L’industria della comunicazione, i media tradizionali,
stanno dimostrando in questi giorni di essere la principale forza
dell’instabilità e della violenza globali. Giornali e televisioni propinano
un’informazione intossicata, basata sulla costruzione di un Grande Nemico
pronto ad ogni nefandezza contro l’Occidente. Olocausto nucleare incluso. Non
credo che questo possa accadere, e le dichiarazioni delle potenziali vittime di
un attacco nucleare russo – con in testa il governo americano – tendono a
smontare l’isteria comunicativa che dilaga in Europa e in Ucraina. Ma i venditori
di paura non desistono. Sognano una guerra atomica che non ci sarà, e pur di
vendere copie e alzare gli ascolti vengono meno al loro dovere di informare sui
reali termini della questione. E mettono così in discussione uno dei pochi
lasciti positivi della Guerra fredda: il tabù atomico.
L’ industria della paura non presta particolare
attenzione alle armi nucleari, eccetto quando si svolgono test atomici che
vengono bene in televisione o quando c’è di mezzo qualche storia (quasi sempre
inventata o gonfiata a dismisura) di contrabbando o di terrorismo atomico. Il
largo pubblico resta perciò all’oscuro dei progressi che si sono effettuati in
questo campo, e non è in grado di apprezzare la portata di parole d’ordine come
quella dell’abolizione delle armi nucleari. Quanti sanno che, senza la coltre
di ignoranza e di paura creata dalla mistificazione mediatica, già da vari anni
ci troveremmo a essere privi del più grande pericolo per la sicurezza
dell’umanità? Pochissimi sono al corrente del fatto che le forze della pace
hanno sfiorato l’en plein – l’abolizione di tutti gli armamenti atomici – a
Reykjavík durante uno degli eventi più straordinari della seconda metà del
Novecento: il vertice dell’ottobre 1986 tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv
dedicato espressamente a questo tema.
Nel gennaio del 1986 Gorbačëv aveva scritto a Reagan
proponendo un calendario per l’eliminazione di tutte le armi nucleari entro la
fine del secolo. I consiglieri del presidente americano avevano prontamente
bocciato la proposta bollandola come un trucco propagandistico. Reagan aveva
però reagito diversamente e aveva addirittura rilanciato: «Perché aspettare
fino al 2000?». Fu la sua risposta a Gorbačëv. I due presidenti – davanti agli
occhi attoniti delle rispettive delegazioni – raggiunsero l’accordo
sull’eliminazione di tutti i missili balistici e gli arsenali nucleari entro
dieci anni. Entro il 1996 l’umanità sarebbe uscita dall’incubo iniziato a
Hiroshima quarantun anni prima. Reagan e Gorbačëv disprezzavano gli ordigni
atomici e non credevano nella dottrina dell’equilibrio del terrore. Sulla
questione delle armi nucleari, Reagan è stato il più radicale dei presidenti
americani, anche di quelli democratici venuti prima e dopo di lui. Ha sempre
creduto nella necessità di abolirle, non di ridurle o aumentarle per
salvaguardare la pace. Per lui rappresentavano il più grande pericolo per il
genere umano. Un male assoluto, come il comunismo sovietico, con il quale
occorreva comunque convivere e trattare. Reagan viene ricordato come un combattente
anticomunista, ma la sua carriera politica era iniziata nel 1945 con un
discorso sulla pericolosità delle armi nucleari, e con una militanza pacifista
nell’associazione mondiale federalista che si batteva per il governo
universale. Il capo del suo staff ha scritto nelle sue memorie che ogni azione
di Reagan in politica estera è stata compiuta con l’idea che un giorno ci si
sarebbe seduti intorno a un tavolo di negoziato con il leader dell’Unione
Sovietica e si sarebbero messe al bando le armi di distruzione di massa.[1]
L’accordo non fu firmato perché Gorbačëv subordinò la
sua firma alla rinuncia da parte di Reagan al progetto dello Scudo spaziale, ma
da allora in poi l’idea di un mondo senza armi nucleari è diventata una strada
politico-diplomatica di praticabilità immediata. Appena eletto, Obama ha posto
questo argomento come uno dei temi guida della sua presidenza, per poi
abbandonarlo e passare alla storia come un presidente ambiguo e irresoluto. La
liberazione dalla cappa di bugie in cui consiste l’inganno mediatico sul
nucleare comporta il rilancio dell’idea di un mondo privo di ordigni atomici.
La loro totale eliminazione è l’unica soluzione concreta al problema della
proliferazione e della guerra nucleare. Questa è la soluzione che sta alla base
– è bene ricordarlo – dello spirito e della lettera del Trattato di non
proliferazione del 1970 (TNP). A Reykjavík, Reagan e Gorbačëv si muovevano su
un terreno già arato. Il disarmo atomico totale era stato accettato dalla
comunità internazionale sedici anni prima. L’articolo 6 del TNP è molto
esplicito nel delineare anche il percorso da seguire per arrivare, «in modo inequivoco»,
al disarmo completo. Vale a dire alla fine dell’angoscia nucleare che
perseguita l’umanità dalla Seconda guerra mondiale in poi. Il TNP è un tipico
accordo multilaterale, un compromesso precario tra sovranità enormemente
disuguali: cinque stati nucleari contrapposti a una massa di paesi che
accettano di non dotarsi di ordigni atomici in cambio di tecnologia nucleare
pacifica e di un impegno verso il disarmo generale.
Il Trattato di non proliferazione ha costituito fino a
poco tempo fa uno dei successi più eclatanti del diritto internazionale. È
stato firmato da 187 paesi, diventando l’accordo internazionale più condiviso
dopo la Carta delle Nazioni unite. Le potenze non nucleari lo hanno
diligentemente rispettato. È grazie a esso che i paesi dotati di armi atomiche
sono rimasti cinque (Cina, Russia, Stati Uniti, Francia e Regno Unito), più tre
altri paesi che si sono rifiutati di firmare il TNP (India, Israele e Pakistan)
e uno, la Corea del Nord, che ne è uscito nel 2003. Dozzine di altri stati potrebbero
oggi possedere armi atomiche se non ci fossero all’opera gli impegni del TNP. Nel
corso del tempo, il TNP ha spinto varie nazioni ad abbandonare le ambizioni di
armamento nucleare. Parlo dell’Argentina, del Brasile, della Turchia, della
Corea del Sud, di Taiwan, della Svezia, della Romania, della Iugoslavia e della
Libia. Mentre altri quattro paesi che già possedevano gli ordigni atomici se ne
sono sbarazzati. Parlo del Sudafrica, della Bielorussia, del Kazakistan e
dell’Ucraina. Il TNP rende inoltre molto più difficile per i paesi non nucleari
l’acquisizione delle tecnologie e dei materiali necessari per costruire ordigni
atomici. E, anche nel caso in cui questi paesi decidano di farlo, il sistema
dei controlli in vigore dopo il 1970 impedisce che ciò avvenga in modo
clandestino. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) di Vienna è
il perno di un insieme di garanzie e di ispezioni che rendono molto ardua la
diversione di tecnologia nucleare e di materiali a scopo bellico.
Ricordo un colloquio con il mio collega Hans Blix,
direttore generale dell’AIEA, qualche anno prima della seconda invasione Usa
dell’Iraq: «Disponiamo ormai di tecnologie che ci permettono di scoprire se un
paese sta costruendo impianti nucleari segreti. Le analisi delle acque,
per esempio, sono ormai l’equivalente delle analisi delle urine per gli umani.
Saddam sta solo mettendo in piedi un bluff, facendo credere di avere armi che
non ha». È la disinformazione dominante che ha diffuso per lungo tempo l’errata
credenza di un Iran dotato di tecnologie nucleari belliche quasi pronte per
essere usate. L’AIEA, corroborata dalle valutazioni dei principali servizi di
sicurezza nazionali – Stati Uniti inclusi –, ha costantemente sostenuto il
contrario. Uno dei suoi più prestigiosi direttori, Mohamed ElBaradei, non ha
avuto remore nel dichiarare che gli esperimenti di arricchimento dell’uranio
compiuti dall’Iran durante il suo mandato non costituivano una minaccia
immediata alla sicurezza globale. L’esistenza del Trattato, e il sostegno a
esso fornito dalla società civile mondiale, ha spinto la Russia e gli Stati
Uniti verso la strada dei negoziati per la riduzione degli armamenti nucleari
strategici e l’approvazione della convenzione che proibisce gli esperimenti
atomici, firmata nel 1996. Il TNP, infine, ha spinto le potenze nucleari
a rilasciare le cosiddette negative security assurances – vale
a dire gli impegni a non usare ordigni nucleari contro i paesi non
nuclearizzati che fanno parte del TNP–, riducendo così l’incentivo a procurarsi
le bombe atomiche per ragioni di prestigio e di autodifesa.
Uno dei maggiori successi del Trattato di non
proliferazione, però, è assai poco noto perché vittima dell’ignoranza prodotta
dai padroni dell’informazione. Mi riferisco alla non proliferazione su base
regionale. Pochi sanno che aree molto vaste del pianeta hanno negoziato accordi
regionali di proibizione delle armi di distruzione di massa e dei missili di
lunga gittata. Si tratta delle nuclear-weapons-free zones, le
zone libere da armi nucleari, che comprendono ormai l’intero emisfero australe
più ampie aree di quello boreale. Quasi tre miliardi di persone in centoventi
paesi vivono entro un sistema di garanzie che riduce la possibilità di una
corsa agli armamenti atomici e rafforza notevolmente il tabù nucleare. Il
Trattato di Tlatelolco riguarda i Caraibi e l’intera America latina. Il
Trattato di Rarotonga (firmato da quasi tutti i paesi del Pacifico meridionale,
Australia e Nuova Zelanda incluse) interessa l’Oceania e il Trattato di Bangkok
l’Asia meridionale. Mentre il passo indietro del Sudafrica post-apartheid
rispetto al nucleare ha consentito di concludere, nel 1996, il Trattato di
Pelindaba, che riguarda tutto il continente africano. Anche le cinque
repubbliche dell’Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan,
Turkmenistan e Uzbekistan) hanno firmato nel 2009 un accordo che dà vita a
un’area centroasiatica libera da armi atomiche. Il loro trattato contiene un
impegno cogente verso il disarmo nucleare da parte di paesi che prima
ospitavano ordigni nucleari sul loro territorio e che hanno vicini dotati di
armi atomiche. Le cinque repubbliche centroasiatiche sono circondate dalle
atomiche indiane, russe, cinesi, israeliane e pakistane, e ospitano basi
militari russe e americane. Il loro accordo è un esempio potente di non
proliferazione, e un antidoto alle tendenze più recenti della regione. Queste
convenzioni regionali stanno ridando forza all’idea di sgomberare i Balcani e
l’intera Europa dall’incubo nucleare, approfondendo il parallelo trend di
declino delle spese militari convenzionali. Alle zone fin qui citate occorre
aggiungere l’Antartide (demilitarizzata dal trattato del 1959), il fondo degli
oceani – liberato dal rischio di diventare deposito di armi nucleari dal
trattato del 1971 –, lo spazio extra-atmosferico e il territorio della Luna. È
importante ricordare questi fatti oggi, quando gli agenti del grande inganno ci
costringono a parlare di nuovo di armi atomiche, di obsolescenza degli accordi
sul disarmo, di bombe parcheggiate nello spazio e di atomiche tattiche. È per
queste ragioni che è importante tentare di costruire un mondo nel quale le
minacce alla sicurezza umana continuino a decrescere. Un mondo nel quale non ci
siano più ordigni atomici, e nel quale cessi il paradosso di una convenzione
sulle armi chimiche e batteriologiche che le mette al bando in modo totale e un
trattato sulle armi atomiche che non arriva alla loro integrale proibizione. Purtroppo,
è questo il punto più debole del Trattato di non proliferazione: è stato
rispettato dai paesi non nuclearizzati che lo hanno sottoscritto, ma non da
quelli del club atomico. Gli stati nuclearizzati non hanno dato seguito
all’articolo 6 e non hanno proceduto con il proprio disarmo. Le grandi potenze
sono perciò poco credibili quando minacciano sanzioni contro i paesi che
iniziano esperimenti poco chiari di arricchimento dell’uranio. I primi
violatori del TNP sono proprio esse stesse. Ne discende che la sua forza deve
essere attribuita ai fattori extrapolitici di crescita della pace e della
solidarietà internazionale più che alla volontà delle potenze
atomiche. Le quali coincidono, guarda caso, con i membri permanenti del
Consiglio di sicurezza ONU. Il cosiddetto «tabù nucleare», quindi, non è solo
il prodotto della paura dell’annientamento atomico, ma l’espressione di una
volontà positiva. E proprio nel momento in cui la mancata attuazione del TNP
iniziava a essere accettata come un dato di fatto, è avvenuta una svolta
radicale e di segno opposto, che i promotori dell’oscurità stanno tenendo
nascosta il più possibile. Le forze del progresso umano hanno messo a segno un
colpo importantissimo: nel luglio del 2017 122 paesi membri dell’ONU hanno
approvato il testo di un nuovo trattato, che non è solo «di non proliferazione»
ma di abolizione delle armi nucleari, rendendole finalmente
illegali. L’iter che ha portato a questo risultato è iniziato nel 2010, ma le
forze della disinformazione ne hanno taciuto l’esistenza fino all’ottobre del
2017, quando l’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (ICAN),
l’associazione che lo ha promosso, ha vinto il premio Nobel per la pace. Le
potenze nucleari non hanno approvato il nuovo accordo, entrato comunque in
vigore nel 2020 e ratificato ad oggi da 68 nazioni, tra cui quasi tutti i paesi
dell’Africa e dell’America Latina, con la vistosa assenza dell’ Unione Europea:
solo due dei 26 paesi EU, l’ Austria e Malta, lo hanno finora
adottato. Ma erano davvero in pochi a pensare che si sarebbe arrivati
così presto. Fino al punto che i due terzi degli stati del pianeta esprimessero
formalmente, e in aperto contrasto con i poteri mondiali costituiti, la volontà
di mettere fuorilegge gli strumenti della distruzione totale.
[1]
Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Paul Lettow, Ronald Reagan and His
Quest to Abolish Nuclear Weapons, Random House, New York 2005; Jack F. Matlock
Jr., Reagan and Gorbachev: How the Cold War Ended, Random House, New York 2005.
* da lafionda.org – 15 novembre 2022
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