30 ottobre 2023

Israele e Hamas. La via della pace contro gli opposti estremismi

Di fronte alla barbarie e ai crimini di Israele e Hamas è necessario un sussulto da parte delle diplomazie. La pace è l'unica strada

di Andrea Barolini *

La nostra è una testata che, come i nostri lettori sanno, si occupa di finanza etica e di economia sostenibile. Non è nostro compito seguire l’attualità internazionale, ancorché molto spesso le cause e le conseguenze di ciò che accade nel mondo sono da ricercare anche nei comportamenti di banche e fondi d’investimento, nelle speculazioni finanziarie, nelle strategie di aziende che fabbricano armi o producono carburanti di origine fossile. Ciò detto, la situazione attuale in Palestina e Israele è talmente grave da impedire il silenzio.

Il nostro giornale, da sempre, è di parte. E la nostra parte è quella della pace. Non soltanto a Tel Aviv, in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. Ma la pace, nella storia, è quasi sempre arrivata soltanto in due modi. O per accettazione – più o meno indotta, più o meno convinta – dai belligeranti. O per la sconfitta di una delle due parti. Con tutto ciò che ne consegue in termini di morte, distruzione e sofferenza.

È per questo che una soluzione pacifica non potrà arrivare attraverso posizionamenti sbilanciati, da un parte e dall’altra. Sia ben chiaro: non è un discorso “ecumenico”, semmai l’esatto contrario. La sola via possibile per una risoluzione del conflitto arabo-israeliano passa per l’ipotesi dei due Stati, liberi, sovrani e indipendenti. Come chiesto a più riprese dalle Nazioni Unite.

Per farlo, serve apertura. Oggi, invece, a prevalere a Tel Aviv e a Gaza sono due opposti estremismi. Non è un caso se l’ultima volta che, dopo il lontanissimo settembre 1993, sono stati effettuati tentativi seri di dialogo è stato nel 2014 quando il segretario di Stato dell’amministrazione del presidente americano Barack Obama, John Kerry, aveva tentato, invano, di far negoziare il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. 

Per quanto riguarda il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’ultima iniziativa risale al 23 dicembre 2016, con l’adozione (all’unanimità!) della risoluzione 2334, nella quale, dopo aver ricordato «la visione di una regione nella quale due Stati democratici, Israele e la Palestina, vivono fianco a fianco», ha riaffermato:

– che «l’acquisizione di territori con la forza è inammissibile»; 

– che «lo status quo non è accettabile»;

– che «la creazione di colonie da parte di Israele costituisce una violazione flagrante del diritto internazionale»;

– che «Israele, potenza d’occupazione, è tenuta a rispettare i suoi obblighi in virtù della quarta convenzione di Ginevra». 

Un altro estremista, Donald Trump, si è insediato pochi giorni dopo alla Casa Bianca e ha cambiato tutto. Ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele (dicembre 2017), ha chiuso il consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme Est, ha ridotto drasticamente gli aiuti all’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di portare sostegno a 5,8 milioni di palestinesi (la Unrwa) e ha proposto un piano di pace impraticabile nel gennaio 2020. 

A ciò si aggiunge il fatto che oggi la compagine governativa israeliana rende la situazione ancor più drammaticamente polarizzata: a scontrarsi, tra Tel Aviv e Hamas, sono come detto due opposti estremismi, come spiegato anche da Jean-Paul Chagnolleau, uno dei massimi esperti europei della questione israelo-palestinese, presidente dell’Istituto francese di ricerca e studi su Mediterraneo e Medio Oriente, professore emerito di Scienze politiche all’università di Cergy-Pontoise, che ha pubblicato un fondo sul quotidiano francese Le Monde (all’estero i mezzi d’informazione, anche quelli mainstream, hanno un atteggiamento ben più laico rispetto alle testate italiane sulla vicenda). 

Scrive il docente: «Netanyahu, già come primo ministro dal 1996 al 1999, aveva fatto di tutto per ostacolare il processo di Oslo, che considerava come “il problema e non la soluzione”. Posizionamento ancor più affermato oggi attraverso l’alleanza con i leader della destra più estremista, appartenente alla stessa linea ideologica di coloro che assassinarono Yitzhak Rabin nel novembre del 1995. L’obiettivo dichiarato di questa coalizione è l’annessione della Cisgiordania, implicando la totale sottomissione di tre milioni di palestinesi e il mantenimento dell’embargo su Gaza, per mantenervi rinchiusi i 2 milioni di persone che vi abitano». 

L’ordine impartito questa mattina dalle autorità militari israeliane ad 1,1 milioni di persone di concentrarsi a sud di Wadi Gaza entro le prossime 24 ore lo dimostra pienamente. È un ordine oggettivamente e indiscutibilmente ineseguibile in così breve tempo, per di più senza carburante e acqua poiché tagliati dagli stessi israeliani. La Croce Rossa Internazionale, custode delle convenzioni di Ginevra, è stata chiara. E Unhcr ed Unrwa confermano l’impossibilità di muovere così tante persone in questi tempi e in questo contesto. 

Di contro, i palestinesi «anziché cercare di trovare la strada della loro unità nazionale, come all’epoca di Yasser Arafat (presidente dell’Autorità palestinese dal 1996 al 2004) e dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, non hanno fatto altro che combattersi, con Hamas da una parte e l’Autorità palestinese dell’altra. Hamas si è chiusa in una deriva autoritaria a Gaza e l’Autorità si è impantanata in una sterile cooperazione di sicurezza con Israele, ignorando le aspirazioni dei giovani palestinesi, presso i quali ha perso ogni credibilità». 

Oggi la Palestina è divisa tra milioni di persone in esilio nei campi profughi e altri milioni che si trovano sotto il dominio di una potenza d’occupazione (sempre secondo l’espressione unanime dei membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite) dal 1967: «Ciò significa che un’intera generazione di giovani è privata del suo avvenire. Ovvero, le è impedito di vivere. Restava solo da chiedersi da dove sarebbe arrivata una nuova esplosione: da una nuova forma di intifada in Cisgiordania o da Gaza con Hamas?». 

Ciò detto nulla, nulla, nulla può giustificare la barbarie compiuta da Hamas. Che è un crimine di guerra e contro l’umanità. Ciò – per pura onestà intellettuale – non ci impedisce di condannare anche gli atti barbari che troppo spesso sono stati compiuti contro i palestinesi. I bombardamenti a tappeto e il taglio dei mezzi necessari per la sopravvivenza sono potenziali crimini di guerra, altrettanto, ai sensi degli articoli 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale. Identico discorso vale per i rapimenti di ostaggi civili da parte dei fondamentalisti islamici.

Non c’è alcuna differenza tra un bambino israeliano ucciso con un colpo alla nuca e un bambino palestinese ucciso con un missile sulla testa. Né fa alcuna differenza la narrativa del “chi ha cominciato prima” (per la quale si aprirebbe un gioco senza fine che porterebbe al 1948).

Gaza è una prigione a cielo aperto. Nella quale persone innocenti (o comunque non processate) sono sottoposte a punizioni atroci: non possono uscire, acqua ed elettricità sono fornite a piacimento e a singhiozzo, mancano scuole, medicine, infrastrutture. L’area è circondata da muri, fili spinati, torrette con sentinelle. I pochissimi varchi sono presidiati (e oggi chiusi perfino agli operatori umanitari). Due milioni di persone sono lasciate lì a vivere in condizioni disumane e centinaia di loro sono sistematicamente ammazzate ogni anno, nella sostanziale, vergognosa indifferenza della comunità internazionale.

In Cisgiordiania, in barba a numerosissime risoluzioni dell’Onu, Israele continua ad imporre insediamenti illegali. Cacciando – letteralmente – i palestinesi dalle loro case e dalle loro terre, che vengono “assegnate” a israeliani, protetti poi dall’esercito. Senza dimenticare le vessazioni, le mancanze di rispetto e le forme di apartheid a cui sono sottoposti quotidianamente i cittadini arabi. Un comportamento, anche qui è necessario utilizzare le parole giuste, che non è quello che ci si può aspettare da una democrazia. Ove con tale termine non ci si riferisce al mero atto di andare a votare per eleggere i propri rappresentanti e governanti, ma ad un corpus di valori proprio, appunto, delle società democratiche.

Mentre scriviamo, i numeri del conflitto sono i seguenti: l’attacco di Hamas ha provocato più di 1.200 morti e 3.391 feriti, secondo il ministero della Salute di Tel Aviv. La risposta israeliana ha comportato (per ora) l’uccisione di 1.537 persone e il ferimento di altre 6.612 solo nella Striscia di Gaza, secondo il ministero della Salute locale. Un comunicato dell’esercito israeliano indica che sull’area sono state sganciate seimila bombe, per un peso totale di circa quattromila tonnellate di esplosivo. E gli Stati Uniti si sono affrettati ad assicurare che forniranno altre armi.

Al contrario, i governi di tutto il mondo dovrebbero fornire personale diplomatico. Anche laddove la diplomazia sembra impossibile. Ma la politica appare incapace di comprendere cosa ci sia dietro le violenze e i morti: nel Regno Unito si parla di considerare un atto criminale sventolare una bandiera palestinese, in Francia il ministero degli Interni ha appena vietato le manifestazioni di solidarietà alla popolazione di Gaza.

La realtà è che quasi mezzo milione di persone ha abbandonato le proprie case in quel lembo di terra martoriato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Ci sono più di 50mila donne incinte sotto le bombe a Gaza. 5.500 di loro dovranno partorire nel prossimo mese. Le ong hanno riferito di ospedali e ambulanze bombardati.

Che a Tel Aviv o tra i guerriglieri di Hamas possano esserci prese di coscienza, al momento, è francamente impensabile. Israele ha parlato di «assedio totale», di «animali umani»; Hamas rivendica con soddisfazione atti efferati. Le voci del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, del papa e delle organizzazioni umanitarie sembrano annegare nel frastuono delle bombe. Ma chi cerca la pace è proprio ora che non deve demordere. Un’escalation avrebbe conseguenze imprevedibili per il mondo intero. E schierarsi acriticamente con Israele o con Hamas, oggi, è il modo migliore per avvicinarci allo scenario peggiore.

nella foto, distruzione a Gaza dopo bombardamenti israeliani nel 2014

* da valori.it – 13 ottobre 2023

29 ottobre 2023

Palestina libera, Londra c’è mentre il Labour va in pezzi

Guerra in Israele. In centomila per chiedere la fine del massacro. Dopo aver detto che Israele ha il diritto di tagliare i viveri a Gaza, Starmer tace. E crolla nei sondaggi

 di Leonardo Clausi *

Per il terzo sabato consecutivo, decine di migliaia di manifestanti si sono riversati nelle strade della capitale per fermare il massacro di civili a Gaza.

Organizzato dalla Palestine Solidarity Campaign, il corteo si è snodato a partire da Embankment fino a Trafalgar Square in contemporanea con altri a Manchester, Glasgow e Belfast.

Il sabato prima erano in centomila, ieri ne sono stati stimati altrettanti. Vietato inneggiare ad Hamas e gridare «Jihad» (che significa «sforzo», «lotta»), pena l’intervento del migliaio di poliziotti schierati, fortemente voluti dalla ministra dell’interno Braverman.

SI SENTE «DAL FIUME AL MARE/la Palestina sarà libera», l’altro controverso slogan proscritto in quanto, sempre secondo Braverman e l’autorità israeliana, esprime un «desiderio violento di cancellazione di Israele», mentre per molti altri non è che un grido di libertà.

Al corteo erano presenti anche gruppi ebraici tutti a sinistra del Labour, come Jewish Solidarity Action, Jewdas, Black Jewish Alliance, Na’amod (ebraico per «staremo in piedi»), il Jewish Socialists’ Group, Jews for Justice for Palestinians e il più influente Jewish Voice for Labour, noto per aver ripetutamente espresso la propria solidarietà a Jeremy Corbyn e che tanto si è prodigato per sfatare la bufala del suo presunto antisemitismo.

Jeremy Corbyn: Quello di Hamas un attacco odioso. Va condannata la violenza contro tutti i civili, indipendentemente dagli schieramenti di cui facciano parte

Nel frattempo, Keir Starmer tace. Il leader laburista non vuole cedere alla pressione montante nel partito, che lo vorrebbe schierarsi per il cessate il fuoco. Resta debitamente incollato a Rishi Sunak e alla sua striminzita richiesta di «pause umanitarie» ai bombardamenti israeliani (all’assemblea generale dell’Onu, la mozione sulla tregua ha visto la Gran Bretagna astenersi). La posizione di Sunak è in ovvia osmosi con quella di Joe Biden: Israele ha il diritto di difendersi, anche quando questa difesa comporti una ferale vendetta sugli oltre ottomila civili inermi finora massacrati.

E IL PARTITO PERDE PEZZI, anche grossi. Lo schieramento è costato finora le dimissioni di 25 consiglieri comunali, soprattutto nel nord, mentre due figure di rilievo come Andy Burnham e Sadiq Khan – sindaci rispettivamente di Manchester e di Londra – e il leader del Labour scozzese Anas Sarwar, si sono espressi sia per il cessate il fuoco che per il rilascio immediato degli ostaggi israeliani assieme ad altri 39 deputati. 250 councillors musulmani hanno scritto al leader perché chieda la fine delle ostilità, mentre sarebbero una dozzina i ministri-ombra pronti a dimissionarsi. Secondo un sondaggio sulle intenzioni di voto, alle prossime politiche la percentuale di elettori disposti a votare Labour è scesa dal 71% al 5%.

I guai sono iniziati giorni addietro quando, ai microfoni della destrorsa emittente radiofonica Lbc, l’avvocato dei diritti umani Starmer afferma che Israele ha il diritto di tagliare i rifornimenti idrici e elettrici a Gaza, provocando dilagante sdegno in migliaia di ascoltatori.

Da allora, il leader è intento in una meticolosa quanto goffa operazione di ricucitura. La tensione nel paese è alta, tanto che ad alcuni parlamentari di primo piano è stata offerta una scorta nel timore che possano subire aggressioni o attentati.

DA SETTIMANE LA MACELLERIA di Hamas e l’oltretomba a cielo aperto che ormai è Gaza squassano le coscienze, politiche e non. Ira, lutti e strazio attraversano impetuosi le comunità ebraica e musulmana britanniche nelle crescenti accuse incrociate, e negli episodi, di islamofobia e antisemitismo.

Un incubo per Starmer, considerato ormai da molti premier in pectore e reduce dal successo della capillare decontaminazione del partito dal corbynismo, filopalestinese e dunque oltraggiosamente eterodosso rispetto all’atlantismo costituzionale del Labour. Ma che ha di nuovo pericolosamente divaricato la base del partito dalla componente parlamentare, che l’era Corbyn aveva riunite come forse mai prima. In un recente articolo nella storica rivista Tribune, lo stesso Corbyn – accusato più volte di essere «l’amico di Hamas» e oggi deputato indipendente – ha condannato «la violenza contro tutti i civili, indipendentemente dagli schieramenti di cui facciano parte», definendo quello di Hamas un attacco «odioso e deplorevole».

CON LO SCORRERE DEL TEMPO e del sangue, per i laburisti la solidarietà univoca a Israele diventerà sempre meno sostenibile, soprattutto in vista della sproporzione fra il proprio, maggioritario elettorato musulmano e quello di fede ebraica. Ma Starmer terrà duro. Gli Stati (e il Regno) Uniti non sono i due principali pilastri di Israele in Medio Oriente per caso. E la special relationship è la stessa che indusse Tony Blair a scodinzolare dietro a George W. Bush nella banditesca invasione irachena.

* da il manifesto - 28 ottobre 2023 

nella foto: la manifestazione che si è snodata nelle strade di Londra - leggi anche:

La Scozia: accoglieremo i profughi palestinesi

Decine di migliaia in corteo a Roma per il cessate il fuoco

A New York contro i bombardamenti su Gaza, sit-in a Grand Central


16 ottobre 2023

Palestina: Il disordine globale e il ruolo americano

 di Massimo Cacciari *

 L’attacco di Hamas ha segnato una svolta nello storico conflitto tra Israele e Palestinesi. Si tratta di una vera e propria azione di guerra, che travalica, per organizzazione e dispiegamento di forze, i suoi caratteri ancora propriamente terroristici. Conflitto in atto dal 1947, come noto, ma se guerra, nel senso tradizionale, vi è stata, questa è stata condotta fino a ora da una parte soltanto, come per l’invasione del Libano del 1982; lo scontro si è svolto sempre nella forma tipicamente asimmetrica di quello tra Stato e eserciti regolari contro “movimenti”, le diverse Intifada, o parti e gruppi “estremisti”. Oggi l’asimmetria rimane solo tra forze militari, per il resto sembra si sia giunti a una lotta tra Stati. Questo rende del tutto illusoria l’idea che il conflitto possa venire “incapsulato”.

Ciò vale per questa tragedia come per quella, ovviamente di natura del tutto diversa, ucraina. Soltanto decisioni che derivino da intese tra grandi potenze possono permettere di pensare a vie d’uscita. Ma proprio il “disordine globale” sembra rendere questa prospettiva nient’altro che una speranza. Qualsiasi nuova road-map, a partire dall’arresto della guerra, può essere oggi realisticamente tracciata soltanto se gli Stati Uniti vorranno in qualche forma riaprire la strategia che portò prima a Camp David e poi alla firma dell’accordo transitorio di Oslo 2 nel 1995. È del tutto evidente che se invece si ritiene qualsiasi accordo ormai impraticabile, non vi è alternativa alla guerra – e a una guerra infinita, a meno di non mirare all’impossibile, e cioè all’annullamento della nazione palestinese.

Si deve riconoscere che sono crollati i pochi fattori che sostenevano quegli accordi, in base ai quali iniziò l’autogoverno palestinese nella fascia di Gaza. Alcuni dei protagonisti di quella fase, tra cui Rabin, assassinato da un estremista religioso ebraico, sono morti, altri non si sono mostrati all’altezza del loro compito, come Arafat, che morì nel 2004, e l’intero gruppo dirigente dell’OLP, incapaci di contrastare Hamas, delegittimati sempre più agli occhi del loro popolo per corruzione e incompetenza, e isolati sul piano internazionale a causa di colossali errori, come l’appoggio all’Iraq nella prima guerra del Golfo. È chiaro che la matassa poteva essere sbrogliata soltanto se presa da questo bandolo: formare una Autorità palestinese ferma sul principio, da realizzarsi gradualmente, “sicurezza in cambio di terra” e in grado di mostrare che il riconoscimento del diritto dello Stato di Israele aveva assunto valore storico, strategico.

Parallelamente, dall’altra parte - e in questo senso proseguirono gli accordi di Oslo -, occorreva favorire il processo di formazione di una vera sovranità statuale palestinese, inesistente fino a quando si fosse ridotta a una serie di enclaves divise tra loro da strade divisorie, e Israele, cioè un altro Stato, avesse mantenuto il controllo di commercio, forniture, flusso dei lavoratori, spazio aereo. Inutile ricordare le condizioni della popolazione a Gaza, denunciate per anni da tutte le organizzazioni umanitarie internazionali, e destinata oggi a subire un altro, atroce esodo, condotta alla disperazione. Zeev Sternhell, storico dell’Università ebraica di Gerusalemme, disse: solo una mente malata può sperare che l’occupazione possa portare alla pace. Le occupazioni portano alla guerriglia infinita. Altrettanto delle ideologie irrealistiche, buone forse a tenere a galla falliti gruppi dirigenti, ma soprattutto ad affossare i propri popoli. Un dirigente di Hamas ha detto: combatteremo Israele fino al giorno del Giudizio – poteva dire: condanneremo i palestinesi alla miseria e alle sofferenze fino a quando saremo tutti morti. È altrettanto irrealistico e causa inesorabile di sciagure pensare che lo Stato di Israele possa venire distrutto, che credere che possa restare “in pace” una nazione privata di ogni reale sovranità.

Ma Oslo è morto, sentenziò già Sharon nel lontano 2002, e da allora non ha fatto che continuare a morire. Vuol dire che l’ostilità non conosce più limiti? Che l’inimicizia ha fagocitato tutto? Anche se così fosse per i diretti contendenti, questo non potrebbe valere per noi, poiché questa guerra può avere incalcolabili conseguenze sul destino di tutti. La storia pone anzitutto agli Stati Uniti una domanda concreta: conviene ai suoi attuali disegni geo-politici mantenere tra Israele e palestinesi una situazione che, lasciata a sé stessa, potrebbe concludersi soltanto in base al “classico” principio: “i confini del mio Stato sono definiti soltanto dai limiti della mia forza” e al suo interno non tollero altri Stati ma al più solo dei ghetti? Dovrebbe risultare chiaro da ogni nostra azione che combattiamo Hamas o Hezbollah proprio perché la loro strategia annulla ogni possibilità di pace ed è contraria agli interessi della nazione palestinese, interessi legittimi, che la comunità internazionale deve di nuovo ribadire, e proprio in questi tragici frangenti, fondati sul diritto alla dignità e sovranità. 

Gli Stati Uniti sono oggi impegnati nel ridisegnare un Nomos della Terra nel confronto sempre più pericolosamente ravvicinato con imperi in evidente decadenza e altri invece in crescita con potenzialità difficilmente calcolabili. Che una faglia così decisiva come quella che corre tra Israele e Palestina resti aperta, con i conseguenti terremoti che può sempre suscitare in tutto il Medio-oriente, appare contraria ai loro interessi, a ogni linea di Realpolitik. Gli unici soggetti in grado di far riprendere la strada della trattativa sono loro, piaccia o no; la Russia è fuori gioco, la Cina da lontano assiste al moltiplicarsi delle difficoltà dell’Occidente, l’Europa anche assiste, ma per impotenza.

Il grande politologo Raymond Aron rispondeva a chi gli domandava perché non avesse mai fatto politica: «Perché voglio pensare». Con tutto il cuore dobbiamo augurarci che la leadership politica americana sia oggi in grado di smentirlo.

* da La Stampa - 16 ottobre 2023