19 dicembre 2023

Serbia: Vucic alla prova dell’opposizione unita

 Elezioni in Serbia. Oggi ( domenica 17 dicembre ) il quarto voto anticipato per le politiche. Si rinnovano il parlamento, 53 municipalità e 12 comuni, Belgrado compresa. Pesano, nell’eco della guerra ucraina, l’adesione all’Ue e il ricatto sul Kosovo «da riconoscere». Ma i nodi sono interni: corruzione, media sotto tiro, nuovo movimento contro la violenza

di Gennaro Serio *

Persino i lampioni opachi e le strade del centro, solcate da esili corsi d’acqua e ingombre solo del rumore della pioggia autunnale, e i fari che illuminano l’asfalto lucido, sembrano stanchi di questa ennesima chiamata: non si direbbe, ma Belgrado, e la Serbia tutta, si preparano a nuove, ennesime elezioni politiche, le quarte in pochi anni. E dire che stavolta c’è una novità rilevante: un grande cartello elettorale delle opposizioni, moderate, liberali, o di sinistra, che sfida il decennale potere del partito del presidente della Repubblica, Aleksandar Vucic, mentre le opposizioni della destra più nazionalista vanno in ordine sparso; e, accanto, un movimento d’opinione, chiamato «ProGlas», che fa una campagna civica e culturale invitando i cittadini a recarsi alle urne (alle ultime elezioni, l’anno scorso, l’affluenza è stata al 58%). In una delle nazioni al mondo che si spopolano a ritmo più elevato, impoverita dalla corruzione dilagante e depressa ulteriormente dalla corsa inarrestabile dell’inflazione, non è poco.

AD ACCENDERE I RIFLETTORI ci ha pensato curiosamente un presidente straniero, quello ucraino, qui non molto amato: trovando uno spazio nella sua fitta agenda, qualche settimana fa Volodymyr Zelensky ha infatti dichiarato di essere in possesso di informazioni sensibili che indicano nei Balcani il prossimo probabile focolaio di conflitti in Europa, e, dal suo punto di vista, il prossimo impedimento a concentrare tutta l’attenzione e le risorse (dell’Occidente) nel finanziamento della guerra in Ucraina. Questa curiosa dichiarazione si accoda all’antico adagio – e profezia che si autoavvera ciclicamente – dei «Balcani polveriera d’Europa»: da sempre evocato come una entità astratta e generica, quando usato per esprimere preoccupazione questo sostantivo geografico («Balcani») vuole designare in realtà il fastidioso paese cui i media d’Occidente non hanno voglia di riconoscere, di solito, nemmeno il nome: la Serbia. Al più, si dice e si scrive «I serbi», come un epiteto razzista e dispregiativo, ciò che fu in Europa appannaggio esclusivo, per qualche decennio, dei «Tedeschi», a partire dagli anni trenta del Novecento.

È DA QUESTO PAESE che ci si attende guai, e il presidente Vucic, forse condividendo i sospetti di Zelensky e dei suoi informatori, ha dichiarato più volte nei mesi scorsi che una nuova guerra con il Kosovo non è una possibilità presa in considerazione da Belgrado. Forse Vucic presagisce che l’Ucraina vorrebbe mettere la freccia a scapito dei candidati balcanici per l’ingresso in Europa, traguardo vagheggiato un po’ da tutti in Serbia – dal governo alle opposizioni – ma soggetto al (ricattatorio) riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo: una promessa sub condicione ribadita anche da Giorgia Meloni nella sua recente visita a Belgrado.

SÌ, CON IL KOSOVO ci sono state nuove tensioni: sia per quanto riguarda le relazioni diplomatiche generali, con un paese di cui Belgrado non riconosce l’indipendenza autoproclamata unilateralmente quindici anni fa, sia per la situazione dei 100mila serbi che vivono in Kosovo e che hanno subìto le conseguenze della gestione maldestra di alcune questioni specifiche nonché episodi di vera e propria discriminazione da parte del governo di Albin Kurti. Vucic vuole probabilmente far scivolare la questione kosovara in fondo alla pila dei dossier sulla sua scrivania, e le elezioni lo aiuteranno anche in questo. Tuttavia, si direbbe che indire la tornata del 17 dicembre sia la risposta del presidente serbo alle vicende politiche interne. Il suo sistema di potere, basato su una ampia rete clientelare e il controllo spregiudicato dei mezzi di informazione, corroborato anche da casi di minacce esplicite agli oppositori – come nel caso di Djordje Miketic, cui sono stati inviati video intimi di se stesso, precedentemente rubati dal suo computer, fatto preannunciato cripticamente da Vucic a mezzo stampa -, si è visto per la prima volta messo in discussione da una ampia partecipazione civile, non solo belgradese.

A PARTIRE DA manifestazioni di piazza suscitate dalla recrudescenza di atti di violenza armata nel paese, culminati a maggio nella sparatoria in una scuola di Belgrado nella quale hanno perso la vita nove persone, si è formato infatti quello che è diventato prima un movimento civico e d’opinione, e adesso, sotto l’insegna «Serbia contro la violenza», un cartello elettorale molto eterogeneo. Accreditato nei sondaggi di oltre il 20% dei voti, «Serbia contro la violenza» (Srbija Protiv Nasilja, SPN) contiene tra gli altri il Partito Democratico (DS), il Movimento popolare serbo (NPS) e l’agguerrito Fronte dei Verdi di sinistra (ZLF, vedi l’intervista sotto), oltre al movimento personalistico di Zdravko Ponos che era arrivato secondo alle elezioni per il seggio di Presidente della Repubblica. Il programma di SPN è vago, tenuto insieme da slogan generici, e difficilmente riuscirà a prevalere sulla macchina ben oliata di Vucic, il quale è intervenuto nella campagna elettorale e l’ha personalizzata, anche se il suo scranno non è in gioco (le presidenziali sono distinte dalle politiche, nelle quali si eleggono i 250 componenti dell’assemblea parlamentare che poi daranno mandato alla formazione di un governo), infrangendo la «costituzione materiale» e le regole istituzionali serbe, e proponendosi, ormai da anni, come il «presidente assoluto», che scavalca abitualmente la debole premier, Ana Brnabic (sua fedelissima).

SI VOTA ANCHE per il sindaco, in diverse città, compresa Belgrado: qui il presidente è meno popolare che altrove, e il candidato delle opposizioni non nasconde ambizioni di vittoria. Dal 2012, soltanto una volta i parlamentari hanno esercitato il loro mandato fino a conclusione della legislatura. A furia di promettere a studenti e pensionati mance che si contano nell’equivalente di centinaia o anche decine di euro, è probabile che Vucic con il suo Partito progressista serbo – che di progressista non ha niente – vincerà anche stavolta (nei sondaggi è al 44%), e la sua flotta corazzata potrà così tornare a muoversi tranquilla tra le anse del Danubio e della Sava. Alcuni anni fa, proprio sul lungofiume che dal centro di Belgrado porta verso i caliginosi sobborghi di Zemun si vide passare un inusitato, enorme papero giallo. Era una delle prime iniziative degli attivisti che poi avrebbero fondato ZLF. Chissà che quello scherzo non si riveli più persistente del previsto: una macchia di colore che risale lentamente il tappeto fangoso del Danubio.

nella foto. Le strade di Belgrado. Non sono le presidenziali ma Vucic, «presidente assoluto», ha voluto personalizzare la campagna elettorale - Getty Images

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Lazovic: «Qui non solo è inquinata l’aria ma le istituzioni che ci governano»

Serbia. Intervista al co-presidente del Fronte dei verdi di sinistra (Zlf): «L’obiettivo è sconfiggere il sistema clientelare di potere e combattere le disuguaglianze esplose in aree urbane come Belgrado dove la nostra coalizione è radicata»

di Elena Kaniadakis *

«La Serbia è un Paese inquinato: inquinate sono l’aria che respiriamo, e le istituzioni che ci governano». Radomir Lazovic è capolista per «Serbia contro la violenza», e co-presidente del Fronte dei Verdi di sinistra (ZLF), la terza forza politica della coalizione.

Mentre parla giocherella con una papera di gomma sulla scrivania del suo ufficio, simbolo del movimento «Non lasciamo che Belgrado affoghi», da cui è nato il suo partito. Il movimento era stato formato nel 2014 da un gruppo di cittadini uniti dalla protesta contro la speculazione urbanistica che stava convertendo il lungofiume della capitale in un’area residenziale di lusso, pullulante di grattacieli e centri commerciali.

Ogni anno in Serbia più di 10mila persone muoiono per l’inquinamento, causato, tra gli altri fattori, dalla produzione delle centrali a carbone.

Per noi lotta ambientale e lotta alla corruzione sono inscindibili. L’inquinamento è la conseguenza della mancanza di una visione politica che rimetta al centro gli interessi dei cittadini. La Serbia è un regime ibrido: sulla carta è una democrazia, ma le istituzioni, come le autorità di controllo e la magistratura, subiscono forti ingerenze da parte del partito al governo e dei suoi alleati. Per non parlare della criminalità organizzata: quattro anni fa è stata scoperta fuori da Belgrado la più grande piantagione illegale di marijuana d’Europa; il processo da allora è fermo, mentre gli investigatori sono stati intimiditi o rimossi dai loro incarichi.

Il grande obiettivo di «Serbia contro la violenza» è scalfire l’egemonia decennale di Vucic. Troppo poco per rendere il vostro programma convincente?

La coalizione comprende partiti molto diversi tra loro, ma ci siamo uniti dopo le proteste degli ultimi mesi: non succedeva da dieci anni che così tante persone manifestassero nelle strade. Finora abbiamo dimostrato di poter collaborare, anche se proveniamo da storie politiche diverse.

Uno dei minimi comuni denominatori della coalizione è quello di raggruppare partiti filo-europei. Ma il dibattito sull’adesione all’Ue si è spento da tempo in Serbia.

Il Fronte dei Verdi di sinistra è a favore dell’entrata nella casa europea, ma non pensiamo che Bruxelles debba risolvere i nostri problemi. L’obiettivo è sconfiggere il sistema clientelare di Vucic, e combattere le disuguaglianze che in posti come Belgrado stanno esplodendo: l’inflazione ha toccato il 15% ma molti cittadini non guadagnano più di 500 euro al mese, e sono vittima della crisi abitativa. I prezzi degli affitti sono schizzati alle stelle con l’arrivo di 100mila russi dallo scoppio della guerra in Ucraina. Non è un caso che la nostra coalizione sia radicata soprattutto nella capitale: qui abbiamo buone chance di vincere.

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Vladimir Arsenijevic, scrittore per una Serbia oltre la nazione

Intervista. Il romanziere e attivista racconta il suo lavoro, fortemente intrecciato agli eventi sociali e politici del XX e XXI secolo in Jugoslavia e a Belgrado

 di Franco Ungaro *

Nella biografia pubblicata sul sito personale, Vladimir Arsenijevic scrive che è nato a Pola, nella Repubblica Socialista di Croazia, nella Repubblica Socialista Federale della Jugoslavia. Una sottolineatura che lo pone distante se non avverso alla svolta nazionalistica della Serbia attuale. Scrittore, editore, columnist, attivista culturale ha pubblicato di recente Cloaca Maxima, una tetralogia che comprende Sottocoperta (con Predator gli unici due romanzi tradotti in italiano), Andela, Verso il confine, Spiriti.

Musicista punk, dopo una parentesi a Londra, nel 1989 tornò a Belgrado, dove visse l’esperienza della guerra. Nel 2009 ha fondato l’Associazione K.R.O.K.O.D.I.L che sta per ‘Incontro regionale letterario che allevia la noia e la letargia’, con cui organizza l’omonimo Festival che accoglie scrittori e intellettuali per discutere i temi più rilevanti della società contemporanea. Sono stati ospiti delle 14 edizioni precedenti autori come Irvine Welsh, Hanif Kureishi, Margaret Atwood, Georgi Gospodinov, Aleksandar Hemon, Mira Furlan, Boris Buden, Ivan Krasten.

Da musicista punk a scrittore militante… la tua vita, non solo letteraria, è sempre fortemente intrecciata agli eventi sociali e politici del XX e XXI secolo. Partiamo dalla tua ultima fatica letteraria, «Cloaca Maxima», finalmente pubblicata…
Ho iniziato a scriverlo trent’anni fa, primavera del 1991, quando l’esercito jugoslavo si mosse in Slovenia per rioccupare i luoghi di frontiera e scontrarsi con le guardie territoriali slovene che non avevano un esercito, perché fino ad allora non avevamo mai considerato la Slovenia uno stato straniero. Sono cominciate così le guerre balcaniche. Tutti eravamo assolutamente scioccati. Vedere questo scenario molto famigliare delle montagne slovene e tutto ciò che riconoscevamo come la nostra casa, e poi vedere le persone ammazzate sulla strada, è stato assolutamente scioccante. Non riuscivo proprio ad accettarlo, non aveva senso per me. Fra di noi parlavamo di crisi, non di guerra, dicevamo «sì, in qualche modo si risolverà, nel 1989 è caduto il muro di Berlino, c’è stato Gorbaciov, l’unificazione dell’Europa… Noi possiamo essere così stupidi?». Semplicemente non ci sembrava logico. E poi tutto è precipitato, con gli scontri fra i croati e i reparti dell’allora esercito federale jugoslavo, le distruzioni a Vukovar e poi a Dubrovnik furono assolutamente incredibili. Ero semplicemente scioccato.

Hai cominciato a scrivere Sottocoperta con il rumore delle armi…
All’inizio del 1992, Radio B92 così importante per la cultura giovanile era contro la guerra, invitava le persone a scrivere storie di guerra. Io ero davvero molto motivato da tutto ciò. È così che nacque la prima stesura di Cloaca Maxima, coincideva con la prima stesura di Sottocoperta, il mio primo romanzo, e gliel’ho mandata. Nel frattempo cominciava la guerra anche in Bosnia all’inizio di aprile. È impossibile che accada, mi dicevo, non era immaginabile che qualcuno osasse toccarla perché era così fragile. Ovviamente mi sbagliavo ancora. E così la guerra ricominciò…. Sottocoperta non venne inserita nell’antologia di B92, tutte le altre storie avevano davvero a che fare con situazioni di guerra reali. E io invece non avevo scritto come se fossi in trincea e sparassi al nemico.

È la tua biografia?
Avevo scritto di una giovane coppia che vive una vita apparentemente normale, col peso dei propri demoni e dell’eroina e altre bruttezze della vita a Belgrado, del desiderio di avere un bambino mentre la guerra continua e tutto viene distrutto e non riescono più a riprendersi la vita. E in quel processo di creazione, ho iniziato a pensare a cosa sarebbe successo dopo, perché non mi sembrava giusto che ci fosse quel lieto fine della nascita con la tragedia in corso. No, non andrà tutto bene. Lo sanno tutti. E così ho deciso di intitolare il romanzo Sottocoperta e di intitolare l’intero progetto dei quattro romanzi Cloaca Maxima. E ho aggiunto il sottotitolo soap opera perché oggi probabilmente l’avremmo chiamato reality show o qualcosa del genere. Scrivendo soap opera rappresentavo questa esagerata rappresentazione televisiva della realtà. E pensavo che ciò che stavamo vivendo in termini molto oscuri fosse in realtà qualcosa di simile a una telenovela.

È quindi un’opera cominciata con la guerra balcanica e finita con un’altra guerra, quella in Ucraina? Puoi dire qual è il sentimento comune dei serbi rispetto alla guerra in Ucraina?
Sì, stavo ancora finendo di scrivere Cloaca Maxima quando è scoppiata la guerra in Ucraina. Il sentimento dei serbi è molto pro Russia. All’inizio i pro erano quasi il 90% e ora meno del 70%, comunque due terzi della società. Quando è iniziata la guerra in Ucraina i titoli in prima pagina erano scioccanti, «L’Ucraina ha attaccato la Russia», hanno scritto che il 24 febbraio l’Ucraina è andata oltre il suo confine e ha attaccato la Russia, presentando Putin come un eroe. La narrazione è tutta così: i paesi occidentali ci hanno bombardato negli anni Novanta, la Russia non ci ha mai bombardato. Tutto viene semplificato ed è ridicolo.

In Serbia, sono arrivati circa 200.000 cittadini russi, e poi abbiamo una diaspora ucraina abbastanza consistente di circa 20.000 persone. Dieci russi per un ucraino. Senti parlare russo ovunque. Provengono da Mosca, da San Pietroburgo e altre grandi città. E si tratta per lo più di persone istruite, persone che lavorano nel settore informatico o persone in affari, ma anche un gran numero di persone Lgbt, attivisti anti-Putin e pacifisti in pericolo nel regime di Putin. Hanno organizzato manifestazioni contro la guerra, proteste davanti all’ambasciata russa. Siamo rimasti molto colpiti dal coraggio civico perché la maggior parte di queste persone sono obbligate a tornare in Russia dopo 30 giorni per rinnovare il visto turistico, ma non vogliono rimanere in Russia e neppure farsi arrestare. Se non ci fossero stati i russi queste manifestazioni contro la guerra a Belgrado non sarebbero mai avvenute.

Con la tua associazione Krokodil siete impegnati in azioni di sostegno umanitario ma anche per rafforzare il dialogo e la collaborazione con gli scrittori ucraini.
Abbiamo legato molto con la diaspora ucraina in Serbia. Non solo abbiamo raccolto aiuti umanitari, ma abbiamo accolto in residenza gli scrittori ucraini con il programma Writers in Exile. L’anno scorso abbiamo avuto 11 persone con le loro famiglie provenienti direttamente dalle zone di guerra. Abbiamo allestito una biblioteca ucraina nel KOKODRIL, acquistato 500 titoli di letteratura ucraina contemporanea, libri per bambini, abbiamo tradotto testi, organizzato prestito di libri, laboratori per bambini, lezioni di lingua serba. Eppure quando abbiamo iniziato a raccogliere aiuti umanitari per la prima volta, nel marzo 2021 il numero delle persone che hanno deciso di aiutare è stato solo di sei. Quattro erano serbi che vivevano all’estero e solo due provenivano dalla Serbia. Quando Andrej Ljubka, lo scrittore ucraino mi ha chiesto quanti soldi avevo raccolto dalla gente in Serbia, ho dovuto dirglielo, 150 euro. Mi sono vergognato. Raccoglievamo soldi per l’ospedale di Kharkiv, l’ospedale per i bambini nati prematuri. La gente non sapeva come reagire a quella cosa. L’estate scorsa, invece, molte più persone si sono unite e hanno portato tutto ciò che potevano, pannolini, cibo, vestiti caldi e qualsiasi cosa destinata a un centro sociale che si trova nell’estremo oriente dell’Ucraina, popolazione rurale che aveva bisogno di aspirina e pannolini per gli anziani. Facciamo tutto questo perché vogliamo davvero aiutare, ma lo facciamo anche perché vogliamo contrastare le narrazioni revisionistiche e nazionalistiche della Serbia.

nella foto: dalla pagina facebook di ZLF ( Fronte dei verdi di sinistra )

* da il manifesto 15 dicembre 2023

 

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