Preso in mezzo tra le feste
nazionali di Stati uniti e Francia, questo 7 luglio condizionerà il destino
delle democrazie occidentali. Sulla soglia del governo di Parigi c’è un partito
di originaria ispirazione fascista – i successivi camuffamenti non hanno
toccato la fiamma, mutuata dall’Italia dove arde già a palazzo Chigi. Negli Usa
l’aspirante dittatore, parole sue, avrà la sua chance tra
quattro mesi e i “democratici” stanno facendo di tutto per dargli una mano (più
o meno come hanno fatto Macron in Francia e il centrosinistra qui da noi).
Il suffragio universale, per
il lungo dopoguerra considerato come sostanziale sinonimo della democrazia e
come tale ancora spacciato dagli eredi degli sconfitti – «potere al popolo, non
ai giochi di palazzo», ripete Meloni che sogna l’investitura diretta – apre le
porte al suo svuotamento. Ne ha parlato qualche giorno fa il presidente
Mattarella in un discorso importante, preoccupato e consapevole del passaggio
storico. La democrazia, ha detto, è la realizzazione concreta dei diritti nella
vita delle persone. «Non si esaurisce nelle sue norme di funzionamento» e non
si «consuma» esprimendo il voto nelle urne «nelle occasioni elettorali». Come
vorrebbero al contrario tutti quelli che da anni hanno aperto la caccia alle
libertà di associazione e manifestazione, ai partiti e ai sindacati, alla
libertà di stampa. Pensatori “liberali” prima che governanti di destra. Ma il
presidente Mattarella ha detto anche di più. Ha aggiunto che a smentire la
coincidenza tra suffragio universale e democrazia piena concorrono anche
«marchingegni che alterano la rappresentatività e la volontà degli elettori».
Di questa alterazione
provocata dalle leggi elettorali si è lungamente giovata la quinta Repubblica
francese, tenendo fuori dal parlamento i neofascisti del Front national grazie
al doppio turno di collegio e al principio accettato da tutte le forze democratiche
del “barrage” repubblicano.
Ma il partito di Le Pen è
cresciuto come dimostra sui giornali francesi la mappa dei risultati del primo
turno dominata dal marrone: è arrivato primo nel 52% dei collegi con solo il
33% del voto popolare. C’è oggi il secondo turno, quello dove dovrebbe alzarsi
la barriera. Ma è indebolita dagli anni in cui Macron ha inseguito le politiche
della destra e dai giorni in cui è stato ambiguo su Le Pen e ha preferito
attaccare il Fronte popolare. Per cui sapremo solo stasera se nei testa a testa
decisivi avrà pesato più la disgraziata normalizzazione dei fascisti o il
sussulto unitario della sinistra e di molti candidati centristi più saggi, o
più preoccupati, di Macron.
Anche il Labour di Starmer
nel Regno unito ha raccolto, esattamente come il Rassemblement national in
Francia, il 33% del voto popolare. Il brutale sistema elettorale britannico gli
ha però consegnato immediatamente il 63% dei parlamentari, un premio di quasi
il cento percento. Di conseguenza gli altri partiti sono stati penalizzati in
seggi rispetto al consenso popolare, tutti ma soprattutto il partito di Farage
che con oltre il 14% dei voti ha conquistato lo 0,7% dei parlamentari. Un’alterazione,
si potrebbe pensare, in questo caso benvenuta ma soprattutto ben accetta dagli
elettori inglesi. Il maggioritario secco di collegio da quelle parti è infatti
un dogma intoccabile, i sudditi della corona continuando a vedere più il suo
unico pregio (il legame dell’eletto con il collegio, messo platealmente in
scena nella notte della proclamazione) che l’enorme difetto di ignorare il
consenso effettivo dei partiti e negare l’uguaglianza del voto.
Non è naturalmente solo
questione di tecnica elettorale: dietro tutti i sistemi elettorali maggioritari
(quelli britannico è il più puro) c’è l’idea che le istanze popolari non vanno
rappresentate ma semplificate. Tagliando fuori gli estremi almeno fino a
quando, la Francia e prima l’Italia insegnano, gli estremi non si presentano
con una veste meno spaventosa, seguendo i “moderati” che per tempo hanno
sdoganato le loro idee. Sempre più spesso, l’astensione assume così i tratti di
accettazione delle regole del gioco di una consapevole e rassegnata quasi
maggioranza di elettori destinati a non poter incidere, più che di minoritario
gesto di protesta. La percentuale di votanti nel Regno unito è stata molto
bassa: 60%. Appena più alta l’affluenza in Italia alle ultime politiche (63%),
quelle del 2022 quando a consegnare la vittoria in seggi alla coalizione
guidata da Meloni è stato anche da noi un grande premio di maggioranza.
Nel nostro caso, siamo
italiani, non dichiarato e ben nascosto nelle pieghe della legge elettorale ma
comunque capace di consegnare quasi il 60% dei deputati al centrodestra a
fronte di poco meno del 44% di voti popolari. Un più 16% grazie al quale, e solo
grazie al quale, Meloni non solo governa ma sta anche provando a cambiare
Costituzione e forma di governo. Anche qui sta qui l’attualità del monito del
presidente Mattarella. La nostra destra infatti non si accontenta dell’elezione
diretta, unico caso al mondo, del premier onnipotente. Vuole che sia eletto da
una minoranza di elettori (minoranza della minoranza al tempo delle alte
astensioni). Quello cioè che Meloni e compagnia stanno già provando a fare per
l’elezione del sindaco, incoronare il primo arrivato anche solo con il 40%
eliminando il fastidio dei ballottaggio (fastidio per loro, che in genere
perdono), immaginano di replicarlo per il capo del governo. Del resto è dai
comuni che è partita la moda verticista che poi si è imposta nel nostro paese. Stabilito
che sarà in Costituzione il diritto al premio e a una maggioranza garantita per
il primo classificato, diventerà assai facile con legge ordinaria disegnare il
vestito su misura delle ambizioni della futura candidata, notoriamente non
modeste. Un’altra legge elettorale, un altro «marchingegno», che da strumento
di attuazione della democrazia si trasforma nella sua antitesi.
* da il manifesto - 7 luglio
2024
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