di Virginie Arantes *
Dal 2007, i leader
cinesi affermano di star costruendo una “civiltà ecologica” (生态文明,
shēngtài wénmíng N.d.R.). Se consideriamo la decarbonizzazione come la
riduzione dei gas serra, mentre gli Stati Uniti stanno regredendo, la Cina sta
avanzando, ma verso quale ecologia?
Il 23 aprile 2025,
durante l’incontro dei leader sul clima e la giusta transizione (ospitato dal
presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva e dal segretario generale delle
Nazioni Unite António Guterres, N.d.R.), Xi Jinping ha chiesto di difendere “il
sistema internazionale incentrato sulle Nazioni Unite” e di “mantenere la rotta
dello sviluppo verde e a basse emissioni di carbonio”, denunciando di sfuggita
le grandi potenze che “persistono nel promuovere l’unilateralismo e il
protezionismo”.
In un contesto in cui
gli Stati Uniti hanno annunciato per la seconda volta il loro ritiro
dall’accordo di Parigi, la Cina si presenta come un attore centrale nella
transizione verde, promettendo la neutralità carbonica entro il 2060 e facendo
della “civiltà ecologica” la nuova bussola del suo sviluppo.
Ma cosa si nasconde
davvero dietro questa espressione, così spesso citata nei discorsi ufficiali? È
il segno di una maggiore consapevolezza delle problematiche ambientali? O è
l’espressione di una visione strategica, in cui ecologia, sviluppo e governance
sono strettamente interconnessi? Uno sguardo retrospettivo a questo termine,
diventato uno dei pilastri dell’attuale potenza cinese.
Il concetto di
“civiltà ecologica” è apparso per la prima volta nei discorsi del Partito
Comunista Cinese (PCC) sotto la presidenza di Hu Jintao nel 2007. All’epoca, il
concetto era ancora vago, ma si riferiva già a una realtà molto concreta: una
Cina che si trovava ad affrontare una crisi ambientale senza precedenti.
Infatti, oltre il 60%
dei principali fiumi è gravemente inquinato, il 90% dei corsi d’acqua urbani è
contaminato e oltre 300 milioni di persone non hanno accesso ad acqua potabile
sicura. I “villaggi del cancro” si stanno moltiplicando e le proteste contro
dighe, inceneritori e complessi chimici preoccupano le autorità. Nel 2013, un
alto funzionario del Partito ha riconosciuto pubblicamente che le questioni
ambientali erano diventate una delle principali cause di “incidenti di massa”,
e queste proteste collettive preoccupano il governo centrale. Secondo Yang
Chaofei, vicepresidente della Società cinese di scienze ambientali, i conflitti
ambientali erano già aumentati del 29% all’anno tra il 1996 e il 2011 e, mentre
il governo ha rapidamente smesso di pubblicare i dati, le stime di Sun Liping,
professore all’Università di Tsinghua, indicano fino a 180.000 proteste nel
2010, una parte significativa delle quali legate all’ambiente. In questo
contesto, la nozione di “civiltà ecologica” non nasce da un’improvvisa rivelazione
etica, ma dal tentativo di una risposta politica a una crisi sociale ed
ecologica ormai impossibile da ignorare. Il China Daily, il quotidiano
ufficiale in lingua inglese pubblicato dal governo cinese, già nel 2007
avvertiva che questo concetto non doveva rimanere uno slogan, ma una forza
trainante per un vero cambiamento.
A lungo una questione
periferica, l’idea ha acquisito slancio nel 2012, quando Hu Jintao, leader
della Cina dal 2003 al 2013, ha incluso la “civiltà ecologica” tra le cinque
principali missioni strategiche del Partito, accanto allo sviluppo economico,
politico, sociale e culturale. Ma è stato sotto Xi Jinping, che gli è succeduto
ed è ancora oggi al potere, che è diventata una leva centrale di governo.
È quindi integrato nel
13° piano quinquennale nel 2015, stabilito come obiettivo strategico al 19°
Congresso del Partito nel 2017, poi sancito nella Costituzione nel 2018. Xi
Jinping lo inserisce inoltre in una lettura storica continua della modernizzazione
cinese: Mao avrebbe permesso il passaggio dalla civiltà agricola a quella
industriale, Deng Xiaoping, a capo del regime cinese dal 1978 al 1989, avrebbe
instaurato una civiltà materiale e lui stesso sarebbe ormai portatore di una
civiltà ecologica.
Ma questa ecologia non
mira a rallentare la crescita. Al contrario, serve a reindirizzarla verso
energie rinnovabili, tecnologie verdi ad alta tecnologia, cosiddette industrie
“pulite”, zone sperimentali e città intelligenti. La Cina vuole diventare una potenza
verde, capace di coniugare sviluppo economico, stabilità sociale e influenza
internazionale.
In termini concreti,
questa strategia si è tradotta in ingenti investimenti in infrastrutture verdi.
La Cina, da sola, rappresenta ormai un terzo della capacità mondiale di energia
rinnovabile. Nel 2024, ha stabilito un record installando 357 gigawatt (GW) di
energia solare ed eolica, superando così già l’obiettivo di 1.200 GW per il
2030, con sei anni di anticipo. Questa crescita vertiginosa corrisponde a un
incremento annuo del 45% per l’energia solare e del 18% per l’energia eolica.
Questa espansione ha
contribuito a compensare gran parte della crescita energetica, tanto che le
emissioni di CO2 sono rimaste inferiori rispetto all’anno precedente per dieci
mesi consecutivi, nonostante un aumento annuo complessivo stimato allo 0,8%. Questa
ripresa può essere spiegata dalla ripresa post-Covid e dalla domanda
eccezionale di inizio anno, in particolare legata alle ondate di calore record
che hanno interrotto la produzione idroelettrica, costringendo a un maggiore
ricorso al carbone. Ma questo successo maschera un’altra realtà: l’impegno
della Cina in materia di clima rimane principalmente tecnocentrico, poco
redistributivo e fortemente dipendente da logiche industriali pesanti, come il
carbone e i prodotti chimici, che continuano a crescere.
Il sistema nazionale
di scambio di quote di emissione (ETS), lanciato nel 2021, è già il più grande
al mondo in termini di volume coperto. Entro il 2024, la Cina rappresentava
quasi il 60% delle vendite globali di auto elettriche e produceva circa il 75%
delle batterie agli ioni di litio del mondo. Mentre alcuni analisti ritengono
che la Cina potrebbe aver raggiunto il picco delle emissioni nel 2024, le
autorità mantengono l’obiettivo ufficiale di un picco “prima del 2030” e non
hanno ancora annunciato alcun cambiamento di tendenza.
Nel suo discorso del
2025 sulla Giusta Transizione, Xi Jinping collega la transizione climatica, la
riduzione delle disuguaglianze e la leadership globale. Questo discorso
completa il processo di affermazione della “civiltà ecologica” non solo come
obiettivo di politica pubblica, ma come progetto di civiltà, integrato nella
traiettoria storica del Partito e presentato come la via della Cina verso una
modernità sostenibile. Oggi, la “civiltà ecologica” è parte integrante del
fondamento ideologico del regime cinese di Xi Jinping. Sebbene il termine possa
sembrare astratto, persino poetico, si riferisce tuttavia a un progetto molto
concreto, che struttura le politiche pubbliche, i piani di sviluppo, il
discorso diplomatico e l’apparato dottrinale del Partito. Questa non è
un’ecologia civica o attivista, tanto meno partecipativa. La “civiltà
ecologica”, così come è concepita in Cina, propone una transizione verde
interamente guidata dallo Stato, centralizzata, pianificata e gerarchica.
Promette un’inverdimento dello sviluppo senza trasformarne le fondamenta
produttiviste né minare il monopolio del Partito: è una transizione dall’alto
verso il basso, senza interruzioni. La natura è concepita come una risorsa
strategica, un capitale da valorizzare, una leva per l’accumulazione e il
potere nazionale.
In questo contesto,
tutelare l’ambiente non significa rallentare lo sviluppo, ma riorientarlo. La
parola d’ordine è produrre diversamente, non meno. Puntare su tecnologie verdi,
“zone modello” e città intelligenti, come la nuova città di Xiong’an, progettata
dalle autorità come laboratorio di modernità ecologica. Una riorganizzazione
che, pur integrando il vocabolario ecologico, preserva la logica produttivista.
Sebbene tutte queste
azioni possano essere osservate e commentate, non esiste, a rigor di termini,
una definizione univoca di cosa sia la “civiltà ecologica” nei testi ufficiali.
Diversi tentativi di chiarimento sono tuttavia emersi nei media vicini al potere
o in testi divulgativi. Nel 2018, un articolo pubblicato sui media ufficiali la
presentava come una fase etica e culturale successiva alla civiltà industriale.
Viene descritta come basata sull’armonia tra uomo, natura e società e su una
profonda trasformazione degli stili di vita, della produzione e della
governance. Questa visione va oltre il semplice quadro cinese: mira a essere
universale, ma partendo da una base definita a livello nazionale.
Nei suoi recenti
discorsi, Xi Jinping afferma che la civiltà ecologica rappresenta la quarta
grande trasformazione nella storia umana, dopo le civiltà primitiva, agricola e
industriale. Si dice che derivi dalla crisi ecologica globale causata
dall’industrializzazione e propone un nuovo paradigma che non abolisce
l’industria, ma la integra in una logica ecologica a lungo termine.
Nei discorsi
ufficiali, questo cambiamento viene presentato come un contributo intellettuale
al marxismo contemporaneo. Xi insiste sul fatto che la natura non debba più
essere considerata esclusivamente come uno sfondo o una risorsa passiva, ma
come una forza produttiva a sé stante. L’ormai celebre slogan secondo cui
“acque limpide e montagne verdi sono montagne d’oro e d’argento” diventa, in
questo contesto, una vera e propria teoria del valore ecologico.
La ricchezza non si
misura più solo in termini di produzione umana, ma anche di valore aggiunto
naturale. Una foresta inesplorata, un fiume pulito, un ecosistema in equilibrio
stanno diventando preziosi beni economici. Questa idea è oggi alla base delle discussioni
sulla finanza verde, sulla contabilità ambientale e sui mercati del carbonio,
che stanno acquisendo sempre più importanza nelle politiche pubbliche cinesi.
L’istituzione nel 2021 di una rete nazionale di parchi, tra cui quello del
panda gigante e della foresta pluviale di Hainan, illustra questa volontà di
fare degli esseri viventi un capitale ecologico, economico e simbolico. La
“civiltà ecologica” non è quindi semplicemente un altro concetto ambientale. È
una forma di governance verde dai contorni mutevoli, che combina
pianificazione, controllo, innovazione tecnologica e ambizione di civiltà.
Combina gestione centralizzata, narrazioni di potere e ambizioni geopolitiche.
La “civiltà ecologica”
è tanto una promessa di sostenibilità quanto un progetto di sovranità verde
inteso a competere con i modelli occidentali. Ma il suo futuro, come quello
della transizione ecologica globale, rimane dipendente da una domanda centrale:
fino a che punto possiamo rendere verde un modello di sviluppo senza cambiarne
le fondamenta?
* pubblicato
su The
Conversation e ripreso su beppegrillo.it - 2 luglio 2025