5 luglio 2025

Dal Mediterraneo alle Alpi, ultima chance per il clima: ecco cosa dicono i dati

 I dati scientifici sono chiari, così come gli effetti ma c’è ancora chi sminuisce la crisi ambientale mentre i cambiamenti stanno accelerando

di Mario Tozzi *

Prima di tutto i dati. Le temperature medie dell’atmosfera non sono mai state complessivamente così alte come negli ultimi giorni in Europa, un incremento che ha prodotto, produce e produrrà ondate di calore in grado di minacciare i sistemi biologici dei viventi, esattamente come ipotizzato nel VI rapporto IPCC oltre due anni fa. Le prime vittime confermano questa tendenza e a poco vale ricordare che, al mondo, si muore anche per il freddo, perché in passato, a causa del caldo, non si moriva.

L’incremento assassino delle temperature va ben al di là delle nostre esperienze personali e dei nostri fallaci ricordi: negli anni ’60 del XX secolo si registravano una decina di giorni con temperature al di sopra dei 32°C, all’inizio degli anni Duemila erano diventati una ventina e oggi sono più di trenta, per non dire delle notti tropicali, con buona pace di mio nonno che girava in canotta e di quel titolo di giornale che, nel 1950, riportava temperature di 42°C a Milano: tutto vero, ma tutto irrilevante, perché ciò che conta sono i dati provenienti da decine di migliaia di centraline sparse in tutto il mondo (e “corrette” se si trovano vicino alle città, che sono più calde, delle campagne).

Lo zero termico e le temperature del Mediterraneo

Altri dati sono quelli relativi allo zero termico, cioè il punto (o, meglio, la linea) al di sopra del quale la temperatura dell’atmosfera scende sotto gli 0°C e dunque possiamo avere neve e conservare i ghiacciai. Le ultime registrazioni danno lo zero termico sulle Alpi (e sugli Appennini) a oltre 5.100 m di quota: niente di drammatico, se non fosse che la montagna più alta d’Europa arriva a 4.700 metri.

Eravamo stati buoni profeti nel presagire, anni fa e sulla base dei dati scientifici, che il 2021 sarebbe stato l’anno più fresco e più umido rispetto a quelli che sarebbero seguiti, nonostante le accuse di allarmismo e di ecoansia: niente di tutto ciò, si rimane ottimisti, ma bene informati, però.

Fra i dati preoccupano anche quelli della temperatura degli oceani e dei mari, del Mediterraneo in particolare, che sprigiona in luglio il calore che avrebbe fatto registrare in agosto, confermandosi hot-spot climatico, con tutta l’Italia al suo interno.

Preoccupano perché acque più calde sviluppano cicloni, trombe marine e d’aria, limitati tornado e perfino downburst. In pratica ciò significa aumento delle perturbazioni meteorologiche a carattere sempre più violento: se il Mediterraneo avesse avuto le dimensioni del Golfo del Messico avremmo registrato gli stessi cicloni, perché le temperature ci stanno tutte. Ma quelli che si scatenano adesso bastano e avanzano, come dimostrano le due alluvioni consecutive in Emilia Romagna (ma non avevano periodi di ritorno millenari?) o le alluvioni ripetute di Valencia, delle Baleari e delle Cicladi.

L’accelerazione della crisi climatica negli ultimi 70 anni

Questi dati riguardano il tempo atmosferico, ma sono perfettamente in linea con la tendenza climatica, che mostra un’accelerazione mostruosa nell’incremento delle temperature negli ultimi 70 anni. Una crisi climatica globale che è accelerata e anomala rispetto al passato e che sta dispiegando le sue conseguenze nefaste esattamente secondo le previsioni dei modelli climatici elaborati già da decenni.

Siccità, tempeste di vento, mareggiate eccezionali, chicchi di grandine grossi come pesche, alluvioni, frane e incendi sono tutti fenomeni in crescita e accomunati dalla crisi climatica attuale. E sono tutte conseguenze che costano in termini di vite umane e animali e in denaro: chi afferma che non ci possiamo permettere un Green Deal perché non sostenibile economicamente difende solo la maniera tradizionale di fare affari, una maniera che sta per essere spazzata via dalla crisi climatica. E dimentica che il non prendere decisamente una via alternativa a questo sistema economico e non fare nulla costa molto di più.

Perché il fatto nuovo, che distingue questa crisi da ogni cambiamento climatico precedente, è che dipende da una sola specie, i sapiens, attraverso le loro attività produttive, come ha dimostrato almeno il 99% degli specialisti mondiali. Siamo l’unica specie che ha dissotterrato il potenziale mortifero dei combustibili fossili, liberando in atmosfera un’anidride carbonica che sarebbe stata, invece, sottratta ai cicli naturali del carbonio. Se vogliamo stare ai dati.

Chi crea confusione

Se, invece, vogliamo indurre confusione, allora possiamo anche ascoltare il fisico delle particelle che dichiara a un giornale che la crisi climatica non esiste o l’ingegnere che dice che non dipende da noi: se hanno dati li producano e scrivano articoli scientifici, o li leggano almeno, non rilascino interviste, perché il metodo scientifico funziona così e non lascia spazio alle opinioni.

Il dibattito fra gli scienziati sulle cause della crisi climatica attuale è chiuso e si riaprirà solo con nuovi dati che, al momento, non ci sono. Perdere ancora tempo per agire sulle cause e azzerare le emissioni clima-alteranti è colpevole, affidarsi ai mercanti di dubbi è imperdonabile.

* da La Stampa via Infosannio - 5 luglio 2025

4 luglio 2025

Che cosa è la “civiltà ecologica” di cui parla il governo cinese?

di Virginie Arantes *

Dal 2007, i leader cinesi affermano di star costruendo una “civiltà ecologica” (态文明, shēngtài wénmíng N.d.R.). Se consideriamo la decarbonizzazione come la riduzione dei gas serra, mentre gli Stati Uniti stanno regredendo, la Cina sta avanzando, ma verso quale ecologia?

Il 23 aprile 2025, durante l’incontro dei leader sul clima e la giusta transizione (ospitato dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva e dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, N.d.R.), Xi Jinping ha chiesto di difendere “il sistema internazionale incentrato sulle Nazioni Unite” e di “mantenere la rotta dello sviluppo verde e a basse emissioni di carbonio”, denunciando di sfuggita le grandi potenze che “persistono nel promuovere l’unilateralismo e il protezionismo”.

In un contesto in cui gli Stati Uniti hanno annunciato per la seconda volta il loro ritiro dall’accordo di Parigi, la Cina si presenta come un attore centrale nella transizione verde, promettendo la neutralità carbonica entro il 2060 e facendo della “civiltà ecologica” la nuova bussola del suo sviluppo.

Ma cosa si nasconde davvero dietro questa espressione, così spesso citata nei discorsi ufficiali? È il segno di una maggiore consapevolezza delle problematiche ambientali? O è l’espressione di una visione strategica, in cui ecologia, sviluppo e governance sono strettamente interconnessi? Uno sguardo retrospettivo a questo termine, diventato uno dei pilastri dell’attuale potenza cinese.

Il concetto di “civiltà ecologica” è apparso per la prima volta nei discorsi del Partito Comunista Cinese (PCC) sotto la presidenza di Hu Jintao nel 2007. All’epoca, il concetto era ancora vago, ma si riferiva già a una realtà molto concreta: una Cina che si trovava ad affrontare una crisi ambientale senza precedenti.

Infatti, oltre il 60% dei principali fiumi è gravemente inquinato, il 90% dei corsi d’acqua urbani è contaminato e oltre 300 milioni di persone non hanno accesso ad acqua potabile sicura. I “villaggi del cancro” si stanno moltiplicando e le proteste contro dighe, inceneritori e complessi chimici preoccupano le autorità. Nel 2013, un alto funzionario del Partito ha riconosciuto pubblicamente che le questioni ambientali erano diventate una delle principali cause di “incidenti di massa”, e queste proteste collettive preoccupano il governo centrale. Secondo Yang Chaofei, vicepresidente della Società cinese di scienze ambientali, i conflitti ambientali erano già aumentati del 29% all’anno tra il 1996 e il 2011 e, mentre il governo ha rapidamente smesso di pubblicare i dati, le stime di Sun Liping, professore all’Università di Tsinghua, indicano fino a 180.000 proteste nel 2010, una parte significativa delle quali legate all’ambiente. In questo contesto, la nozione di “civiltà ecologica” non nasce da un’improvvisa rivelazione etica, ma dal tentativo di una risposta politica a una crisi sociale ed ecologica ormai impossibile da ignorare. Il China Daily, il quotidiano ufficiale in lingua inglese pubblicato dal governo cinese, già nel 2007 avvertiva che questo concetto non doveva rimanere uno slogan, ma una forza trainante per un vero cambiamento.

A lungo una questione periferica, l’idea ha acquisito slancio nel 2012, quando Hu Jintao, leader della Cina dal 2003 al 2013, ha incluso la “civiltà ecologica” tra le cinque principali missioni strategiche del Partito, accanto allo sviluppo economico, politico, sociale e culturale. Ma è stato sotto Xi Jinping, che gli è succeduto ed è ancora oggi al potere, che è diventata una leva centrale di governo.

È quindi integrato nel 13° piano quinquennale nel 2015, stabilito come obiettivo strategico al 19° Congresso del Partito nel 2017, poi sancito nella Costituzione nel 2018. Xi Jinping lo inserisce inoltre in una lettura storica continua della modernizzazione cinese: Mao avrebbe permesso il passaggio dalla civiltà agricola a quella industriale, Deng Xiaoping, a capo del regime cinese dal 1978 al 1989, avrebbe instaurato una civiltà materiale e lui stesso sarebbe ormai portatore di una civiltà ecologica.

Ma questa ecologia non mira a rallentare la crescita. Al contrario, serve a reindirizzarla verso energie rinnovabili, tecnologie verdi ad alta tecnologia, cosiddette industrie “pulite”, zone sperimentali e città intelligenti. La Cina vuole diventare una potenza verde, capace di coniugare sviluppo economico, stabilità sociale e influenza internazionale.

In termini concreti, questa strategia si è tradotta in ingenti investimenti in infrastrutture verdi. La Cina, da sola, rappresenta ormai un terzo della capacità mondiale di energia rinnovabile. Nel 2024, ha stabilito un record installando 357 gigawatt (GW) di energia solare ed eolica, superando così già l’obiettivo di 1.200 GW per il 2030, con sei anni di anticipo. Questa crescita vertiginosa corrisponde a un incremento annuo del 45% per l’energia solare e del 18% per l’energia eolica.

Questa espansione ha contribuito a compensare gran parte della crescita energetica, tanto che le emissioni di CO2 sono rimaste inferiori rispetto all’anno precedente per dieci mesi consecutivi, nonostante un aumento annuo complessivo stimato allo 0,8%. Questa ripresa può essere spiegata dalla ripresa post-Covid e dalla domanda eccezionale di inizio anno, in particolare legata alle ondate di calore record che hanno interrotto la produzione idroelettrica, costringendo a un maggiore ricorso al carbone. Ma questo successo maschera un’altra realtà: l’impegno della Cina in materia di clima rimane principalmente tecnocentrico, poco redistributivo e fortemente dipendente da logiche industriali pesanti, come il carbone e i prodotti chimici, che continuano a crescere.

Il sistema nazionale di scambio di quote di emissione (ETS), lanciato nel 2021, è già il più grande al mondo in termini di volume coperto. Entro il 2024, la Cina rappresentava quasi il 60% delle vendite globali di auto elettriche e produceva circa il 75% delle batterie agli ioni di litio del mondo. Mentre alcuni analisti ritengono che la Cina potrebbe aver raggiunto il picco delle emissioni nel 2024, le autorità mantengono l’obiettivo ufficiale di un picco “prima del 2030” e non hanno ancora annunciato alcun cambiamento di tendenza.

Nel suo discorso del 2025 sulla Giusta Transizione, Xi Jinping collega la transizione climatica, la riduzione delle disuguaglianze e la leadership globale. Questo discorso completa il processo di affermazione della “civiltà ecologica” non solo come obiettivo di politica pubblica, ma come progetto di civiltà, integrato nella traiettoria storica del Partito e presentato come la via della Cina verso una modernità sostenibile. Oggi, la “civiltà ecologica” è parte integrante del fondamento ideologico del regime cinese di Xi Jinping. Sebbene il termine possa sembrare astratto, persino poetico, si riferisce tuttavia a un progetto molto concreto, che struttura le politiche pubbliche, i piani di sviluppo, il discorso diplomatico e l’apparato dottrinale del Partito. Questa non è un’ecologia civica o attivista, tanto meno partecipativa. La “civiltà ecologica”, così come è concepita in Cina, propone una transizione verde interamente guidata dallo Stato, centralizzata, pianificata e gerarchica. Promette un’inverdimento dello sviluppo senza trasformarne le fondamenta produttiviste né minare il monopolio del Partito: è una transizione dall’alto verso il basso, senza interruzioni. La natura è concepita come una risorsa strategica, un capitale da valorizzare, una leva per l’accumulazione e il potere nazionale.

In questo contesto, tutelare l’ambiente non significa rallentare lo sviluppo, ma riorientarlo. La parola d’ordine è produrre diversamente, non meno. Puntare su tecnologie verdi, “zone modello” e città intelligenti, come la nuova città di Xiong’an, progettata dalle autorità come laboratorio di modernità ecologica. Una riorganizzazione che, pur integrando il vocabolario ecologico, preserva la logica produttivista.

Sebbene tutte queste azioni possano essere osservate e commentate, non esiste, a rigor di termini, una definizione univoca di cosa sia la “civiltà ecologica” nei testi ufficiali. Diversi tentativi di chiarimento sono tuttavia emersi nei media vicini al potere o in testi divulgativi. Nel 2018, un articolo pubblicato sui media ufficiali la presentava come una fase etica e culturale successiva alla civiltà industriale. Viene descritta come basata sull’armonia tra uomo, natura e società e su una profonda trasformazione degli stili di vita, della produzione e della governance. Questa visione va oltre il semplice quadro cinese: mira a essere universale, ma partendo da una base definita a livello nazionale.

Nei suoi recenti discorsi, Xi Jinping afferma che la civiltà ecologica rappresenta la quarta grande trasformazione nella storia umana, dopo le civiltà primitiva, agricola e industriale. Si dice che derivi dalla crisi ecologica globale causata dall’industrializzazione e propone un nuovo paradigma che non abolisce l’industria, ma la integra in una logica ecologica a lungo termine.

Nei discorsi ufficiali, questo cambiamento viene presentato come un contributo intellettuale al marxismo contemporaneo. Xi insiste sul fatto che la natura non debba più essere considerata esclusivamente come uno sfondo o una risorsa passiva, ma come una forza produttiva a sé stante. L’ormai celebre slogan secondo cui “acque limpide e montagne verdi sono montagne d’oro e d’argento” diventa, in questo contesto, una vera e propria teoria del valore ecologico.

La ricchezza non si misura più solo in termini di produzione umana, ma anche di valore aggiunto naturale. Una foresta inesplorata, un fiume pulito, un ecosistema in equilibrio stanno diventando preziosi beni economici. Questa idea è oggi alla base delle discussioni sulla finanza verde, sulla contabilità ambientale e sui mercati del carbonio, che stanno acquisendo sempre più importanza nelle politiche pubbliche cinesi. L’istituzione nel 2021 di una rete nazionale di parchi, tra cui quello del panda gigante e della foresta pluviale di Hainan, illustra questa volontà di fare degli esseri viventi un capitale ecologico, economico e simbolico. La “civiltà ecologica” non è quindi semplicemente un altro concetto ambientale. È una forma di governance verde dai contorni mutevoli, che combina pianificazione, controllo, innovazione tecnologica e ambizione di civiltà. Combina gestione centralizzata, narrazioni di potere e ambizioni geopolitiche.

La “civiltà ecologica” è tanto una promessa di sostenibilità quanto un progetto di sovranità verde inteso a competere con i modelli occidentali. Ma il suo futuro, come quello della transizione ecologica globale, rimane dipendente da una domanda centrale: fino a che punto possiamo rendere verde un modello di sviluppo senza cambiarne le fondamenta?

* pubblicato su The Conversation e ripreso su beppegrillo.it - 2 luglio 2025

10 giugno 2025

Elezioni e Referendum senza progetto: così non si va da nessuna parte

di Massimo Marino

Ho smesso di contare ma negli ultimi anni nel nostro paese gli appuntamenti elettorali ( Comuni, Regioni, Politiche,  Europee, più eventuali Ballottaggi e Referendum )  si sono ormai assestati a 10-12 all’anno. E’ proprio così, anche se sembra incredibile non esiste una sola nazione nel pianeta che si avvicini a questo proliferare di piccoli e grandi appuntamenti elettorali che con una leggina di due paginette potrebbero essere concentrati facilmente in un'unica scadenza annuale o biennale in una data prestabilita: ad esempio fra la fine di aprile e l’inizio di maggio oppure all’inizio di novembre copiando una delle poche cose che val la pena di copiare dagli USA. Poche  differenze di atteggiamento sul tema  fra destre e sinistre, se non qualche modesta prova per rendere possibile il  voto, per studenti e non,  fuori dalla propria residenza elettorale o all’estero. Abbastanza difficoltosa  da avere comunque risultati modesti. In via sperimentale alle ultime europee si ebbero 24 mila richieste di fuori sede, per i referendum di oggi 67mila ma i fuori sede momentanei  stimati sono circa 5 milioni. Si potrebbe comunque facilitare la partecipazione aprendo e chiudendo  un seggio polivalente in tutti i Comuni ( o almeno uno per  provincia ) un giorno prima, con uno scrutinio regionale anticipato di 24 ore. La verità però è che molti elettori percepiscono la mancanza di progetti e di leader che li portino avanti. Vanno al mare da tempo e forse per i partiti è meglio così . Serve un progetto di cambiamento che nessuno sembra in grado di avviare, una alleanza di alternativa i cui punti principali trovino consenso in una parte larga della società e riporti in campo milioni di cittadini, giovani e anziani, che oggi nessuno è in grado di coinvolgere. Non so se serviranno  500 pagine o 500 giorni ma senza un progetto vero nessun cambiamento mi sembra probabile. Provo ad accennare il mio punto di vista.

Il primo punto di una alleanza di alternativa

Serve un vero election day annuale o biennale che è la soluzione più razionale per facilitare la presenza ai seggi: votare una volta sola all’anno o ogni due anni favorirebbe di molto la partecipazione ( io stimo da 4 a 8 mil. di votanti in più), ridurrebbe i costi, costringerebbe i partiti ad un salto di qualità e di serietà  presentando annualmente un chiaro aggiornamento del progetto politico offerto agli elettori. Probabilmente favorirebbe anche la riduzione della frammentazione in mille listarelle “civiche”  locali più o meno vere o inventate, spesso cespuglietti dei vecchi partiti maggiori, ma a volte facili vettori di infiltrazione clientelare o mafiosa attraverso le preferenze. Dal 1991 ad oggi  sono 401 i decreti di scioglimento di Comuni per infiltrazioni mafiose, in media uno al mese,  in prevalenza in quattro regioni: Calabria, Campania, Sicilia, Puglia.

Le listarelle sono comunque frequente causa di voti a perdere di tanti elettori inconsapevoli. Il meccanismo delle coalizioni prevoto (in particolare per i Sindaci e i Presidenti di Regione)  e il moltiplicarsi di sistemi elettorali sgangherati, ci fa trovare sulla scheda anche 20-25 liste, che per la gran parte non eleggono nessuno e neppure superano l’1% .    

Per fare solo l’ultimo esempio, neppure fra i peggiori, le recente  elezioni comunali di Genova: sono state 17 le liste presentate delle quali 7 non hanno eletto nessuno. L’affluenza al voto ( quella vera, sottraendo anche nulle e bianche ), che a Genova aveva raggiunto il minimo storico nelle comunali del 2022 con il 43%, è arrivata appena sotto il 50% ormai considerato dato normale. Per qualche ora si è parlato della vincitrice Salis come di un’ ottima candidata e addirittura di un grande risultato del cosiddetto centrosinistra in versione extra-large, con qualche renziano e calendiano infilati in due liste, quindi “uniti si vince”. Invece già alle regionali della Liguria del 2024 ( perse per qualche decimale dal csx alleato ai 5stelle con Orlando contro Bucci) nel Comune di Genova l’affluenza era già risalita un po' sopra il 50% e in città la coalizione di Orlando aveva prevalso,  senza renziani, calendiani e magiani. Anzi aveva preso un risultato più alto della Salis di oggi ( 52,3 % vs 51,5 %). Il generale Gruber e la fila di sponsor del campo largo e larghissimo, in funzione anti 5stelle ci hanno ripetuto per qualche giorno che Genova dimostrava che,  appunto, uniti si vince. Niente di meno vero ma chi ci fa caso ..?

Quanti voti acquista e quanti ne perde la santa alleanza con la presenza o l’assenza di Renzi, Calenda e Magi è questione ardua da valutare ma certi sono invece gli innumerevoli disastri che costoro hanno provocato.

Cosa farà la nuova giunta Salis dipenderà quindi dalla sua composizione, dalla sua volontà di resistere alle lobby e dalla sua capacità di costruire davvero qualcosa di alternativo per la città, cosa che al momento è del tutto imprevedibile per chiunque, probabilmente per la stessa Salis. Che metà degli elettori sia rimasto a casa non desta particolare preoccupazione.

A tre anni dalle elezioni politiche del 2022 la situazione italiana, che non va confusa con quella di altri paesi dell’Europa e dell’Occidente, sembra chiarissima. Siamo governati da una anomala e solida alleanza minoritaria di destra-centro, al momento senza eguali in altri paesi dell’Occidente, che governa solo grazie a sistemi elettorali farlocchi e  all’assenza di progetti e alternative credibili. Non ha vinto la Meloni e soci ma una legge elettorale inventata dal csx in accordo con il cdx per tentare di  fermare nel 2018 il M5Stelle.

Senza il Rosatellum ( Rosato era il relatore PD originario del testo della legge), con la sua logica maggioritaria che dalla metà degli anni ’90 riduce  democrazia e rappresentanza popolare e in particolare senza la quota di collegi uninominali, il cdx con i suoi 12,5 mil. di voti su 50 non avrebbe governato. L’astensionismo, che ha  in parte un carattere militante, è così arrivato a 22 mil. di voti mancati, diventati 26 mil. alle europee del 2024.

Il secondo punto di una alleanza di alternativa

Riguarda la proposta di una legge elettorale proporzionale con quorum, senza premi, coalizioni pre-voto, collegi uninominali. La legge per le europee e quella della Germania, il  paese più grande e più stabile d’Europa, sono ottime. Del tutto irrilevante la questione preferenze: in Italia rischia però di aprire la strada alle infiltrazioni nelle liste  ma si può trovare un compromesso lasciando ai partiti la scelta dei primi due eletti.

Destra e sinistra, soprattutto FdI e PD, tacitamente d’accordo, fanno muro a qualunque possibilità di voto proporzionale con quorum: una proposta è emersa invece circa otto anni fa dal M5Stelle dopo un faticoso percorso interno con sette votazioni degli iscritti, ed è simile appunto al sistema di voto delle europee e a quello tedesco. E’ una proposta  che terrorizza i vecchi partiti perché può evitare forzati accordi pre-voto e ristabilirebbe la giusta proporzione fra voti ricevuti  e seggi ottenuti, lasciando gli elettori più liberi nella scelta. Oggi sembra quasi dimenticata dagli stessi 5stelle “progressisti” la cui propensione all’autolesionismo continua ad albergare fra parecchi eletti anche dopo il suicidio politico di Di Maio e tanti altri.

Un rosatellum in Germania avrebbe portato alla impossibilità di formare un governo se non con la presenza della destra nazistoide di AFD anche se lontana da essere maggioranza nel paese. Ricordo che le garanzie di rappresentanza e di equilibrio del sistema proporzionale tedesco con il sacrosanto limite del 5% porta fra l’altro al fatto che fra i 25 principali paesi dell’UE la Germania ha la più alta partecipazione al voto sia alle politiche che alle europee.   

Se almeno la metà degli elettori sceglie ormai di non votare trovo davvero azzardato il modo e la scelta dei temi su cui si sono lanciati 5 referendum che, lo si voglia o no, vengono inevitabilmente e scorrettamente letti come una prova di forza fra  due soggetti di un sistema bipolare che in Italia non esiste da tempo snaturando il ruolo “popolare” dello strumento referendario.

Che l’astensionismo italiano sia il prodotto della delusione verso l’intero sistema politico senza grandi entusiasmi per la destra o la sinistra e per la mancanza di una credibile alternativa lo confermano le tre eccezioni degli ultimi anni.

Le aspettative e il grande consenso verso le proposte del M5Stelle avviate nel 2013 portarono alle politiche del 2018 ad un deciso aumento dei votanti ( quasi 33 mil. di voti su 50,7).

Lo stesso vale per i referendum. Si inventano strampalate analisi per giustificare il mancato quorum del 50+1 % negli ultimi decenni e ventilare pessime e pericolosissime proposte per abbassare o addirittura togliere il quorum, una vera follia. Invece i quattro referendum del 2011 con al centro l’Acqua pubblica e per la seconda volta il NO al nucleare ( dopo quello del 1987) superarono tutti il quorum con il voto del 55,8%, quasi 28 mil. dei 50,4 mil. di elettori. I temi evidentemente interessavano  e preoccupavano una parte consistente del paese.

Anche il referendum costituzionale di fatto voluto da Renzi nel 2016 (all’epoca segretario del PD) per modificare in  vari punti la seconda parte della Costituzione e ridurre di fatto il ruolo del Parlamento pur non richiedendo quorum fu vinto nettamente dai contrari e con quasi 33 mil. di votanti totali fù respinta la proposta con il 60%.

Ne traggo senza esitazioni la conclusione che su quella metà di elettori che nell’ultimo decennio tende ad astenersi dal voto all’incirca un terzo (forse 7-8 mil.) si astiene non condividendo  le proposte che la destra e la sinistra nelle varie tradizionali sfumature, gli offre. La crisi lacerante e deludente del M5S ha infine consolidato quest’area di astensione. Non si tratta di assenteisti distratti. Quando a torto o a ragione si presenta l’occasione di scorgere la possibilità di un vero cambiamento o di difendere principi fondamentali costituzionali e democratici questo “partito dell’astensione”, al momento il partito più grande del paese, si riaffaccia alle urne.

La consistenza dell’attuale proposta referendaria, che nelle prossime ore potremo misurare, è davvero in grado di rimettere in campo almeno una parte di questo partito “ esigente” per superare i 25 milioni di votanti ?

Il terzo punto di una alleanza di alternativa

I quattro referendum “sul lavoro” sfiorano, ma non toccano per nulla, il cuore della questione del lavoro e dei diritti di cittadinanza nei tre punti centrali: 1) un nuovo reddito di cittadinanza opportunamente riformato, come patto per la sopravvivenza  fra la parte più debole del paese e lo Stato 2) un salario minimo orario  universale che allontani qualsiasi tipo di lavoratore dalla indigenza  3) un progressivo riallineamento dei salari a quelli medi europei, anche attraverso una riforma delle regole che governano la rappresentanza delle sigle sindacali che oggi sono alcune centinaia e possono essere ridotte a meno di una decina, con il rafforzamento del loro ruolo nella contrattazione nazionale. E’ singolare che di fatto i referendum richiedano l’abrogazione di norme nate in  parte dal centro-sinistra e non comprenda aperture al  salario minimo, possibili anche su testi abrogrativi. Buona parte della sinistra e Landini lo hanno osteggiato fino all’altro ieri, quando era possibile provare a ottenerlo e oggi sembrano sostenerlo quando senza un referendum è impossibile averlo. E’ altrettanto singolare trasformare i referendum (che nella forma hanno solo un carattere abrogativo), in un sondaggio per misurare a che punto è l’alleanza anti governo, tanto più che le posizioni nel cosiddetto centrosinistra, che non ha ad oggi alcun progetto unitario per proporre una alternativa, non sono affatto univoche. Secondo questa logica, che trovo insostenibile,  superando di un pò  i 12,5 mil di votanti i referendum sarebbero un indiretta bocciatura del governo … anche se non cambierebbero assolutamente nulla ma anzi ne cosoliderebbero la tenuta.

Il quarto punto di una alleanza di alternativa

Ancora meno sembra attrattivo il quinto referendum sulla cittadinanza. La questione dei migranti e della loro possibile cittadinanza, che le destre di tutte le sfumature utilizzano  per ottenere consensi in tutto l’Occidente e le varie sinistre europee subiscono senza avere proposte da opporre, è questione davvero complessa che richiede una  doppia capacità:  regolare e gestire una corretta accoglienza e integrazione di milioni di persone che sono in fuga da crisi climatiche ed economiche o si trovano in aree di guerra civile o di scontro etnico o religioso ma insieme garantire una loro reale integrazione, la convivenza e la sicurezza che una buona parte del paese percepisce come messe in discussione dalla immigrazione irregolare.

L’integrazione attraverso canali legali e corridoi umanitari efficaci è l’unica strada per tentare di gestire con l’intervento diretto dello Stato un fenomeno che provoca allarme sociale e alimenta un conflitto politico in cui a destra e a sinistra in realtà scarseggiano le proposte. Ai due estremi le diverse forme di xenofobia e razzismo da una parte e la teoria delle porte aperte a tutti dall'altra,  si mostrano come non accettabili e comunque inefficaci. Attivando corridoi umanitari e la gestione totale dei flussi direttamente da parte dello Stato atraverso ambasciate, consolati, ong ed enti sovranazionali  si deve svuotare la migrazione irregolare o clandestina togliendola dalle mani della criminalità che oggi regola con lo sfruttamento e la violenza la provenienza, i  costi e i luoghi di ingresso e a volte esercita il  successivo controllo degli immigrati irregolari entrati. Il percorso di integrazione deve essere univoco per tutti, basato su un patto di reciproca collaborazione fra lo Stato e il migrante con ingresso regolare, patto che va rispettato da entrambi e può portare fino alla acquisizione dei diritti di  cittadinanza o al rimpatrio. E’ un progetto praticabile da costruire con fermezza lontano sia dalla intolleranza xenofoba sia dalle semplificazioni inefficaci di molte ong.  

Il quinto punto di una alleanza di alternativa

L’avanzare della crisi ambientale e in particolare della crisi climatica ha portato ormai allo scontro aperto in tutto il pianeta fra i gruppi che controllano le risorse energetiche, alcune  grandi società multinazionali dell’economia e della finanza e le aziende dell’ automotive verso quelle parti della società che pur con grandi limiti e incertezze sollecitano la necessità di avviare una conversione ecologica dell’economia e in particolare delle fonti energetiche, della mobilità, delle abitazioni. La sostituzione delle fonti fossili con le rinnovabili, che sono ormai tecnologicamente ed economicamente prevalenti, il declino dell’auto come vettore principale della mobilità nelle grandi e piccole concentrazioni urbane, il necessario arresto della urbanizzazione indiscriminata e del consumo di suolo, impongono il superamento dei modelli sociali sviluppatisi nel secolo scorso ed il ridimensionamento o la conversione  dei soggetti economici e finanziari, delle tecnologie e della cultura dello sviluppo senza limiti. Movimenti e partiti ecologisti negli ultimi anni  non hanno retto allo scontro con forze imponenti che, a partire dalla neutralizzazione delle COP ed il boicottaggio degli obiettivi stabiliti per i prossimi decenni, tendono a riportarci indietro. Qualunque alleanza di alternativa non ha alcun futuro senza mettere in primo piano un progetto locale di transizione ecologica da definire per i prossimi decenni, che troverebbe un nuovo consenso in settori  attualmente immobili della società italiana.  

( intervento scritto sabato 7 e domenica 8 giugno e pubblicato dopo le ore 15 di lunedì 9 giugno 2025 )

6 giugno 2025

La destra al governo in Italia sul nucleare continua a raccontare un sacco di balle

 da https://grafici.altervista.org( #12#) *

Come già detto al punto #6# il Governo ha stilato un Disegno di Legge delega che dovrebbe prevedere il ritorno dell’utilizzo dell’energia nucleare in Italia. Dopo il passaggio nel Consiglio dei Ministri ora quel disegno di Legge viene ufficialmente presentato al Parlamento per essere discusso, ed eventualmente modificato e approvato. Tra i tempi di approvazione della Legge delega in Parlamento e i tempi massimi previsti per il successivo varo degli associati decreti legislativi da parte del Governo (sono previsti 12 mesi) è molto probabile che si arrivi a fine legislatura, se non oltre. Quindi qualsiasi decisione concreta in merito al costruire o meno reattori nucleari in Italia sarà comunque presa dal prossimo governo, non da quello attuale. Inoltre la Legge delega, se approvata dal Parlamento, potrebbe essere oggetto di un nuovo referendum abrogativo, come già successo due volte in passato su altre iniziative legislative in merito all’uso del nucleare.

Da notare che in questa proposta di Legge e documenti allegati non c’è nessuna valutazione nel merito sul nucleare, ovvero non vengono forniti dati concreti che dimostrano l’utilità nell’uso di questa fonte. Come dichiarato candidamente dallo stesso Ministro dell’Energia, solo dopo verrà fatta “una valutazione nel merito e sui costi”, vedi quanto detto qui. In pratica il governo stesso ammette che questa proposta di Legge sul ritorno del nucleare è puramente “politica”, un modo sconcertante di portare avanti un argomento delicato come questo.

Nel frattempo la propaganda governativa si impegna molto nel raccontare le solite balle a favore del nucleare:

  • Dicono che la tecnologia nucleare da utilizzare è nuova.

Il governo ha indicato di voler puntare su due tecnologie di reattori nucleari: reattori modulari di piccole dimensioni (Small Modular Reactor, SMR); reattori modulari di piccole dimensioni avanzati (Advanced Modular Reactor, AMR).

In realtà entrambe queste tecnologie non hanno niente di nuovo. I normali SMR non sono altro che versioni di taglia più piccola di reattori di terza+ generazione, la tecnologia che viene utilizzata per i reattori già da oltre 20 anni. I reattori che volevano costruire in Italia nel piano nucleare del 2011, poi abrogato dal referendum, erano degli EPR, ovvero proprio reattori di terza+ generazione. Il governo spinge molto su questo aspetto della “novità” proprio per far credere che il referendum del 2011 non abbia più valore, ma non è così.

Gli AMR sono invece una tecnologia effettivamente diversa dai reattori di terza+ generazione perché si tratta di cosiddetti reattori a neutroni veloci (fast reactor). Ma tale tecnologia non è per niente nuova; è stata concepita e utilizzata fin dai primi anni dello sviluppo del nucleare (una lista dei vari reattori realizzati può essere vista qui). E’ sempre rimasta una tecnologia di nicchia perché più problematica e più costosa rispetto ai normali reattori (a neutroni lenti). Gli AMR non sono altro che versioni più piccole di questi reattori a neutroni veloci.

  • Dicono che la tecnologia nucleare da utilizzare è pulita.

Secondo il governo le nuove tecnologie utilizzate (che nuove non sono, come detto) sarebbero “green”, ovvero sarebbero pulite e non inquinanti, con riferimento in particolare al ruolo delle scorie radioattive (il combustibile esausto dei reattori).

Nel caso degli SMR che questa affermazione sia una balla è facilmente comprensibile, perché si tratta di normali reattori di terza+ generazione che producono rifiuti radioattivi come hanno fatto da sempre tutti i reattori a fissione, anche quelli delle generazioni precedenti. In termini di rifiuti, quindi, non c’è assolutamente nessun miglioramento rispetto agli altri reattori esistenti nel mondo.

Nel caso degli AMR a neutroni veloci la questione è più complessa. In sintesi possiamo dire che questo tipo di reattori può essere in grado di ridurre la quantità dei rifiuti prodotti attraverso un utilizzo più efficiente del combustibile. Ma non viene ridotta la radioattività emessa dal combustibile esausto, perché questa deriva per la quasi totalità dai cosiddetti “prodotti di fissione“, ovvero dagli atomi di dimensioni più piccole che rimangono dopo la scissione in due parti degli atomi fissili più grandi. In pratica, TUTTI i reattori a fissione, di qualsiasi tipo, producono sempre la stessa radioattività in termini di rifiuti, non si scappa; è il processo di fissione stesso che determina questa radioattività. Per capire meglio la questione si consiglia di leggere il capitolo 2.1 dell’articolo sui problemi del nucleare.

  • Dicono che la tecnologia nucleare da utilizzare è economica e serve a ridurre i costi dell’energia.

In realtà, come già spiegato al punto #6# (che si consiglia di leggere) sono le stesse aziende che dovrebbero finanziare e costruire questi reattori a dire che l’energia prodotta sarebbe costosa e che sarebbero necessari dei sussidi da parte dello Stato. In generale qualsiasi stima sui costi di generazione che si trova in giro conferma che la nucleare è una delle tecnologie più costose per produrre energia. Leggere in proposito il capitolo 1 e il capitolo 6 dell’articolo sui problemi del nucleare.

Se le stesse aziende del settore elettrico dicono che i costi sono elevati, se lo stesso governo ammette che ci vorranno dei sussidi pubblici, non si capisce proprio come il nucleare possa ridurre i costi dell’energia.

  • Dicono che il nucleare serve per ridurre la dipendenza energetica dell’Italia dall’estero.

Sarebbe vero se il nucleare funzionasse senza combustibile, ma non è così. Come sappiamo le centrali nucleari hanno bisogno di uranio per funzionare e i paesi nel mondo che producono uranio grezzo sono pochi. Attualmente TUTTO l’uranio utilizzato nell’UE è importato.

Inoltre per produrre il combustibile necessario ai reattori, il minerale di uranio grezzo deve essere trattato e arricchito. Gli impianti in grado di fare ciò sono abbastanza complessi e ce ne sono pochi al mondo. In Italia ovviamente non ne abbiamo. Oltretutto i reattori a neutroni veloci (come quelli che vorrebbe usare il governo) richiedono un combustibile particolare ad alto livello di arricchimento che è ancora più difficile da produrre e trovare.

In pratica il governo con il nucleare ci farebbe passare dalla dipendenza verso i fornitori di combustibili fossili alla dipendenza dai fornitori di uranio. Non proprio un grande miglioramento.

  • Dicono che il nucleare sta avendo un grande successo in Europa.

I sostenitori del nucleare usano sempre questo argomento; secondo loro la nucleare sarebbe una tecnologia di grande successo e richiesta da tutti. Peccato che la realtà dice l’esatto contrario. La produzione nucleare nell’UE è in declino da quasi 20 anni (vedi i grafici sulla produzione di energia) e attualmente non c’è NESSUN nuovo reattore in costruzione. E nel resto del mondo la situazione non è molto più rosea. Si consiglia di leggere il capitolo 3 dell’articolo sul nucleare.

  • Dicono che il nucleare è indispensabile se si vuole fare a meno completamente dei combustibili fossili.

Quando non hanno altri argomenti i sostenitori del nucleare si attaccano a questo affermando che la nucleare, essendo una fonte continua e programmabile, è essenziale per accompagnare le rinnovabili, che invece hanno una produzione variabile e non programmabile.

Il problema però è proprio in quel “continua” che indica come la nucleare sia una tipica fonte dalla produzione rigida, quando invece per accompagnare le rinnovabili a produzione variabile ci vogliono fonti flessibili. Le fonti continue sono adatte a coprire il cosiddetto “carico di base”, ovvero quella potenza minima fissa richiesta sulla rete in modo costante durante tutte le ore dell’anno. Ma in un contesto di alta penetrazione di fonti rinnovabili a produzione variabile la necessità di avere fonti specializzate nel coprire il carico di base praticamente non esiste più. Si consiglia di leggere in proposito il capitolo 4 del solito articolo sul nucleare.

Ma la cosa più incredibile è che su questo argomento a smentire il governo è proprio il governo stesso. Infatti nel recente Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) il governo ha voluto inserire due scenari ipotetici al 2050 che raggiungono l’obiettivo delle emissioni nette di CO2 pari a zero: uno con nucleare e rinnovabili; l’altro solo con rinnovabili. Quindi il nucleare non è indispensabile, lo dice il governo. A tal proposito vedere quanto scritto nel commento sul PNIEC.

* 2 marzo 2025