Arrivano
all’improvviso a bordo di motociclette. Armati di spranghe, coltelli, bastoni, pietre,
catene assaltano i presidi dei manifestanti anti-governativi. La guerra del
Partito di Dio alla “rivoluzione laica” che da oltre quaranta giorni sta
scuotendo il paese dei cedri.
Arrivano
all’improvviso a bordo di motociclette (come i Baji iraniani) sventolando le
bandiere di Hezbollah e inneggiando al Partito di Dio sciita e al suo leader
Hassan Nasrallah. Armati di spranghe, coltelli, bastoni, pietre, catene
assaltano i presidi dei manifestanti anti-governativi. Hezbollah dichiara
guerra alla “rivoluzione laica” che da oltre quaranta giorni sta scuotendo il
Libano. Attaccano a Beirut, a Tiro, incendiano le tende dei manifestanti. Al
grido di “sciiti, sciiti” e di “Hezbollah, Hezbollah” in perfetto stile Baji le
motociclette passano in mezzo ai manifestanti falcidiandone diversi.
I giovani
libanesi rispondono urlando “Hezbollah terrorista” e tirando sassi contro i
miliziani. E la situazione rischia di precipitare in una nuova, devastante,
guerra civile. Raffiche di fucili automatici sono state sparate lunedì
sera a Beirut da non meglio precisati uomini armati nel quadro di
crescenti tensioni politiche e confessionali nella capitale libanese. Colpi di
arma da fuoco sono stati uditi ripetutamente nei pressi dell’incrocio stradale
di Cola, poco lontano dal centro della città. L’esercito libanese si era
dispiegato ieri sera in forze nei pressi delle strade che dividono i quartieri
controllati dai partiti sciiti Hezbollah e Amal dai quartieri a maggioranza
sunnita di Qasqas e Tariq Jdide, non lontano da Cola.
Ciò che
Hezbollah non può accettare è uno dei meriti maggiori della “primavera
libanese”, quello di voler superare le divisioni settarie che avvelenano il
Medio Oriente. È una grande notizia – annota Pierre Hasky di France
Inter su Internazionale – dopo anni segnati dal conflitto tra sciiti e sunniti,
dalle persecuzioni contro le minoranze e dal califfato fondamentalista, così
come è bello ascoltare lo slogan dei libanesi, “tutti significa tutti”,
espressione della volontà di lasciarsi alle spalle un sistema politico fondato
su un comunitarismo religioso. Certo, non si possono cancellare in un solo
colpo secoli di divisioni e guerre, ma un “libanese nuovo” sta emergendo dalle
manifestazioni: giovane, attivo su internet e deciso a uscire dalla “prigione”
mentale settaria.
Quella in atto,
a Beirut, è una rivoluzione culturale, ancor prima che sociale: è la
rivoluzione dei cittadini, in gran parte giovani, che si sentono iracheni,
libanesi, e non sunniti o sciiti, cristiani… Scendono in piazza sventolando
bandiere nazionali, esaltando un diritto di cittadinanza che riporta al centro
lo Stato-nazione, lo Stato dei cittadini, rompendo le vecchie gabbie
identitarie comunitarie. I manifestanti contestano l’alto tasso di
disoccupazione e la corruzione della classe politica. Il Paese dei Cedri ha uno
dei debiti pubblici più alti al mondo (circa 77 miliardi di euro, corrisponde
al 150 per cento del prodotto interno lordo), ma il livello di profitti delle
sue banche commerciali, vicine ad alcuni politici e che detengono gran parte
del debito, sono superiori a quelli dei Paesi occidentali. Secondo l’ultimo
rapporto dell’Undp, l’agenzia Onu per lo sviluppo umano, per ineguaglianza dei
redditi il Libano è al 129° posto su 141 paesi. L’un per cento più ricco
possiede il 25 per cento dell’intero redito nazionale. Nel 2017 il venti per
cento di tutti i depositi era concentrato in 1.600 conti correnti: lo 0,1 per
cento del totale dei depositi nelle banche libanesi, molte delle quali sono dei
politici di turno o dei loro parenti. Le proteste erano iniziate contro il
piano del governo di imporre nuove tasse su diversi beni e servizi, tra cui il
tabacco, la benzina e le telefonate fatte via internet.
A Beirut i
blackout programmati vanno dalle tre alle sei ore al giorno, fuori dalla
capitale si arriva invece anche a dodici ore senza elettricità. Chi può
permetterselo, copre le ore di “buco” acquistando un generatore, finendo così
per alimentare un business gestito da soggetti (in questo caso vicini a
Jumblatt, leader druso del Partito socialista progressista) che hanno interesse
nel mantenimento del precario status quo. Anche l’approvvigionamento idrico è
un problema – in alcune aree costiere della capitale l’acqua della doccia è
salata – solo parzialmente lenito dalla presenza di due navi cisterna turche
“parcheggiate” sulla costa libanese.
A chiunque
si trovi in Libano non può sfuggire, poi, l’emergenza rifiuti, che nel 2015
stimolò una prima rabbiosa protesta della popolazione, riunita attorno al
movimento della società civile “You stink” (Voi puzzate): il problema,
sorto ormai sette anni fa, non è stato mai risolto. Anzi, in alcuni frangenti
si è aggravato, soprattutto dopo la chiusura di alcune discariche, e l’apertura
di quella di Costa Brava, sulla spiaggia che lambisce l’aeroporto, che due anni
fa provocò anche alcuni problemi di sicurezza (i gabbiani che volavano sopra i
rifiuti “sconfinavano” spesso sulle piste di atterraggio). Infine, la logica
del wasta. Tradurlo con “raccomandazione” non renderebbe l’idea del
radicato meccanismo clientelare che sottende, insito nel sistema confessionale
libanese: chi cerca lavoro in Libano – dove la disoccupazione giovanile ha
raggiunto il quaranta per cento, cifra che cresce moltissimo se si considerano
i non contrattualizzati – nella quasi totalità dei casi deve conoscere qualcuno
che lo metta in contatto col politico cristiano, sunnita, sciita, druso (a
seconda dell’appartenenza del “richiedente”), che cercherà una occupazione per
lui in cambio di una implicita (o esplicita) promessa di “fedeltà”.
Semplificando, un voto di scambio, che finisce indirettamente per rafforzare la
legittimità dell’establishment, oggi integralmente sotto accusa.
Il Libano è
un non stato, come ha dimostrato qualche anno fa la paradossale “crisi della
spazzatura”, dovuta all’incapacità del potere pubblico di gestire i rifiuti
della capitale. Quella era stata la prima avvisaglia di ciò che sta accadendo
oggi, con la ribellione di un popolo intelligente e maturo che merita qualcosa
di più di un presidente che invita i giovani scontenti a emigrare. Finora
soltanto l’esercito è stato risparmiato dalla contestazione, e questo lascia
pensare che i militari potrebbero avere un ruolo chiave nell’immediato futuro, rimarca ancora Hasky.
ll premier
Saad Hariri s’è dimesso a fine ottobre. E da allora il capo di Stato Michel
Aoun non ha ancora avviato le consultazioni politiche previste dalla
costituzione. Non riuscendo ad “addomesticare” la piazza, Hezbollah ha deciso
di attaccarla. Un’avvisaglia c’era già stata il 25 ottobre. Se noi scendiamo
in piazza, non ci muoviamo finché non raggiungiamo i nostri obiettivi.
Tuttavia, quella iniziata come una protesta spontanea, gioiosa e giusta, in cui
la gente ha recuperato la speranza di cambiamento, ora viene strumentalizzata
da alcuni partiti politici e sta diventando qualcos’altro. Abbiamo informazioni
di intelligence secondo cui ci sarebbe uno schema internazionale per
delegittimare la resistenza, e ho chiesto alla nostra gente di tenersi lontana
dalle piazze. Stiamo entrando in una fase pericolosa, aveva avvertito
Nasrallah in un discorso minaccioso trasmesso da al-Manar, la tv di
Hezbollah.
Gli attacchi
susseguitisi nelle ultime 48 ore sono la traduzione operativa dell’avvertimento
di Nasrallah. Ma la rivoluzione laica non si fa ingabbiare. Una riprova la si è
avuta il 22 novembre, quando migliaia di libanesi sono tornati in piazza a
Beirut e nelle altre principali città del Paese nel giorno dell’indipendenza
nazionale. I manifestanti hanno inscenato una “parata civile” in piazza dei
Martiri e nella vicina piazza Riad Solh, luoghi simbolo della mobilitazione
contro il sistema politico, in risposta alla tradizionale parata militare
organizzata dalle autorità. Ogni anno, c’è stata una parata militare con
artiglieria, armamenti ecc.. Quest’anno, per cambiare, saranno tutti i settori
che rappresentano i libanesi a sfilare, per dimostrare che la ricchezza del
Libano, sono questi giovani e la loro capacità di cambiare il Libano,
ha dichiarato all’Orient-Le Jour, il quotidiano francofono di Beirut,
Mirna Chidiac, una delle organizzatrici. Quest’anno è davvero la
festa dell’Indipendenza del popolo, ha aggiunto.
Nelle stesse
ore, i principali leader politico-confessionali si erano invece riuniti
nel compound fortificato del ministero della difesa nella località di Yarze,
fuori Beirut, per assistere una parata militare simbolica. Una
separazione fisica che racconta di una nomenclatura sempre più estranea, e
ostile, al popolo di Piazza dei Martiri, cuore della rivoluzione laica dei
libanesi. Per i libanesi.
*
Foto
1: Il simbolo della rivolta libanese dato alle fiamme dagli squadristi di
Hezbollah
Foto
2: 12 novembre 1943, manifestazione di massa di donne, musulmane e cristiane,
contro il dominio francese. L’indipendenza libanese sarà proclamata qualche
giorno dopo. Le donne, in Libano hanno sempre avuto un ruolo “rivoluzionario”,
nei momenti cruciali della sua storia #استقلال_لبنان
Foto
3: Boom di vendita di bandiere libanesi, un altro segno della volontà diffusa
di superare settarismi e divisioni imposte da leader religiosi e gruppi
d’interesse
*
da www.ytali.com 26 Novembre 2019
Umberto De Giovannangeli, da
inviato speciale ha seguito per l’Unità gli eventi in Medio Oriente negli
ultimi trent’anni. Collaboratore di Limes, è autore di diversi saggi, tra i
quali “L’enigma Netanyahu”, “Hamas: pace o guerra”, “Al Qaeda e dintorni”,
“L’89 arabo”, e “ Medio Oriente in fiamme”. Ha un blog sull'Huffington Post
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