di Massimo Marino *
E’ opinione diffusa, e non più
solo nella galassia dei movimenti che confusamente aspirano al cambiamento, che
il sistema dei vecchi partiti sia arrivato alla fine, più per autodistruzione
che per la presa di un palazzo d’inverno romano da parte di una rivoluzione in
corso.
I partiti delle Repubblica, che attraverso trasformazioni e
riconversioni formali hanno dominato la scena della prima e di una identica seconda
Repubblica, non hanno dimostrato nulla di nuovo, ma di volta in volta sono stati una
degenerazione dei precedenti.
Voracità, trasformismo, corruzione, incompetenza,
subalternità e complicità con poteri forti e
gruppi criminosi sono le accuse dilaganti. Anche se si sottovaluta la
capacità di autoconservazione, pur in
una definitiva subalternità a gruppi
finanziari e poteri sovrannazionali, la
richiesta di cambiamento, di nuovi soggetti
politici e di nuove culture ha un oggettivo spazio in crescita, anche se non ne sono fino ad oggi definiti i
possibili contorni.
Nel ristretto ambito delle forme organizzate e del confronto
elettorale, che è solo un aspetto del conflitto sociale, l’Italia vive una
singolare anomalia:
- c’è una ricchezza di movimenti, gruppi, intellettuali, comitati, associazioni, competenze, ed anche
lotte, che hanno pochi eguali nel resto dell’Europa
- c’è un eccesso di offerta di
partiti o movimenti politici che in qualche modo si candidano a rappresentare
l’alternativa: dal movimento di Grillo, al partito personale di Vendola e a quello di Di Pietro, ai quali
oggi si attribuisce almeno un 25% potenziale della rappresentanza elettorale, che però devono fare i conti con sistemi elettorali “punitivi “. Vanno aggiunti
i più piccoli, da rifondazione, ai verdi , alla composita area dei gruppi
civici e ambientalisti , fino alla decina di micropartitini non dichiarati.
Tutti insieme un “partito che non c’è” che
è (sarebbe) oggi il primo partito del
paese con più di un terzo della rappresentanza (ultimamente lo si stima al 35%).
E che in particolari momenti, ad esempio in occasione degli irripetibili referendum del 2011, ha mostrato per un
attimo di poter esistere e di poter convincere la maggioranza del paese.
- c’è la richiesta di una diversa espressione politica delle
forme organizzate e della progettualità dell’alternativa, considerate da molti inadeguate le forze esistenti che si portano dentro parte delle
contaminazioni velenose del sistema politico al tramonto. Mentre la crisi
economica , quella ambientale e non ultima quella morale, accentuano la
radicalità delle richieste e l’ostilità all’intero sistema politico esistente. Non
si sente il bisogno di un nuovo partitino della sinistra, degli ambientalisti,
del mondo civico; sono già troppi, inefficaci, inutili. Serve sciogliere,
unire, superare e coagulare su nuovi paradigmi unificanti.
Periodicamente, almeno negli
ultimi 2-3 anni, sono nati appelli,
manifesti, convegni, dichiarazioni ( almeno una decina quelli di qualche
rilievo ) con l’obiettivo di fondare, o rifondare e superare movimenti e
partiti dell’alternativa esistenti. Nessuno ha avuto un vero successo.
Le
sole vittorie sono venute da movimenti
di grande aggregazione. E’ il caso dei referendum, in particolare quello che
ha fermato il nucleare ed insieme ha aperto una nuova prospettiva: economica,
ambientale, occupazionale. E’ il segno che nessuno da solo esprime un convincente progetto che avvicini
alla realtà quel “partito che non c’è” che serve al paese.
E’ bene aver chiaro e non far
finta di niente o esserne irresponsabilmente inconsapevoli, che se non si
produce una svolta, se non si trova un percorso di aggregazione, se non si
costruisce un progetto di cooperativa con i necessari compromessi e le mediazioni possibili, pur mantenendo la
radicalità di fondo necessaria, l’insieme dei movimenti verrà fatto a pezzi, si
disgregherà ulteriormente in mille rivoli e frammenti irrilevanti; stritolato dalla crisi, dal
riflusso, magari anche dalle fughe in avanti, già altre volte vissute amaramente nella storia italiana del
dopoguerra: dal ’68 al ’77, dai movimenti per la pace e per l’ambiente degli anni '80-'90, dai
noglobal fino ai girotondi e a mani
pulite del ventennio scorso. La vecchia Italia ha resistito, anzi è peggiorata,
esprimendo arroganza e pretendendo il diritto all’impunità, fino all’idea di vendersi al miglior
offerente.
La prima questione è che
se andrà in porto il percorso di riforma
elettorale che stanno mettondo a punto i tre
partiti alleati a sostegno di Monti ( e
le forze che li governano o li influenzano ), esiste la possibilità che non solo il movimento di Grillo ( che è il
primo obiettivo), ma tutte le forze
che non collaborano o non si adeguano al
“progetto Monti”, verranno tenute fuori o ridotte all’irrilevanza nel nuovo
Parlamento. “Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori” abbiamo scritto; è il nuovo paradigma della sovranità perduta e
ceduta, al di sopra della favola del centro-destra e centro-sinistra , buona
per i talk-show.
Il tema della riforma elettorale non affascina, non è compreso, viene rimosso
dalla gran parte dei movimenti. Ne è un segno la proposta-truffa antiporcellum dell’agosto scorso, sostenuta
all’inizio dagli stessi, ad esempio Di
Pietro e Vendola che con sei mesi di ritardo hanno compreso, almeno
sembra, di aver svolto il ruolo di affrettati
sprovveduti e protestano per il
tentativo di golpe in corso sulle regole. La riproposizione del maggioritario,
magari nella nuova versione dei collegi, del quorum alto e del premio per uno
o per due, la cancellazione di qualunque
forma di rappresentanza proporzionale, di scelta degli eletti, di limiti di
mandato e di incompatibilità, non è una
questione fra le altre ne è pensabile che qualunque “nuovo soggetto” possa evitare di metterla al
centro di una proposta che la contrasti: perché riguarda il problema della democrazia rappresentativa sostanziale che è il presupposto
indispensabile di quelle forme di democrazia
diretta e dal basso che ne sono l’altra faccia. A meno che si dia per
scontato il ruolo di gregari.
La seconda questione è
quella che riguarda la giustizia sociale; qualcuno, con un eccesso di semplificazione la chiama la questione del
diritto al lavoro. Ma è ben di più: è intollerabile, ed incompatibile con un
percorso di cambiamento, che il sistema economico, finanziario, industriale,
della ricerca, nel privato ma anche nel pubblico, sia dominato da un gruppo di rapinatori
che da decenni svuotano come sanghisughe le risorse dello stato, ne corrompano
le scelte per progetti e grandi opere inutili, non essenziali o di
costo esorbitante. Che si arricchiscano in Italia e reinvestano in altri paesi
dove diritti, ambiente, tutele, sono ridotti ai minimi termini o inesistenti; che considerino precarietà e licenziamenti come base di un sistema industriale fasullo; che
esortino alla flessibilità, ai sacrifici, alla cancellazione dei diritti, nel
mentre si attribuiscono bonus economici e praticano metodi corruttivi che
non hanno eguali in nessun paese
dell’occidente. Mentre la parte di
imprenditoria più virtuosa, più
innovativa, quella che paga le tasse, non collude con le mafie, non considera i
lavoratori una variabile insignificante, è costretta a smobilitare oppure, se ce la fanno, a
portare all’estero le proprie capacità di innovazione.
Ma il nodo di qualunque
aggregazione, di un nuovo soggetto politico, dell’apertura di un percorso di
transizione ad una società nuova, sta nella messa a fuoco della direzione di un progetto di cambiamento:
economico, sociale, culturale.
La fine della illusione della
crescita infinita, il precipitare dell’ equilibrio ambientale, l’entrata in campo
dei paesi dell’altra parte del mondo, l’esaurimento delle risorse
energetiche, la voracità della finanza internazionale senza patria
che mangia nazioni, settori economici e lavoro per garantire la propria
sopravvivenza, impongono un cambiamento radicale. Servono riforme, ma sono
riforme rivoluzionarie.
La Conversione ecologica è un
modello di riferimento su cui ragionare perché diventi un progetto unificante,
convincente per la gran parte delle persone, adeguato a fermare la crisi ambientale;
utile per produrre ciò che serve ed è
indispensabile a invertire la crisi
economica e finanziaria, a produrre nuovo e diverso lavoro, nuovi prodotti e
diversa qualità della vita, a garantire
un futuro alle nuove generazioni, risolvere la crisi energetica uscendo dalla
preistoria del petrolio e del nucleare verso le rinnovabili. Coniugare rispetto
del territorio, lavoro, benessere, etica, utilità sociale; un progetto esportabile in tutte le diverse aree del
pianeta.
Perché il cambiamento diventi un
progetto unificante per gran parte delle persone servono nuovi principi relativi alle abilità umane che
dovranno regolare il progetto, oggi
quasi interamente scomparse dai rapporti tra le persone ma che risultano
indispensabili affinchè le nuove regole diventino realtà e non rimangano un
sogno. Gli scambi intessuti tra le persone debbono transitare da una
competizione spietata in cui il più forte sottrae le risorse vitali al più
debole, ad un nobile e generoso scambio reciproco finalizzato alla difesa del bene comune. Si tratta di creare una vera
rete di relazioni in cui il dare e il ricevere, la comunicazione, i principi
della relazione, della comunicazione, dell’educazione, del rispetto per tutti
gli esseri viventi siano humus e base della nuova realtà.
Non si tratta di una nuova
ideologia, da aggiungere a quella del liberismo e del capitalismo, ne a quella
della lotta di classe e dell’economia di stato della sinistra del secolo scorso;
ma pragmaticamente di afferrare l’unico salvagente che ci tolga dalle mani dei
fautori dell’autodistruzione, dell’arroganza, della incompetenza vorace. C’è
molto lavoro da fare e molto da inventare; e ci vuole il tempo che ci vuole;
senza girare in tondo con vecchi paradigmi.
Costruire un progetto di
transizione alla conversione ecologica, affiancato dalla riconquista
della democrazia sostanziale e della giustizia sociale ( che non sono la
storia di cento anni della sinistra del ‘900 ma da mille anni le basi del
diritto naturale dei popoli) è un po’ più complicato che scrivere un programma
di copia incolla in dieci punti, o decidere un nome o nominare nuovi leader, che non ci sono e se proprio servono verranno dopo. Serve unificare un passo per
volta la gran parte del paese, comune per comune, settore per settore , fino ai
nodi centrali dello stato e della convivenza sociale, magari insieme
ad altri in Europa, per incamminarci fuori dal vicolo cieco in cui ci hanno
trascinati.