31 marzo 2022

Caro energia, altro che transizione ecologica: le utility dei servizi puntano ai dividendi

 di Dario Balotta *

Il cda di A2A ha proposto, come gli anni passati, all’assemblea lauti dividendi di € 0,0904 per azione, che per il Comune di Brescia significano circa € 73.000.00, per il Comune di Milano circa € 73.000.000, per i privati – compresi i fondi – circa € 146.000.000. Un totale di circa € 292.000.000 a fronte di utili netti di € 504.000.000 per il 2021. I ricavi in salita del 33% per Enel e del 69% per A2A resi noti in questi giorni evidenziano che tutto il settore energetico (produzione e distribuzione) da Eni ed Edison, Hera ed Acea e Snam godono di ottima salute. Se il governo cerca di tassare (con un misero 10%) gli extra profitti delle aziende energetiche per compensare i rincari, i due produttori controllati da società pubbliche (A2A ed Enel) hanno già deciso di far passare all’incasso i loro azionisti prima di eventuali interventi regolatori del governo, che è anche il titolare delle concessioni.

Forse è arrivato il momento che come per le concessioni di aeroporti, Sea di Milano e Adr di Fiumicino, e delle autostrade il governo definisca un modello di regole che corregga queste distorsioni. Se un solo tetto agli utili potrebbe essere eccessivamente lesivo degli interessi delle aziende, allora stabilisca un price cup concordato all’inizio del periodo concessorio o della convenzione con le aziende. Le tariffe devono tener conto della produttività, dell’innovazione di processo e di prodotto e spingere agli investimenti piuttosto che alla rendita. Il price cup avrebbe effetti di ammodernamento di tutto il settore dei servizi italiano, oggi tra i meno efficienti d’Europa. I dividendi sono dovuti invece alla continua crescita dei prezzi dell’energia, che incide negativamente sul reddito delle famiglie, sui conti delle imprese e sulla crescita dell’inflazione.

Enel ed A2a sono i principali gestori degli impianti idroelettrici italiani, affidati in concessione dallo Stato e da tempo ammortizzati, che contribuiscono a generare gli ingenti extraprofitti delle due aziende. A2A fa sapere che l’incremento degli utili a 540 milioni non è derivato solo dalla maggiore redditività delle rinnovabili, venduta allo stesso prezzo di quella più costosa generata da petrolio e gas, ma anche da “l’ottimo andamento del mercato dei servizi di dispacciamento”, cioè dei servizi di trasmissione e distribuzione di energia a Milano – in particolare acquistati da Terna (il gestore della rete distributiva) per il mantenimento del bilanciamento dei flussi energetici sulla rete.

Anche il teleriscaldamento ha prodotto enormi introiti per A2A, poiché si è verificata una crescita significativa dei prezzi del servizio allineata all’incremento delle quotazioni del gas naturale. L’Arera (Authority dell’energia) ha deciso di aprire un’inchiesta su questo fenomeno ritenuto ingiustificato, perché il servizio di teleriscaldamento è erogato in regime di monopolio “da un unico esercente verticalmente integrato”. A2A gestisce la maggior rete di teleriscaldamento nazionale di cui 700 km a Brescia e 200 km a Milano, il cui calore è generato al 70% dalla combustione dei rifiuti e solo il 30% dal metano. Calore che essendo prodotto dai rifiuti permette ricavi sia per l’energia prodotta che per il costoso incenerimento dei rifiuti.

A2A si dice pronta per la riattivazione della centrale a carbone di Monfalcone e a sospendere le forniture alle industrie energivore. Anziché mettere in campo ogni alternativa ed accelerare gli investimenti nelle rinnovabili per allontanare questa prospettiva, la multiutility si mette subito a disposizione del governo. Prima gli utili, i dividendi, poi l’emergenza con il ritorno al passato. Altro che transizione ecologica.

* Esperto di trasporti e ambiente - da FQ 26 marzo 2022

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Spese militari: come è messa l’Italia nella classifica mondiale

di Mariangela Tessa *

Negli ultimi giorni, è venute all’attenzione dell’opinione pubblica la questione dell’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2 per cento del Prodotto lnterno Lordo. Una decisione che non mette d’accordo tutti. Al contrario, la questione ha provocato una spaccatura all’interno della maggioranza con il M5S che ha sollevato perplessità circa la necessità e i tempi per attuare questo incremento.

A quanto ammonta in termini assoluti l’incremento

Tutto parte dall’approvazione, lo scorso 16 marzo, alla Camera dei Deputati (391 voti favorevoli su 421 presenti, 19 voti contrari),di un Ordine del giorno collegato al cosiddetto “Decreto Ucraina” proposto dalla Lega Nord e sottoscritto da deputati di Pd, Fi, Iv, M5S e FdI che impegna il Governo italiano ad avviare un aumento delle spese militari . Nella parte dispositiva del testo approvato si legge come tale risultato dovrebbe essere raggiunto “predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione” mentre nell’immediato si debba agire per “incrementare alla prima occasione utile il Fondo per le esigenze di difesa nazionale”. Ciò significherebbe, secondo l’Osservatorio Milex, che cita le cifre fornite dal Ministro della Difesa Guerini passare dai circa 25,8 miliardi l’anno attuali (68 milioni al giorno) ad almeno 38 miliardi l’anno (104 milioni al giorno).

Per quanto possa sembrare una decisione figlia del recente scoppio delle guerra in Ucraina, l’indicazione di spesa di almeno il 2% del PIL in ambito NATO deriva da un accordo informale del 2006 dei Ministri della Difesa dei Paesi membri dell’Alleanza poi confermato e rilanciato al vertice dei Capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles (obiettivo da raggiungere entro il 2024), in cui si è anche indicata una quota del 20% di tale spesa da destinarsi ad investimenti in nuovi sistemi d’arma.

“Queste dichiarazioni di intenti al momento non stono mai state ratificate formalmente dal Parlamento italiano con un voto avente forza legislativa e quindi non costituiscono un obbligo vincolante per il Bilancio dello Stato. Inoltre la quota indicata del 2% rispetto al PIL non ha mai avuto una giustificazione specifica e di natura militare (dettata da esigenze operative) ma è stata usata come spinta alla crescita della spesa. Va infine notato che collegare preventivamente un livello di spesa pubblica con un parametro che comprende anche la produzione di ricchezza privata, ed è soggetto a fluttuazioni indipendenti dalle decisioni fiscali, rende del tutto aleatoria e scollegata da reali esigenze la definizione tecnica e concreta di tale spesa” spiegano dall’Osservatorio.

Spese militari: Italia a confronto con gli altri paesi

Proviamo ora a comprendere come l’Italia si inserisca a livello di spese militari in confronto agli altri paesi europei e mondiali. Secondo il SIPRI di Stoccolma, ovvero uno dei più prestigiosi istituti di studi sulla pace, le spese militari al mondo sono stimate in 1.981 miliardi di dollari annui. Ad investire di più i sono gli Stati Uniti, con una spesa annua di 766 miliardi di dollari, ossia il 3,74% del PIL. La Cina dedica all’apparato militare una quota in costante aumento: +76% nel decennio 2011-20. Anche India e Russia registrano una crescita. Mosca è cresciuta costantemente fino al 2016, ha investito molto negli ultimi tre anni, raggiungendo ad una spesa di 67 miliardi di dollari, il 4.26% del suo Pil. È il quarto paese mondiale per spese militari nel 2020 La Nato spende complessivamente circa 1.103 miliardi di dollari, pari al 56% della spesa militare globale. Tra i primi 15 Paesi per spesa militare nel mondo, sei sono membri della Nato: Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Canada. Insieme questi Paesi raggiungono una cifra pari al 90% della coalizione Nato e al 50% della spesa globale

E l’Italia? Il Paese si piazza all’undicesimo posto in quanto a spese per armamenti ed nella top 5 europea: negli ultimi anni gli investimenti italiani nella difesa sono stati in crescita costante, specie dal 2019 in poi. Il SIPRI ha stimato, per il 2020, una spesa di circa 28 miliardi, con un incremento notevole rispetto all’anno precedente: l’1.57% del Pil.

* da wallstreetitalia.com - 31 marzo 2022

30 marzo 2022

Germania: “Via da Mosca e dalle sue fonti fossili. Obiettivo è 100% rinnovabili”. Il vicecancelliere critica le scelte della Merkel

 Il fatto di aver puntato tanto sulla Russia "è difficilmente comprensibile" ha detto il vicecancelliere Robert Haebeck. Il governo tedesco spiega che servirà del tempo ma che l'obiettivo è quello di emanciparsi completamente da gas, petrolio e carbone. Nessun riferimento al nucleare

Continua il braccio di ferro tra Mosca e paesi europei sulle forniture di gas e la valuta con cui devono essere pagate. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha ribadito stamane quanto già affermato ieri ossia che “Sicuramente non faremo beneficienza e non invieremo gas gratis all’Europa occidentale”, ha detto commentando il rifiuto dei Paesi occidentali di pagare il gas in rubli. “Appena avremo una decisione finale, vedremo che si può fare”, ha aggiunto. Il rublo intanto recupera terreno sul dollaro. Al momento per comprare un dollaro servono 88 rubli, un paio di settimane fa ne servivano 140. Rispetto alla richiesta della Russia di un pagamento del gas in rubli la posizione dell’Ue “è quella del G7”: “La Commissione partecipa al G7 e le dichiarazioni che sono emesse dal G7 coprono anche l’Ue”, ha sottolineato il portavoce della Commissione Eric Mamer nel briefing quotidiano con la stampa.

Da Berlino risponde indirettamente la ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock che, aprendo i Berlin Energie Transition dialogues, ha affermato che la Germania intende in futuro “fare completamente a meno dell’energia fossile dalla Russia. Abbiamo bisogno per un periodo transitorio di energia fossile da altri Paesi ma l’obiettivo è virare completamente sull’energia rinnovabile”, ha aggiunto. Baerbock ha sottolineato che l’Europa “vuole essere il prima continente neutrale dal punto di vista ambientale”, ma questo può funzionare soltanto se tutti i Paesi cooperano.

Dal vicecancelliere Robert Haebeck è arrivata una condanna delle politiche energetiche tedesche: “Vediamo gli errori del passato. La Germania si è messa in una situazione di forte dipendenza da punto di vista energetico” e il fatto di aver puntato tanto sulla Russia “è difficilmente comprensibile”, ha affermato. La Germania riceve dalla Russia il del gas che consuma. La più parte attraverso il gasdotto Nord Stream che ha una capacità di 55 miliardi di metri cubi l’anno, cinque volte il Tap. Berlino e Mosca hanno lavorato al raddoppio della condotta, il Nord Stream 2, di capacità analoga. Il secondo gasdotto è stato terminato lo scorso autunno ma non è mai entrato in funzione per i sopraggiunti sviluppi geopolitici. Ambizione della Germania era quella di porsi come una sorta di hub europeo del gas.

“Il percorso per renderci autonomi dall’energia fossile russa ha delle conseguenze, come l’alto prezzo dell’energia e l’inflazione” ha continuato Robert Haebeck a Berlino “L’Europa è un continente ricco e se lo può permettere, il mondo no”. “La politica energetica è sempre anche politica del potere e della sicurezza“, ha rimarcato il ministro dell’Economia e del Clima. “Che la Germania sia diventata dipendente per il 50% dal gas è poco comprensibile”, ha spiegato. “Adesso dobbiamo ammettere che abbiamo sbagliato. Però la Germania e l’Europa, passo dopo passo, si stanno ora rendendo più indipendenti dai fossili russi”. La Russia dispone delle riserve di gas più estese al mondo (49mila miliardi di metri cubi) ed è il secondo produttore al mondo dopo gli Stati Uniti con un flusso annuo di 690 miliardi di metri cubi, di cui circa 150 vengono esportati in Europa (30 in Italia).

* da ilfattoquotidiano.it - 29 marzo 2022

Cosa c’è dietro la dipendenza italiana dal gas russo. La logica della convenienza presenta il conto: “L’energia è un fatto politico e Putin lo sapeva”

 Lo storico legame in campo energetico con Mosca nasce nel secondo dopoguerra. Dal 2013, dopo anni di alternanza con l'Algeria, la Russia è stabilmente in cima alla classifica dei maggiori fornitori. Secondo gli esperti sentiti da ilfattoquotidiano.it, i motivi sono la capacità produttiva dei giacimenti e il prezzo. Gli idrocarburi russi erano meno cari. Così tutti i governi hanno sorvolato sul fatto che, come ricorda l'ex ministro Alberto Clò, il leader del Cremlino ha sempre puntato a "fare dell’energia l’architrave del ritorno della potenza russa a livello internazionale"

di Luigi Franco *

“Il metano ti dà una mano”. Chi ha superato i quaranta non ha dimenticato la pubblicità che a fine anni Ottanta accompagnava l’arrivo nelle nostre abitazioni di “un’energia nuova”, mentre lungo la Penisola veniva realizzata una rete di distribuzione capillare. Col referendum del 1987 post Chernobyl, l’Italia aveva deciso di dismettere per sempre le proprie centrali nucleari. E bruciare gas naturale per il riscaldamento o per generare energia elettrica era meno inquinante che bruciare carbone o gasolio. In realtà il gas non era “un’energia nuova”, visto che il primo importante impulso allo sfruttamento di giacimenti in Pianura Padana risale al secondo dopoguerra, quando Enrico Mattei evitò lo smantellamento dell’Agip e ci costruì sopra l’Eni. A quel periodo risale anche lo storico legame in campo energetico con l’Unione sovietica, un legame passato per le importazioni prima di petrolio poi anche di gas e funzionale a contrastare il dominio delle Sette sorelle americane. Ha dunque radici lontane la nostra dipendenza dal gas, e in particolare dal gas russo. E in questi settant’anni, dice Davide Tabarelli, docente all’università di Bologna e presidente di Nomisma Energia, “i russi si sono sempre dimostrati dei fornitori molto affidabili. I flussi dalla Russia non si sono bloccati neanche adesso, anzi sono aumentati. Questa catastrofe della guerra in Ucraina non era prevedibile”. Il gas russo è sempre stato abbondante e conveniente da un punto di vista economico. Avremmo potuto oggi esserne meno dipendenti? In parte sì, con una maggiore diversificazione delle infrastrutture per importare gas e, negli ultimi anni, un maggiore utilizzo delle fonti rinnovabili.

Da dove importiamo gas – Non siamo l’unico paese europeo a importare molto gas da Mosca, ma siamo tra quelli che ne consumano di più. Tra produzione di energia elettrica, riscaldamento e cogenerazione negli impianti industriali, oggi consumiamo più di 70 miliardi di metri cubi all’anno, equivalenti a circa un terzo del nostro fabbisogno complessivo di energia. Nel 2021, in particolare, su 76 miliardi di metri cubi consumati, ne abbiamo estratti sul nostro territorio 3,3 miliardi. Ben 72,7 li abbiamo importati da fuori, soprattutto via gasdotto: il 40% dalla Russia, il 31% dall’Algeria, il 10% dall’Azerbaijan attraverso il Tap, il 4,4% dalla Libia e il 2,7% dalla Norvegia. Il 13,5% del gas importato è arrivato nello stato liquido ai nostri tre rigassificatori, soprattutto dal Qatar (9,5%), seguito da Algeria e Stati Uniti.

Negli ultimi trent’anni la Russia si è alternata più volte con l’Algeria in cima alla classifica delle esportazioni di gas nel nostro Paese. Nel 1990, quando importavamo 30,5 miliardi di metri cubi, dalla Russia ne arrivava il 46%, mentre dall’Algeria il 35%. Un sorpasso avviene nel 1992, con l’Algeria salita al 43% e la Russia scesa al 39. Nei due anni successivi domina la Russia, ma nel 1995 l’Algeria è di nuovo al primo posto e ci resta a lungo, con la Russia che nel 2010 scende addirittura al 20%. Nel 2013 Mosca raggiunge il 45% e torna in testa, rimanendoci fino a oggi. Cosa c’è dietro queste oscillazioni? Hanno pesato le scelte dei singoli governi, più o meno vicini alla Russia? Secondo gli esperti sentiti da ilfattoquotidiano.it, dietro l’andamento delle importazioni ci sono state soprattutto logiche commerciali e legate alla capacità produttiva degli esportatori. Fattori entrambi favorevoli alle importazioni dalla Russia.

Contratti ‘take or pay’ e mercato ‘spot’ – Gli accordi sul gas, a livello di standard internazionale, sono caratterizzati dalle clausole ‘take or pay’. Visto che costruire un gasdotto richiede investimenti particolarmente onerosi, importatore ed esportatore firmano contratti a lungo termine (anche 20-30 anni), accordandosi su una quota minima di gas che ogni anno verrà trasferita: se l’importatore non preleva (take) il gas che ha promesso di comprare, lo paga ugualmente (pay). Il prezzo del gas non è fisso, ma dipende da un meccanismo di indicizzazione. Fino a una decina di anni fa l’indicizzazione era interamente basata su prodotti petroliferi. La crisi del 2008 ha causato un crollo nei consumi e una maggiore disponibilità di gas, dovuta anche all’arrivo sul mercato dello shale gas americano. Così il gas, soprattutto quello liquido destinato ai rigassificatori, ha iniziato a essere commercializzato anche sulla base di acquisti giornalieri spot. Sono nati luoghi simili alle borse, dove ogni giorno viene determinato il prezzo spot del gas. Oggi mercato spot e contratti a lungo termine take or pay convivono, ma questi ultimi pian piano hanno iniziato a essere indicizzati sempre più al prezzo spot del gas anziché ai prodotti petroliferi.

Si spiega anche così, oltre che con la capacità produttiva dei giacimenti, il sorpasso delle importazioni russe su quelle algerine degli ultimi anni: “Non si preleva gas in base a dove la Farnesina dice di prelevarlo ma, nel rispetto delle quantità minime previste dalla clausole take or pay, in base al prezzo”, spiega Massimo Nicolazzi, più di 35 anni di esperienza nel settore degli idrocarburi, oggi docente di Economia delle Risorse energetiche all’università di Torino e membro del consiglio scientifico di Limes. “Il gas algerino è rimasto a lungo indicizzato solo a prodotti petroliferi in un periodo in cui il petrolio si rivalutava più del gas e così era più caro. A questo si aggiunga che negli ultimi anni i russi hanno messo dei volumi di gas sul mercato spot, oltre a quello previsto dai contratti a lungo termine”.

I russi, del resto, hanno sempre avuto tutto l’interesse a esportare gas a prezzi convenienti per l’Europa, in modo da garantirsi un afflusso di valuta pregiata. Si può però discutere su quanto sia stato opportuno per l’Europa far dipendere la propria politica energetica da logiche commerciali anziché politiche, come fa Alberto Clò, ex ministro dell’Industria e oggi direttore della rivista Energia: “Dopo essere salito al potere, nei primi anni 2000 Putin esprime in un documento ufficiale del Cremlino la sua duplice intenzione: da una parte ricostruire dalle fondamenta l’industria nazionale degli idrocarburi, devastata dalle forti privatizzazioni di Eltsin, dall’altro fare dell’energia l’architrave del ritorno della potenza russa a livello internazionale. È evidente che se per noi il gas era un fatto economico-commerciale, per la Russia era un fatto politico. Nel tempo l’Europa si è dimenticata che l’energia è un fatto politico, non meramente economico”.

South stream e wikileaks – È un fatto talmente politico che agli Stati Uniti, sin dal secolo scorso, non è mai andata a genio la dipendenza dei paesi europei da petrolio e gas russi. Nel 2010 alcuni cablogrammi svelati da Wikileaks raccontano delle preoccupazioni statunitensi per l’amicizia tra Berlusconi e Putin e l’intesa sul South Stream tra Eni e Gazprom. Il South Stream era il metanodotto che avrebbe dovuto essere posato sul fondo del Mar Nero in modo da aggirare l’Ucraina e raggiungere, tra gli altri paesi, l’Italia. Il primo memorandum d’intesa viene firmato nel 2007, sotto il secondo governo Prodi, da Paolo Scaroni, messo al vertice di Eni da Berlusconi. Due anni dopo, quando al governo è tornato l’ex Cavaliere, l’accordo ha un ulteriore impulso: Scaroni e il suo omologo di Gazprom firmano a Sochi, alla presenza di Berlusconi e Putin, una nuova intesa per aumentare la capacità del gasdotto da 31 a 47 miliardi di metri cubi all’anno. Il progetto sconta però la contrarietà dell’Unione europea e viene definitivamente abbandonato nel 2014, dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia. Se il South Stream fosse stato realizzato, oggi saremmo ancora più dipendenti dal gas russo.

Scarsa diversificazione e poche rinnovabili – Una volta chiusa la porta al nucleare col referendum del 1987, altri fattori avrebbero potuto rendere la nostra politica energetica meno dipendente dalla Russia. Tra questi, un maggiore sviluppo delle fonti rinnovabili: “Hanno avuto un incremento annuo nella capacità produttiva del 13% dal 2008 al 2013 – nota Giovanni Battista Zorzoli, presidente onorario del coordinamento Free (Fonti rinnovabili ed efficienza energetica) – per poi scendere a un incremento annuo di appena l’1-2%”. Tra le altre soluzioni oggi sul tavolo per svincolarci dal gas russo, oltre a un ben poco auspicabile ritorno del carbone, ci sono un incremento della produzione interna di gas, la costruzione di nuovi rigassificatori e il potenziamento dei gasdotti esistenti. Tutti temi che a fasi alterne sono stati al centro del dibattito e delle polemiche negli ultimi vent’anni.

Il calo della produzione nazionale – Tra il 1994 e il 1996 l’Italia aveva superato una produzione annua di 20 miliardi di metri cubi di gas, via via scesi fino ai 4,8 miliardi del 2019 e, con la pandemia, ai 4,1 del 2020 e 3,3 del 2021. “Già dai primi anni 2000 abbiamo avuto un costante calo della produzione nazionale, nonostante il Nord Adriatico sia tutt’ora ricchissimo di gas – dice Tabarelli -. Poi nel 2010 c’è stato l’incidente al pozzo Macondo nel Golfo del Messico, che in Italia ha avuto come conseguenza il divieto di perforazione entro le 12 miglia dalla costa. È nata anche una forte ostilità contro le trivellazioni. Prima Monti, poi Letta han cercato di farle ripartire. Alla fine è arrivato Renzi che col suo decisionismo ha cercato di spingere con qualche normativa che effettivamente forzava un po’ la situazione”. Così nel 2016 si arriva al referendum contro la norma voluta dal governo Renzi per estendere la durata delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia sino all’esaurimento dei giacimenti: vincono i sì all’abolizione, ma il quorum non viene raggiunto.

Solo tre rigassificatori – Se la Spagna è il Paese europeo con più rigassificatori, ben sei, da noi ce ne sono solo tre: quello di Panigaglia nel golfo di La Spezia, in funzione dagli anni Settanta, il terminale realizzato su un’isola artificiale di fronte a Rovigo, attivo dal 2009, e il terminale galleggiante al largo di Livorno, in funzione dal 2013. Ricevono gas naturale liquefatto proveniente in gran parte dal Qatar, seguito da Algeria Stati Uniti. Una quindicina di anni fa erano sul tavolo diversi altri progetti, che poi non sono andati in porto: soprattutto per lungaggini burocratiche, opposizione di popolazioni locali e anche, come nel caso del rigassificatore che British gas avrebbe voluto costruire a Brindisi, per una inchiesta che portò a diversi arresti per corruzione nelle procedure autorizzative. “Su alcuni progetti ha pesato anche l’interesse contrario di Eni, che al tempo sarebbe stata danneggiata da un grande afflusso di gas in concorrenza con quello importato dalla compagnia soprattutto via gasdotti. Oggi che il gruppo è diventato un importante fornitore internazionale di gas naturale liquido la situazione sarebbe probabilmente diversa”, dice Gionata Picchio, vicedirettore del giornale online sulle fonti di energia Staffetta quotidiana.

Una cosa va comunque notata: “Dopo la corsa ai permessi per realizzare rigassificatori nel periodo 2008-2010 – dice Nicolazzi – nel decennio successivo la capacità di rigassificazione europea è stata sottoimpiegata, con una percentuale di utilizzo di appena il 20%”. Il motivo? Sempre lo stesso, il gas russo via gasdotto è stato storicamente più conveniente. A non essere utilizzati appieno sono anche i nostri tre rigassificatori: nel 2021, per esempio, su una capacità totale di 15,3 miliardi di metri cubi di gas naturale liquido, ne sono stati importati solo 9,8 miliardi.

L’opposizione al Tap – Tormentata è stata anche la realizzazione del Tap, il gasdotto che attraversando l’Adriatico approda in Puglia per portare dall’Azerbaijan 10 miliardi di metri cubi l’anno. Un progetto su cui ha un sospetto Franco Bernabé, negli anni Novanta primo amministratore delegato di Eni dopo la trasformazione in spa: che sia stato “fortemente contrastato anche da Mosca, con un’attività dei servizi segreti molto incisiva”. Di certo la realizzazione del Tap è stata ritardata dall’opposizione degli ambientalisti, del M5S e del governatore Michele Emiliano. “Tra le argomentazioni utilizzate contro il Tap – ricorda Zorzoli – c’era anche quella di chi lo riteneva inutile perché eravamo collegati via gasdotto con la Russia, un paese considerato molto più affidabile dell’Azerbaijan. Oggi sembra incredibile”.

 * il fatto quotidiano - 24 marzo 2022

21 marzo 2022

La legge non scritta della politica: ignorare il cambiamento climatico


di: Gruppo Clima Valsusa *

In questi giorni tutti gli occhi sono puntati sulla guerra tra Russia e Ucraina. È sicuramente giusto dare risalto a questi avvenimenti. Le guerre – tutte le guerre – sono delle atrocità: prima di tutto per la perdita di vite umane, spezzate o stravolte, poi per gli spaventosi costi economici e ambientali, infine per gli strascichi di odio e risentimento che lasciano dietro di sé. Tuttavia è preoccupante che sia passato quasi del tutto sotto silenzio un altro avvenimento di fondamentale importanza che ha avuto luogo in questi giorni: il 28 febbraio 2022 è uscito l’ultimo report dell’IPCC, il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico. Questo gruppo di lavoro rappresenta dal 1988 il più importante ente internazionale per il monitoraggio e lo studio del cambiamento climatico in atto e dei i suoi effetti, nell’immediato e in prospettiva futura; quindi fornisce informazioni ai decisori politici per orientare le loro scelte.

Il rapporto mostra che la portata degli impatti climatici va rapidamente crescendo e produce effetti devastanti già oggi sul pianeta. È un grido di allarme quello che ci arriva dalla comunità scientifica internazionale che non dovrebbe assolutamente essere ignorato; ci invita ad accelerare il passo degli interventi di mitigazione. Il report analizza gli impatti dei cambiamenti climatici a scala sia globale che regionale e mostra come il successo dell’adeguamento alle nuove condizioni sia strettamente legato alle opere di mitigazione. L’IPCC evidenzia il ruolo della giustizia sociale e quello delle conoscenze indigene e delle comunità locali nell’affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico.

All’interno del report vi sono sezioni dedicate alla situazione in Europa e nel Mediterraneo. Sono tutt’altro che rassicuranti. L’IPCC identifica quattro rischi chiave per l’Europa: rischi legati all’aumento di calore su popolazioni (tra cui aumento dei numeri di decessi da caldo) ed ecosistemi; rischi per la produzione agricola (perdite sostanziali in termini di produzione); rischio di scarsità delle risorse idriche (si pensi alla siccità attuale in Piemonte); rischi legati alla maggiore frequenza e intensità di inondazioni.

I rischi associati al cambiamento climatico sono particolarmente elevati per gli abitanti e gli ecosistemi nel bacino del Mediterraneo: si tratta di un’area che si è già riscaldata e che continuerà a riscaldarsi più della media globale e dove saranno particolarmente sentite le conseguenze dell’aumento delle temperature, della siccità, dell’innalzamento del livello dei mari. Impattato sarà anche il settore del turismo estivo e invernale.

Di fronte a uno scenario simile crediamo che i decisori politici non possano mettere in secondo piano l’urgenza di azioni volte alla mitigazione e all’adattamento. Tra l’altro ci preoccupa che si parli di riaprire le centrali al carbone o di aumentare le spese militari, utilizzando come giustificazione la guerra in corso in Ucraina. Secondo gli esperti oggi non ci resta che un decennio all’incirca per compiere scelte decisive per il futuro. Per questo invitiamo i cittadini a fare ogni sforzo per ridurre il proprio impatto ambientale e a sostenere solo politici e amministratori attenti a questi problemi. Chiediamo altresì ai nostri amministratori di concentrare i loro sforzi su questi temi e di informare i cittadini sul loro operato in merito.

* da volerelaluna.it - 16 marzo 2022

vedi: Cambiamenti climatici 2022: impatti, adattamento e vulnerabilità

Fonti rinnovabili, l’Italia ha perso otto anni per ridurre la dipendenza dal gas. La speculazione dopo il Conto energia di Berlusconi e il flop delle aste

 Il consulente energetico Sorokin: "In Italia nel 2011 c'è stato un balzo annuale unico al mondo, poi si è fermato tutto. Colpa della mancata pianificazione e di una norma che prevedeva incentivi costanti nel tempo invece che indicizzati alla riduzione dei costi, come in Germania". Oggi fotovoltaico ed eolico onshore sono più convenienti delle fonti fossili, ma "gli impianti non incentivati scontano l'incertezza dei ricavi", cosa che rende difficile ottenere finanziamenti, spiega Andrea Di Lieto dell'Energy & Strategy group del Politecnico di Milano. E ai nuovi bandi gli impianti eolici possono concorrere solo se già autorizzati

di Chiara Brusini  *

L’alternativa all’attuale forte dipendenza dal gas (russo e non) era a portata di mano. L’Italia ha avuto l’occasione di coglierla, ma tra assenza di pianificazione, leggi mal scritte e soldi mal spesi l’ha persa. Esattamente dieci anni fa la Penisola aveva conquistato un record mondiale: nel 2011, l’anno orribile della crisi del debito e dello spread oltre i 500 punti, si era piazzata al primo posto per nuova potenza fotovoltaica installata, oltre 9mila Mw. Venti volte più della Spagna, sei volte più della Francia, tre volte e mezzo la Cina. Sommando anche l’eolico, aveva aggiunto in dodici mesi 10.600 Mw di potenza da fonti verdi. Dietro c’era la manna del secondo Conto energia: una tariffa incentivante ventennale pari a circa sei volte quello che all’epoca era il prezzo di mercato dell’elettricità e valida anche per i grandi impianti a terra. Di lì l’istantanea impennata di richieste e, in breve, la necessità di correre ai ripari con limiti all’accesso e riduzione delle cifre, fino allo stop arrivato nel 2013. Da allora, complici iter autorizzativi ancora lentissimi, la media annua di installato si ferma a 800 Mw. per un totale di 57 Mw dai 50,5 del 2014. Intanto i consumatori continuano a pagare quei vecchi incentivi – tra 5,5 e 6,5 miliardi l’anno – attraverso le bollette.

È evidente che la “stampella” degli impianti a gas sarebbe servita comunque, considerato anche che la tecnologia di stoccaggio dell’energia prodotta da rinnovabili è ancora molto costosa e la soluzione del pompaggio idroelettrico non abbastanza utilizzata. Ma il consulente energetico Alex Sorokin ha calcolato che se negli ultimi otto anni lo sviluppo delle fonti rinnovabili fosse continuato alla stessa velocità del triennio 2010-2013 oggi il fabbisogno nazionale di gas sarebbe inferiore di almeno 20 miliardi di metri cubi annui, il 70% dell’attuale import dalla Russia. Come ricordato anche dal ministro Roberto Cingolani in audizione, infatti, ogni 8mila Mw di rinnovabili in più equivalgono a un risparmio di 3 miliardi di metri cubi di gas. “E la mia è una stima conservativa, perché solitamente la crescita dell’installato non è costante nel tempo ma progressiva”, spiega Sorokin, ingegnere nucleare per formazione. “In Italia invece c’è stato un balzo annuale unico al mondo e subito dopo si è fermato tutto. Colpa della mancata pianificazione e di una norma che prevedeva incentivi costanti nel tempo invece che indicizzati alla rapida riduzione dei costi legata ai progressi della tecnologia. La Germania ha adottato un meccanismo del genere e ora ha più solare di noi pur avendo molto meno sole”.

Porte aperte alla speculazione – Il peccato originale risale all’estate 2010, quando il quarto governo di Silvio Berlusconi (che ricopriva anche l’interim allo Sviluppo economico) scatenò la corsa al pannello con il decreto salva Alcoa che consentiva a chi terminasse l’installazione entro la fine di quell’anno con entrata in esercizio entro metà 2011 di accedere al secondo Conto energia invece che al terzo, meno generoso. “All’epoca i costi erano alti perché la tecnologia non era matura, ma quell’incentivo andava decisamente oltre il valore di mercato: da 360 fino a 440 euro a Megawattora per i grandi impianti, contro i 60-70 euro delle quotazioni di mercato”, ricorda Andrea Di Lieto, analista dell’Energy & Strategy group del Politecnico di Milano. “E la tariffa era fissa, a differenza di quella tedesca dove un algoritmo la aggiornava in base al numero di richieste, un buon indicatore per valutare se fosse troppo alta”. Porte aperte alla speculazione, insomma.

Impianti poco efficienti e nessuno sviluppo della filiera – Gli impianti fotovoltaici sono così più che raddoppiati, da 155mila a 330mila in dodici mesi. Con un effetto collaterale: “La corsa che si è innescata ha fatto sì che una parte non irrilevante dei pannelli installati si rivelasse poi di scarsa qualità, inefficiente, e venisse abbandonata a se stessa senza nemmeno fare manutenzione“. Si tratta in gran parte di prodotti provenienti dall’Asia, che ha una leadership naturale nelle prime fasi della filiera grazie all’abbondanza delle materie prime e “terre rare” come il litio, indispensabili per produrre i moduli. Aspetto che inevitabilmente, en passant, apre la strada a un’altra forma di dipendenza. Negli step successivi c’è più spazio per la competizione, come dimostra ancora una volta il caso della Germania che ha diversi grandi produttori di pannelli, ma l’Italia nonostante la partecipazione pubblica in StMicroelectronics è rimasta indietro. “C’è un impianto di produzione di Enel a Catania, ma con volumi di nicchia”.

Rinnovabili ora più convenienti del fossile. Ma pesa l’incertezza – Finita non senza scossoni la sbornia (nel marzo 2011 il decreto ribattezzato “ammazza rinnovabili” sancì la fine anticipata del terzo Conto energia e i successivi due introdussero tariffe decrescenti nel tempo), visti i progressi tecnologici del settore si sarebbe potuto individuare un sistema che si limitasse a “stabilizzare i ricavi“, riflette Di Lieto. Invece “si sono persi anni”. Oggi, con il fotovoltaico e l‘eolico onshore addirittura più convenienti delle fonti fossili, il problema non sono più i costi. “Gli impianti non incentivati scontano l’incertezza dei ricavi: il prezzo di vendita è il prezzo marginale che si forma ogni giorno sul mercato elettrico e dipende dal costo di produzione delle centrali a gas. In questo momento come sappiamo è altissimo, ma con l’aumento delle nuove installazioni c’è il rischio di cannibalizzazione: se tutti gli impianti solari immettono energia nelle ore centrali della giornata si può andare in surplus con il risultato che il prezzo crolla“. Servirebbe maggiore capacità di stoccaggio, ma i costi dei container-batteria sono ancora elevatissimi. Nella situazione attuale, l’incertezza frena l’investimento perché rende i progetti difficilmente finanziabili.

Perché le aste fanno flop – L’alternativa è partecipare al nuovo sistema di incentivazione, le aste Fer, “che abbattono il rischio perché assicurano una tariffa fissa, anche se non molto più alta di quella di mercato”. Perché allora finiscono costantemente con un flop, riuscendo ad allocare solo una piccola parte della potenza incentivabile? “Per il fotovoltaico c’è il divieto di partecipare con progetti su suolo agricolo, anche se non utilizzato”, risponde Di Lieto. “Quanto all’eolico, per prendere parte ai bandi bisogna avere già ottenuto l’autorizzazione. A differenza di quel che accade in Spagna, dove di conseguenza c’è molta più concorrenza e i prezzi si sono molto abbassati”. Il tasto dolente resta dunque quello delle procedure autorizzative che nonostante i vari interventi di semplificazione continuano a bloccarsi a livello di enti locali e Sovrintendenze. Tanto che ultimamente per accelerare il governo ha finito per procedere d’imperio, esercitando i poteri sostitutivi per sbloccare iter fermi da anni.

I limiti allo sviluppo – Insomma, gli obiettivi al 2030 – circa 70 Gw aggiuntivi – dovremo correre. A questo ritmo rischiano di essere irraggiungibili? Di Lieto ricorda che la sostituzione dei vecchi impianti, a partire da quelli eolici, con tecnologia più recente ed efficiente può aiutare (oltre a essere vantaggiosa per quanto riguarda l’impatto paesaggistico), ma non basta. “Al ritmo attuale di installazioni non arriveremo neanche a metà del target”. Secondo Sorokin “basta da un lato eliminare le barriere burocratiche e autorizzative, dall’altro aprire il mercato della vendita di energia da parte dei privati. Oggi un singolo con un impianto sul tetto è obbligato a cedere l’elettricità al Gestore dei servizi energetici: un sistema anacronistico e poco conveniente per il cittadino”.

*  da il fattoquotidiano.it - 21 marzo 2022

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18 marzo 2022

Spesa militare Ue, mai tanti soldi. Il report che denuncia conflitti d’interesse e opacità: “Prima tra le aziende finanziate è l’italiana Leonardo”

Il nuovo rapporto dello European Network Against Arms Trade (ENAAT) e del Transnational Institute racconta quella che definisce la "terza corsa agli armamenti", alla quale l'Unione europea starebbe contribuendo con un budget che nel nuovo bilancio 2021-2027 è aumentato di 13 volte rispetto al precedente. E a farla da padrone sarebbero lobbisti e aziende, che siedono negli organi di consiglio della Commissione Ue e influenzano le procedure di controllo

di Franz Baraggino *

Non ci vuole un genio a capire che più armi ci sono in giro e più aumentano le probabilità che qualcuno si faccia male. Ed è nello spirito di questa certezza che nasce il nuovo rapporto dello European Network Against Arms Trade (ENAAT) e del Transnational Institute, che punta il dito contro quella che definisce “la corsa agli armamenti dell’Unione europea“. A chi è rimasto colpito dalla tempistica con la quale alcuni Paesi europei, Germania in testa, hanno annunciato ingenti investimenti nella spesa militare, appena poche ore dopo l’inizio dell’attacco russo in Ucraina, interesserà sapere che il budget del Fondo Europeo per la Difesa (EDF) ha raggiunto un valore “senza precedenti di 8 miliardi di euro per la ricerca e lo sviluppo di sistemi militari”. Ma non solo di questo si tratta. Secondo il report, infatti, gli attuali programmi di difesa Ue da 600 milioni di euro sarebbero inficiati da conflitti d’interesse e accuse di corruzione. Con la fetta più grossa che, ovviamente, va ai principali produttori ed esportatori di armi: Francia, Germania, Italia e Spagna. Con il primato tutto italiano di Leonardo, maggiore destinatario singolo con 28,7 milioni di euro.

Il lavoro del Transnational Institute e di ENAAT, di cui fa parte anche la Rete Italiana Pace e Disarmo che ne pubblica il rapporto, viene ultimato mentre il mondo assiste allo scoppio dell’ennesima guerra. Il report ricorda che “verso la fine del 2021 i disordini nei Balcani hanno raggiunto il punto di ebollizione. Le tensioni nel Mar Cinese Meridionale continuano a ribollire e minacciano la stabilità regionale e globale. Le guerre e la violenza continuano in AfghanistanIraqSahelSiria e Yemen“. E che nonostante il suo principio fondatore di promozione della pace, l’Unione europea “ha intrapreso un percorso per affermarsi come potenza militare globale“. E non deve stupire, dunque, che per la prima volta “l’Ue ha annunciato che avrebbe, per la prima volta, finanziato e fornito armi letali a un Paese sotto attacco nell’ambito della European Peace Facility (il cosiddetto fondo strutturale per le Pace)”. A dieci anni dal trattato di Lisbona nel 2009, che fornisce la base giuridica per creare una politica di sicurezza e difesa comune, “l’Ue ha creato linee di bilancio che avrebbero specificamente assegnato finanziamenti a progetti militari”. Una nuova fase che sembra procedere a tappe forzate. A partire dal nuovo budget dell’EDF per gli anni 2021-2027, dove il report segnala un aumento dei fondi del 1250% rispetto al bilancio precedente, per un “totale che è 13,6 volte quello dei programmi precursori“.

Per capire come l’Europa spenderà questa montagna di soldi, però, il report analizza i precedenti programmi finanziati. “L’Azione preparatoria per la ricerca sulla difesa (PADR 2017-2019), con un budget di 90 milioni di euro per finanziare la ricerca sulla difesa, e il Programma europeo di sviluppo industriale della difesa (EDIDP 2019-2020) con un budget di 500 milioni di euro per finanziare lo sviluppo di attrezzature e tecnologie di difesa”. E ancora: “L’obiettivo di queste linee di bilancio è la ricerca e lo sviluppo su nuovi armamenti, così come il miglioramento di quelli esistenti integrando tecnologie all’avanguardia come l’intelligenza artificiale, i sistemi senza pilota o autonomi“. Secondo gli analisti militari citati nel rapporto, si tratta di armi che corrispondono “a una terza evoluzione nella corsa agli armamenti in cui sistemi d’arma automatizzati vengono provati e testati e possono alla fine diventare di utilizzo normale, nonostante le serie questioni legali ed etiche irrisolte”. Il pensiero corre ai droni protagonisti di molti conflitti, ma l’immaginazione è spinta ben oltre. Ed è lecito domandarsi come potrà mai rispondere il nemico di turno se gli invii contro un esercito di robot intelligenti che non sente dolore, non deve riposare, mangiare, medicarsi.

Ma le armi sono innanzitutto una questione di affari. E il rapporto denuncia l’opacità di quelli targati Ue, dove “i rappresentanti dell’industria delle armi sono stati inseriti nel comitato consultivo dei programmi PADR e EDIDP, ma i nomi dei membri del comitato non sono stati resi noti”. E non solo: “Nove dei sedici rappresentanti nel Gruppo di Personalità per la ricerca sulla difesa istituito dalla Commissione europea nel 2015 erano affiliati a società di armi, istituti di ricerca sulle armi e un’organizzazione di lobby dell’industria delle armi. In particolare le sei aziende militari erano AirbusBAE SystemsIndraLeonardoMBDA e Saab“. Basta? Nemmeno per sogno. “La proposta della Commissione europea che ha portato all’istituzione del Fondo Europeo per la Difesa era basata su un rapporto presentato dal Gruppo di Personalità, con intere sezioni letteralmente copiate dal rapporto del GdP e incollate nella proposta della Commissione”, si legge nel rapporto. I risultati? “I sette maggiori beneficiari di questa linea di finanziamento dell’Ue sono coinvolti in esportazioni di armi altamente controverse verso Paesi che stanno vivendo conflitti armati o dove sono al potere regimi autoritari che violano sistematicamente i diritti umani”.

Inoltre, gli autori hanno scoperto che cinque degli otto maggiori beneficiari “sono stati oggetto di accuse di corruzione negli ultimi anni”. Tra questi anche l’italiana Leonardo, la più grade azienda a produzione militare dell’Ue, primo beneficiario singolo della grande torta militare europea. Seguono la spagnola Indra (22,78 milioni di euro), le società francesi Safran (22,33 milioni di euro) e Thales (18,64 milioni di euro) e la società transeuropea Airbus (10,17 milioni di euro). Tra i paesi, la fetta più grossa spetta alla Francia, che da sola porta a casa un quarto dei finanziamenti erogati finora. Francesi, tedeschi, spagnoli e italiani portano a casa il 68,4% dei fondi a sostegno dell’industria militare e coordinano quasi il 70 percento di tutti i progetti finanziati. “Dall’altra parte dello spettro, quasi la metà dei paesi dell’UE ottiene ciascuno meno dell’1% dei finanziamenti”. Attenzione, però: “Queste linee di finanziamento richiedono esplicitamente che i Paesi Ue acquistino poi le armi e le relative tecnologie, le aggiungano al proprio arsenale di difesa o promuovano la loro esportazione verso paesi extraeuropei”. Come non bastasse, denunciano gli autori, “le procedure di controllo applicate per approvare il finanziamento di nuove armi letali sono molto al di sotto anche dei più basilari standard legali ed etici“. Un esempio? “La procedura di valutazione del rischio legale ed etico dell’Ue per questi fondi si basa principalmente su autovalutazioni da parte dei richiedenti (principalmente società private) che sperano di beneficiare dei finanziamenti dell’Ue”. Se tutto questo continuerà anche con il nuovo Fondo Europeo per la Difesa da 8 miliardi di euro, dice il rapporto, l’Unione contribuirà “ad aumentare le esportazioni di armi europee e alimenterà la corsa globale agli armamenti, che a sua volta porterà a più guerre, maggiore distruzione, una significativa perdita di vite umane e un aumento degli spostamenti forzati”.

* da ilfattoquotidiano.it - 18 marzo 2022