26 aprile 2012

La conversione ecologica e i soggetti politici dell’alternativa: non è tempo di girare in tondo


di Massimo Marino *

E’ opinione diffusa, e non più solo nella galassia dei  movimenti  che confusamente aspirano al cambiamento, che il sistema dei vecchi partiti sia arrivato alla fine, più per autodistruzione che per la presa di un palazzo d’inverno romano da parte di una rivoluzione in corso.

I partiti delle  Repubblica, che attraverso trasformazioni e riconversioni formali hanno dominato la scena della prima e di una identica seconda Repubblica, non hanno dimostrato nulla di nuovo, ma  di volta in volta sono stati una degenerazione dei precedenti. 
Voracità, trasformismo, corruzione, incompetenza, subalternità e complicità con poteri forti e  gruppi criminosi sono le accuse dilaganti. Anche se si sottovaluta la capacità di autoconservazione, pur  in una definitiva subalternità  a gruppi finanziari  e poteri sovrannazionali, la richiesta di cambiamento, di nuovi soggetti  politici e di nuove culture ha un oggettivo spazio in crescita,  anche se non ne sono fino ad oggi definiti i possibili contorni.
Nel ristretto ambito  delle forme organizzate e del confronto elettorale, che è solo un aspetto del conflitto sociale, l’Italia vive una singolare anomalia: 

- c’è una ricchezza di movimenti, gruppi, intellettuali,  comitati, associazioni, competenze, ed anche lotte, che hanno pochi eguali nel resto dell’Europa 

- c’è un eccesso di offerta  di partiti o movimenti politici che in qualche modo si candidano a rappresentare l’alternativa: dal movimento di Grillo, al partito personale  di Vendola e a quello di Di Pietro, ai quali oggi si attribuisce almeno un 25% potenziale della rappresentanza elettorale,  che però devono fare i conti con  sistemi elettorali “punitivi “. Vanno aggiunti i più piccoli, da rifondazione, ai verdi , alla composita area dei gruppi civici e ambientalisti , fino alla decina di micropartitini non dichiarati. Tutti insieme un “partito che non c’è”  che è (sarebbe) oggi  il primo partito del paese con più di un terzo della rappresentanza (ultimamente lo si stima al 35%). E che in particolari momenti, ad esempio in occasione degli irripetibili  referendum del 2011, ha mostrato per un attimo di poter esistere e di poter convincere la maggioranza del paese.

- c’è la richiesta di una diversa espressione politica delle forme organizzate e della progettualità dell’alternativa, considerate da molti  inadeguate le forze esistenti   che si portano dentro parte delle contaminazioni velenose del sistema politico al tramonto. Mentre la crisi economica , quella ambientale e non ultima quella morale, accentuano la radicalità delle richieste e l’ostilità all’intero sistema politico esistente. Non si sente il bisogno di un nuovo partitino della sinistra, degli ambientalisti, del mondo civico; sono già troppi, inefficaci, inutili. Serve sciogliere, unire, superare e coagulare su nuovi paradigmi unificanti. 
Periodicamente, almeno negli ultimi 2-3 anni, sono nati  appelli, manifesti, convegni, dichiarazioni ( almeno una decina quelli di qualche rilievo ) con l’obiettivo di fondare, o rifondare e superare movimenti e partiti dell’alternativa esistenti. Nessuno ha avuto un vero successo.

 Le sole  vittorie sono venute da movimenti di grande aggregazione. E’ il caso dei referendum, in particolare quello che ha fermato il nucleare ed insieme ha aperto una nuova prospettiva: economica, ambientale, occupazionale. E’ il segno che nessuno da solo  esprime un convincente progetto che avvicini alla realtà quel “partito che non c’è” che serve al paese.

E’ bene aver chiaro e non far finta di niente o esserne irresponsabilmente inconsapevoli, che se non si produce una svolta, se non si trova un percorso di aggregazione, se non si costruisce un progetto di cooperativa con i necessari compromessi  e le mediazioni possibili, pur mantenendo la radicalità di fondo necessaria, l’insieme dei movimenti verrà fatto a pezzi, si disgregherà ulteriormente in mille rivoli e frammenti  irrilevanti; stritolato dalla crisi, dal riflusso, magari anche dalle fughe in avanti, già altre volte  vissute amaramente nella storia italiana del dopoguerra: dal ’68 al ’77, dai movimenti per la pace  e per l’ambiente degli anni '80-'90, dai noglobal  fino ai girotondi e a mani pulite del ventennio scorso. La vecchia Italia ha resistito, anzi è peggiorata, esprimendo arroganza e pretendendo il diritto all’impunità,  fino all’idea di vendersi al miglior offerente.

La prima questione è che se andrà in porto  il percorso di riforma elettorale che stanno mettondo a punto  i tre partiti alleati a sostegno di Monti (  e le forze che li governano o li influenzano ), esiste la possibilità che non solo il movimento di Grillo ( che è il primo obiettivo), ma tutte le forze che non collaborano  o non si adeguano al “progetto Monti”, verranno tenute fuori o ridotte all’irrilevanza nel nuovo Parlamento. “Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori” abbiamo scritto; è  il nuovo paradigma della sovranità perduta e ceduta, al di sopra della favola del centro-destra e centro-sinistra , buona per i talk-show. 

Il  tema della riforma elettorale  non affascina, non è compreso, viene rimosso dalla gran parte dei movimenti. Ne è un segno la proposta-truffa  antiporcellum dell’agosto scorso, sostenuta all’inizio dagli stessi, ad esempio  Di Pietro e Vendola che con sei mesi di ritardo hanno compreso, almeno sembra, di aver svolto il ruolo di affrettati sprovveduti  e protestano per il tentativo di golpe in corso sulle regole. La riproposizione del maggioritario, magari nella nuova versione dei collegi, del quorum alto e del premio per uno o per due,  la cancellazione di qualunque forma di rappresentanza proporzionale, di scelta degli eletti, di limiti di mandato e di incompatibilità, non  è una questione fra le altre ne è pensabile che qualunque  “nuovo soggetto” possa evitare di metterla al centro di una proposta che la contrasti: perché riguarda il problema della democrazia rappresentativa  sostanziale che è il presupposto indispensabile di quelle forme di democrazia diretta e dal basso che ne sono l’altra faccia. A meno che si dia per scontato il ruolo di gregari.

La seconda questione è quella che riguarda la giustizia sociale; qualcuno, con un eccesso di semplificazione la chiama la questione del diritto al lavoro. Ma è ben di più: è intollerabile, ed incompatibile con un percorso di cambiamento, che il sistema economico, finanziario, industriale, della ricerca, nel privato ma anche nel pubblico, sia dominato da un gruppo di rapinatori che da decenni svuotano come sanghisughe le risorse dello stato, ne corrompano le scelte per progetti e grandi opere inutili, non essenziali  o  di costo esorbitante. Che si arricchiscano in Italia e reinvestano in altri paesi dove diritti, ambiente, tutele, sono ridotti ai minimi termini o inesistenti;  che considerino precarietà e licenziamenti  come base di un sistema industriale fasullo; che esortino alla flessibilità, ai sacrifici, alla cancellazione dei diritti, nel mentre si attribuiscono bonus economici e praticano metodi corruttivi che non  hanno eguali in nessun paese dell’occidente.  Mentre la parte di imprenditoria  più virtuosa, più innovativa, quella che paga le tasse, non collude con le mafie, non considera i lavoratori una variabile insignificante, è costretta  a smobilitare oppure, se ce la fanno, a portare all’estero le proprie capacità di innovazione.   

Ma il nodo di qualunque aggregazione, di un nuovo soggetto politico, dell’apertura di un percorso di transizione ad una società nuova, sta nella messa a fuoco della direzione  di un progetto di  cambiamento: economico, sociale, culturale.
La fine della illusione della crescita infinita, il precipitare dell’ equilibrio ambientale, l’entrata  in campo  dei paesi dell’altra parte del mondo, l’esaurimento delle risorse energetiche, la voracità della finanza internazionale  senza patria  che mangia nazioni, settori economici e lavoro per garantire la propria sopravvivenza, impongono un cambiamento radicale. Servono riforme, ma sono riforme rivoluzionarie.

La Conversione ecologica è un modello di riferimento su cui ragionare perché diventi un progetto unificante, convincente per la gran parte delle persone, adeguato a fermare la crisi ambientale;  utile per produrre ciò che serve ed è indispensabile  a invertire la crisi economica e finanziaria, a produrre nuovo e diverso lavoro, nuovi prodotti e diversa qualità della vita,  a garantire un futuro alle nuove generazioni, risolvere la crisi energetica uscendo dalla preistoria del petrolio e del nucleare verso le rinnovabili. Coniugare rispetto del territorio,  lavoro, benessere,  etica, utilità sociale; un progetto  esportabile in tutte le diverse aree del pianeta.  

Perché il cambiamento diventi un progetto unificante per gran parte delle persone servono nuovi  principi relativi alle abilità umane che dovranno regolare il progetto, oggi  quasi interamente scomparse dai rapporti tra le persone ma che risultano indispensabili affinchè le nuove regole diventino realtà e non rimangano un sogno. Gli scambi intessuti tra le persone debbono transitare da una competizione spietata in cui il più forte sottrae le risorse vitali al più debole, ad un nobile e generoso scambio reciproco finalizzato alla difesa  del bene comune. Si tratta di creare una vera rete di relazioni in cui il dare e il ricevere, la comunicazione, i principi della relazione, della comunicazione, dell’educazione, del rispetto per tutti gli esseri viventi siano humus e base della nuova realtà.  

Non si tratta di una nuova ideologia, da aggiungere a quella del liberismo e del capitalismo, ne a quella della lotta di classe e dell’economia di stato della sinistra del secolo scorso; ma pragmaticamente di afferrare l’unico salvagente che ci tolga dalle mani dei fautori dell’autodistruzione, dell’arroganza, della incompetenza vorace. C’è molto lavoro da fare e molto da inventare; e ci vuole il tempo che ci vuole; senza girare in tondo con vecchi paradigmi.

Costruire un progetto di transizione alla conversione ecologica, affiancato dalla riconquista della democrazia sostanziale e della giustizia sociale ( che non sono la storia di cento anni della sinistra del ‘900 ma da mille anni le basi del diritto naturale dei popoli) è un po’ più complicato che scrivere un programma di copia incolla in dieci punti, o decidere un nome o nominare nuovi leader,  che non ci sono e se proprio servono  verranno dopo. Serve unificare un passo per volta la gran parte del paese, comune per comune, settore per settore , fino ai nodi centrali dello stato e della convivenza sociale,  magari  insieme ad altri in Europa, per incamminarci fuori dal vicolo cieco in cui ci hanno trascinati.     

* Gruppo delle Cinque Terre                 www.gruppocinqueterre.it

2 commenti:

  1. Anonimo16:05

    questo percorso, così ben delineato, bisognerebbe almeno provare a farlo. noi nel nostro piccolo lo stiamo facendo e la galassia civica ed ecologista si è arricchita di nuove adesioni.
    per questo ci incontreremo il 27 Maggio a Roma.
    per saperne di più:
    www.perunalistacivicanazionale.it

    Italo Campagnoli
    Movimenti Civici

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  2. Condivisibile l'appello al cambiamento, ma temo che la proposta possa essere valida solo in un paese democratico, in cui effettivamente la sovranità del popolo si concretizzi nel voto e nelle attività istituzionali.
    Oggi, specie in Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Francia, ... il vero cambiamento è quello di affrancarsi dallo Stato, che tanto non riesce più ad offrire quasi nulla, e di ricostruire la democrazia dalle relazioni comunitarie e di mutuo aiuto.
    Dal vicolo cieco si esce solo abbandonando i "dogmi" dell'attuale sistema, facendo come l'Islanda e l'Argentina, dove le organizzazioni dal basso non hanno chiesto di entrare nella stanza dei bottoni, ma hanno incominciato ad agire nonostante ci fossero ancora delle mummie attaccate a quei bottoni.

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