di Toni
Muzzioli *
Quali che siano le opinioni di ciascuno, anche molto
critiche, sugli ultimi anni del governo Maduro (così come sulla stagione
bolivariana nel suo complesso), non si può non condannare il tentativo di
“cambio di regime” che una parte dell’opposizione venezuelana con il supporto
di Stati Uniti, Canada, parte dell’America Latina e buona parte dei Paesi
europei (con la lodevole eccezione, per ora, dell’Italia) sta portando avanti
dal 23 gennaio scorso, mediante il riconoscimento dell’autoproclamato
presidente ad interim Juan Guaidó.
Errori economici ed errori politici, insieme al vero e
proprio strangolamento economico che viene imposto da anni al Paese (culminato
nel blocco dei fondi
venezuelani nelle banche americane e inglesi per impedire al governo
l’acquisto dei beni di prima necessità) hanno portato il Paese alla
difficilissima situazione attuale: iperinflazione, carenza di beni di prima
necessità, fuga dal Paese di centinaia di migliaia di persone.
Il ritardo nell’avvio di una politica di sviluppo
economico, nell’illusione che la rendita petrolifera potesse continuare
indefinitamente a finanziare i programmi sociali della rivoluzione
“bolivariana”, da una parte, e, dall’altra, la fuga in avanti “rivoluzionaria”
a fronte di una crisi egemonica complessiva hanno aperto la porta alla
tentazione golpista, mai sopita, della destra venezuelana.
E tuttavia appare evidente che quella in corso è
un’operazione ben orchestrata volta a far “saltare il banco” della difficile
situazione politica interna pur di far cadere Maduro, mettendo in conto anche
il rischio di una spaventosa guerra civile. Questo ci sembra, oggi, il punto
essenziale da denunciare, più che testimoniare la simpatia che pur nutriamo
verso questo esperimento politico-sociale, o discutere potenzialità e limiti
del processo di transizione in corso in Venezuela (ce ne sarà modo altrove,
speriamo, e intanto rimandiamo alle interessanti riflessioni di Gennaro Carotenuto). In questa
nota, vorremmo solo mettere in fila alcuni elementi di fatto, di informazione pura
e semplice, fattuale e documentata, un piccolo contributo di verità contro
l’ondata di falsificazioni da cui siamo sommersi.
* Il presidente Guaidó non è costituzionalmente
regolare. Circola molto la tesi che Guaidó sia
stato nominato presidente dall’Assemblea nazionale in base alla Costituzione
vigente. Ciò è semplicemente falso. La Costituzione del Venezuela in effetti
prevede la possibilità della sostituzione del presidente della Repubblica in
caso di impedimento e si esprime così (all’art. 233): «Sono cause di
impedimento permanente del presidente della Repubblica: la morte, la rinuncia o
la destituzione decretata con sentenza dal Tribunale supremo di giustizia e con
l’approvazione dell’Assemblea nazionale; l’abbandono dell’incarico, dichiarato
come tale dall’Assemblea nazionale, e la revoca popolare del suo mandato».
Tutti casi che, evidentemente, non ricorrono nella situazione attuale! Ma poi,
ammessa e non concessa la legittimità di tale atto, è vero che l’Assemblea
nazionale ha nominato Guaidó? Niente affatto. Come è stato osservato, in realtà, Guaidó ha
fatto davvero tutto da solo, o meglio consultandosi con Trump e Bolsonaro.
Altrimenti si sarebbe dovuto sottoporre a un voto della stessa Assemblea
nazionale, convincendo le numerose altre “prime donne” della rissosa
opposizione venezuelana.
* L’elezione di Maduro fu irregolare? Si sente dire che le scorse elezioni presidenziali
sarebbero state invalide (usando peraltro argomenti piuttosto vaghi). Va detto
che, con una sorta di loro coerenza interna, i Paesi che ora hanno avallato la
figura dell’autoproclamato presidente (USA e UE in primo luogo), non avevano
riconosciuto i risultati delle elezioni presidenziali del maggio 2018 fin da
subito, seguendo peraltro il suggerimento dell’opposizione stessa. Ricordiamo
come andarono le cose. A quelle elezioni in effetti molti elettori non
trovarono il loro candidato, per la semplice ragione che gran parte delle
formazioni dell’opposizione, riunite nella Mesa de la Unidad Democrática (MUD),
scelsero di boicottarle, con il curioso argomento che tanto sarebbero state
viziate da brogli. Le elezioni ovviamente si tennero lo stesso, peraltro con la
partecipazione di altre forze dell’opposizione, e Maduro vinse con il 67,7% dei
voti (mentre il principale candidato dell’opposizione che accettò di
partecipare, Henri Falcón, ebbe il 21,2%). È vero, come pure si ripete, che
l’affluenza fu bassissima (il 46%), per via appunto del boicottaggio, ma anche
forse di uno scoraggiamento di tanto popolo bolivariano; ma quando mai la bassa
affluenza è motivo di invalidità? (Cosa dovremmo fare, in Europa, con le nostre
sempre più basse affluenze alle urne?). Quelle elezioni, comunque, furono
supervisionate da una commissione internazionale di osservatori capeggiata
dall’ex premier spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero, che le reputarono del
tutto regolari [qui
conferenza stampa di Zapatero], osservando tra l’altro che si erano
svolte nelle medesime condizioni di quelle del 2015, nelle quali aveva prevalso
l’opposizione, che allora però non ebbe nulla da ridire. Da segnalare, ancora,
che le elezioni in Venezuela si basano su un sistema elettronico, che minimizza
i rischi di brogli. Un’altra osservazione, infine: perché nessuno, allora, tra
i partiti di opposizione (quelli che parteciparono alle elezioni), pur avendo
sollevato subito dubbi sulla regolarità, fece ricorso? La verità è che quelle
elezioni, così come le continue consultazioni elettorali che si svolgono nel
Paese (se ne sono svolte in questi vent’anni 23: 5 presidenziali, 4
parlamentari, 10 amministrative e 4 referendum costituzionali), sono sempre
state pienamente regolari, sia quando hanno dato consenso al chavismo sia
quando glielo hanno negato (per esempio in occasione del referendum sulla
riforma costituzionale voluto da Chavez nel 2007).
* È un golpe. Parola di Guaidó. Cosa diremmo se in un Paese europeo un leader di
opposizione dicesse che sta tenendo riunioni segrete con ufficiali
dell’esercito e degli apparati di sicurezza per propiziare una svolta politica
nel Paese? Che questo signore ha tendenze golpiste, probabilmente. Ebbene,
queste cose le ha dette, anzi scritte, lo stesso Guaidó sul “New York Times”.
Leggiamole: «La transizione avrà bisogno del sostegno da parte dei contingenti
principali dell’esercito. Abbiamo avuto incontri segreti con membri
dell’esercito e delle forze di sicurezza. Abbiamo offerto l’amnistia a quelli
di loro che saranno riconosciuti non colpevoli di crimini contro l’umanità.
L’abbandono di Maduro da parte delle forze armate è cruciale per rendere
possibile un cambio di governo e la maggioranza di coloro che servono in esse
concordano che la situazione attuale è insostenibile» [Juan Guaidó: Venezuelans,
Strenght Is in Unity, “New York Times”, Jan. 30, 2019].
* Un nome una garanzia. Elliott Abrams. Se poi non bastassero le parole del protagonista di
questa vicenda, si guardino i soggetti che stanno agendo, sul fronte
statunitense. L’operazione in corso – è stato notato – è una guerra del deep
state, o «stato profondo», quella costellazione di esercito, agenzie di
intelligence, establishment politico che vuole fortemente che gli USA restino
attivi ovunque per imporre la propria egemonia (o per ostacolare quella dei
competitori). Ora se la stanno vedendo con un presidente bizzarro che ha
addirittura vinto le elezioni rivendicando un progressivo ritiro dai terreni di
intervento militare, per concentrarsi sul rafforzamento dell’economia nazionale
(la politica dell’“America First”). Può darsi, però, che lo abbiano
convinto che almeno in quello che da sempre gli USA considerano il “cortile di
casa” è bene che gli USA continuino a fare il gendarme internazionale [cfr. Manlio Dinucci, Venezuela,
golpe dello Stato profondo]. È questa la tesi sostenuta dal
vicepresidente Mike Pence in un’intervista a “Fox News”. Pence, che di fatto ha
preso in mano la situazione fin dall’inizio, arrivando al punto di rivolgersi
direttamente al popolo venezuelano («Hola, I’m Mike Pence…») per
invitarlo alla sollevazione contro Maduro [lo si può vedere qui]. Ma guardare i nomi di chi
ci sta “mettendo la faccia” è molto istruttivo. Centrale è il ruolo di Marco
Rubio, senatore repubblicano di origini cubane con forti legami col mondo degli
espatriati cubani di Miami; John Bolton, consigliere sulle questioni
internazionali e grande sostenitore della guerra all’Iran; e infine, un grande
ritorno: Elliott Abrams, un nome su cui è bene soffermarsi un momento. Nominato
inviato speciale per il Venezuela dal segretario di Stato Mike Pompeo il 26
gennaio (esattamente in occasione del riconoscimento di Guaidó), Elliott Abrams
non è certo un funzionario di primo pelo. Già consigliere e segretario di Stato
sotto Reagan negli anni Ottanta, si diede da fare per organizzare le forze
controrivoluzionarie in Nicaragua, finendo coinvolto nell’affaire Iran-Contras,
dopo il quale si inabissò per un po’ di tempo. Salvo, parecchi anni dopo,
rispuntare come uomo di punta di quel circolo di intellettuali bellicisti, i
cosiddetti neocons, che suggerirono a George W. Bush tutta la
ristrutturazione del Medio Oriente sulla base di una costante “esportazione
della democrazia” (strategia che poi, via Hillary Clinton, passò almeno in
parte all’Amministrazione Obama). Durante l’amministrazione Bush, Abrams fu tra
l’altro nominato responsabile per la “Democrazia, i diritti umani e le
operazioni speciali” all’interno del National Security Council, e non cessò di
occuparsi della sua antica passione, l’America Latina, se è vero che fu uno
degli organizzatori del tentato colpo di Stato contro Chavez dell’aprile 2002,
secondo quanto riferì l’“Observer” [Ed Vulliamy, Venezuela coup linked to Bush team,
“Observer”/“The Guardian”, 21 Apr. 2002].
Non si sa se la presenza di Abrams
alla corte di Trump, insieme a Bolton, sia il segno della infiltrazione dei
circoli neocons in una Amministrazione che sembrava loro preclusa; ma di
certo la sua nomina a inviato speciale per il Venezuela è una garanzia sul
carattere golpista dell’operazione-Guaidó. [Sul
“ritorno” di Abrams si vedano: Jon Schwartz, Elliott Abrams, Trump’s pick to bring
“democracy” to Venezuela, has spent his life crushing democracy, “The Intercept”, January 30, 2019; Julian Borger, US diplomat
convicted over Iran-Contra appointed special envoy for Venezuela, “The Guardian”, 26 Jan., 2019, e il commento di Alberto Negri].
* Le ragioni sono umanitarie, ovvero: libero mercato e
petrolio. Parola del “Wall Street Journal”. A chiarire che dietro le ragioni
democratico-umanitarie addotte per propiziare i “cambi di regime” si nascondano
interessi bassissimi dal forte profumo di idrocarburi, dovrebbero essere
sufficienti le guerre a guida USA dell’ultimo quarto di secolo. In ogni caso, è
sulle pagine del “Wall Street Journal” del 31 gennaio che possiamo trovare le
ragioni per le quali si sostiene l’autoproclamato presidente: egli, infatti, ha
dichiarato di voler «ricercare aiuto finanziario da organizzazioni
multilaterali, ottenere prestiti con accordi bilaterali, ristrutturare il
debito e aprire il vasto settore petrolifero venezuelano all’investimento
privato». Il piano economico di G. – continua il giornale economico – «include
la privatizzazione delle proprietà pubbliche» e la cessazione dei «dispendiosi
sussidi statali» assicurati dal governo attuale. Più chiaro
di così… [Ryan Dube and Kejal Vyas, Venezuela Opposition
Leader Outlines Plan to Revive Nation, “Wall
Street Journal”, Jan. 31, 2019].
Concludiamo con un sorriso, nonostante la gravità
della situazione. Nella sua megalomania, giorni fa l’autoproclamato presidente
venezuelano aveva dichiarato che non escludeva di «autorizzare l’intervento
militare USA»… Ora gli risponde, via Twitter, il deputato democratico Ro
Khanna: «Mr. Guaidó, lei potrà anche autoproclamarsi leader del Venezuela ma
non può autorizzare alcun intervento militare statunitense. Solo il Congresso
può farlo. E non lo faremo». Ecco, speriamo.
Toni
Muzzioli (Milano, 1971) lavora in ambito editoriale e si occupa di questioni
filosofiche e politico-sociali, in una prospettiva eco-socialista. Ha
pubblicato articoli e saggi per diverse riviste e siti web, tra i quali
“Marxismo oggi”, “Giano”, “Lavori in corso” (Punto Rosso), “L’ospite ingrato”,
“Forma Cinema”.
* da volerelaluna.it
- 18 febbraio 2019
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