nel futuro, il paese che più di ogni altro in Europa
ha deciso di investire sulle rinnovabili, si troverà necessariamente
costretto ad aumentare gli investimenti in tale settore. Da queste però
è impossibile ad oggi poter prevedere di compensare l’intero volume di elettricità
prodotta oggi dal carbone. Il miglior candidato “alternativo” alla transizione
verso un futuro più sostenibile è necessariamente il gas naturale,
di cui però la Germania produce soltanto il 10% dei volumi consumati oggi.
Berlino è
già ora il principale importatore di gas naturale di tutta l’Unione
Europea, surclassando di gran lunga gli altri stati comunitari. La Germania
è al tempo stesso anche il primo importatore singolo di gas russo. Ecco
perché la decisione di sabato scorso ha implicazioni ben più larghe di
quelle afferenti al singolo paese, soprattutto in un’epoca segnata dalla contrapposizione
fra Washington e Mosca riguardante il progetto di costruzione del
gasdotto baltico Nord Stream 2. Lo stesso prevede di raddoppiare il collegamento
diretto fra la Russia e il suo, ad ora, principale mercato di riferimento.
Il tutto mentre gli Stati Uniti sono interessati ad esportare, proprio
in Europa, buona parte del proprio gas, prodotto a seguito della
rivoluzione del fracking. Ecco perché la scelta del principale mercato
energetico europeo è cruciale per il futuro della sicurezza energetica,
non solo della Germania, ma dell’intero continente. Una scelta che
rischia di inasprire ulteriormente le concrete tensioni geopolitiche
riguardanti il futuro energetico dei paesi appartenenti all’Unione Europea.
* da il fatto quotidiano - 3 febbraio 2019
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