di Gustavo Zagrebelsky *
Gli elettori non esistono in natura. Sono il prodotto delle leggi e
dei sistemi elettorali. Neanche le parole degli elettori, i loro voti, sono un
dato naturale. Dipendono dagli artifici in cui sono inseriti e conteggiati per
produrre un risultato. Il voto può essere rispettato, maneggiato, manipolato,
reso vano e, perfino, orientato verso esiti desiderati da coloro che fanno e
disfanno le leggi elettorali: leggi “performative” che non regolano ma creano
il loro oggetto. Non si sta parlando di cose come brogli o corruzione. Si sta
parlando degli effetti di ogni legge il cui compito sia trasformare i voti in
seggi. In quella trasformazione stanno tutte le possibilità appena dette.
Si comprende così il significato dell’affermazione iniziale: gli elettori
sono l’effetto delle leggi elettorali. Queste, per così dire, “fanno
l’elettore”, lo rispettano o lo usano; sono neutrali o sono faziose; sono
sincere o sono mentitorie. Trasformano l’elettore da una realtà virtuale in una
realtà concreta, ed è forse questa la ragione sottintesa che ha indotto la
Corte costituzionale ad ammettere il ricorso contro le ultime leggi elettorali,
indipendentemente dalla loro applicazione: producono un effetto concreto
immediato, quando entrano in vigore.
Che cosa sono le leggi elettorali abusive? Si può trasformare la domanda in
quest’altra: di chi sono le leggi elettorali? La risposta, in teoria, è ovvia:
le leggi elettorali, tra tutte le leggi, sono quelle che più d’ogni altra
appartengono ai cittadini; e meno di tutte le altre, ai governanti.
Le leggi elettorali abusive sono quelle fatte dai governanti come se
interessassero, come se appartenessero, a loro. Guardiamo ora ciò che è
accaduto e che accade. Le si fanno (o si cerca di farle) col fiato corto,
guardando all’interesse immediato dei partiti. Così, esse diventano strumenti
di lotta politica orientata dai sondaggi. C’è da stupirsi, allora, se
all’accanimento nelle sedi del potere dove le si elaborano corrisponda l’
indifferenza indispettita di grande parte di cittadini elettori che assistono
alle giravolte, alle contraddizioni, alle furbizie e alle infinite improvvisate
complicazioni che si svolgono sopra la loro testa? Si comprende poco o niente
della riforma, ma si capisce benissimo d’essere trattati come merce, come
possibile “bottino”, e non come soggetti della democrazia.
La giustizia
elettorale, qualunque cosa significhi, è sostituita dagli interessi.
I partiti giocano molto della loro credibilità in questa partita. Esiste un
documento della Commissione di Venezia (autorevole consesso che formula giudizi
sullo stato della democrazia nei Paesi europei), adottato dal Consiglio d’
Europa nel 2003, intitolato “codice delle buone pratiche in materia
elettorale”. È un richiamo alla responsabilità e lealtà nei confronti degli
elettori. Vi si legge che «la stabilità del diritto è un elemento importante
per la credibilità di un processo elettorale, ed è essa stessa essenziale al
consolidamento della democrazia. Infatti, se le norme cambiano spesso,
l’elettore può essere disorientato e non capirle, specialmente se presentano un
carattere complesso. A tal punto che potrebbe, a torto o a ragione, pensare che
il diritto elettorale sia uno strumento che coloro che esercitano il potere
manovrano a proprio favore, e che il voto dell’elettore non è di conseguenza
l’elemento che decide il risultato dello scrutinio. Gli elementi fondamentali
del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale propriamente
detto, non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione, o
dovrebbero essere legittimati a livello costituzionale o ad un livello
superiore a quello della legge ordinaria».
Queste proposizioni, di per sé, non hanno forza di legge. Tuttavia, esse
integrano l’articolo 3 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo: diritto a elezioni libere ed eque. Questo sì ha forza di
legge. Sulla sua base la Corte di Strasburgo ha giudicato una legge della
Bulgaria contraria al principio di neutralità della legge elettorale
(Ekoglasnost contro Bulgaria, n. 30386/05). Si trattava d’una legge adottata in
prossimità delle elezioni che penalizzava un partito politico a favore degli
altri.
Attenzione a non incorrere, anche noi, nella medesima censura.
In Italia, l’abitudine di cambiare le regole del gioco a pochi mesi dalle
elezioni è prassi che pare normale. Così è accaduto nel 1923-4 con la “legge
Acerbo”; nel 1953 con la “legge-truffa”; nel 1993-4 con la “legge Mattarella”;
nel 2005-6 con la “legge Calderoli”. La stessa cosa potrebbe avvenire oggi con
una legge modificativa del cosiddetto Italicum a seguito della
recente sentenza della Corte costituzionale. Il sospetto che questa modifica
sia inficiata da ragioni di convenienza politica, in queste circostanze, è più
che un sospetto.
Si dice: siamo tuttavia in uno stato di necessità; abbiamo due leggi
elettorali diverse per la Camera e il Senato; se non le si rende omogenee ci
potrebbero essere maggioranze diverse; la “ingovernabilità” incombe su di noi.
Dunque, occorre una nuova legge elettorale. Fino a che non la si sarà fatta non
si vota (magari anche dopo il 2018?). Questa situazione non è caduta dal cielo.
È il risultato di decisioni assurde, volute da insipienti e arroganti.
Erano sicuri dell’esito del referendum che avrebbe eliminato l’elezione
diretta del nuovo Senato. L’Italicum che vale solo per la Camera è stato
approvato “nella (fiduciosa) attesa” della riforma costituzionale. Accanto alle
leggi comuni, retroattive, transitorie, interpretative, ecc., abbiamo inventato
le “leggi nell’attesa”. Ma gli indovini possono fallire, tanto più facilmente
quanto più si affidano a previsioni e presunzioni che riguardano altri da loro,
nel nostro caso gli elettori del 4 dicembre. Ora devono uscire dall’impasse dove
essi stessi si sono cacciati, coinvolgendo la Corte costituzionale (su cui un
discorso a parte dovrà essere fatto) e colpevolizzando gli elettori che hanno
mandata delusa la loro “attesa”.
Indipendentemente da astratte desiderabilità, c’è un solo modo per non
incorrere nell’accusa d’una legge dell’ ultim’ora a vantaggio degli uni e a
danno degli altri, con possibili conseguenze di fronte alla Corte di
Strasburgo: una legge proporzionale, con sbarramenti al basso ma senza premi
all’alto. Del resto, il proporzionale è l’unico sistema imparziale in un
contesto politico non bipolare come è l’attuale.
Nell’incertezza su chi potrebbe prevalere schiacciando i soccombenti (sia
il Pd, il Movimento 5Stelle o la coalizione di destra) è, alla fine,
nell’interesse di tutti. Finirà presumibilmente così. È difficile ammetterlo e
dirlo, perché sembra di voler ritornare indietro nel tempo.
Ma occorre pur riconoscere che il progetto di portare in Italia il
bipartitismo o il bipolarismo è fallito.
Qualunque premio (che sarebbe più corretto chiamare “di minoranza”: il
premio di maggioranza era quello del ’53, che avrebbe operato a favore di chi
avesse ottenuto la maggioranza dei voti) è un rischio per tutti e, in un
sistema tri- o multipolare, sebbene sia stato salvato dalla Corte
costituzionale, altererebbe la rappresentanza in modo incompatibile con la
democrazia rappresentativa.
E la “governabilità”? Governare è dei governanti. Sono loro a dover
garantire la governabilità e non c’ è nessun marchingegno elettorale che può
garantirla in carenza di senso di responsabilità, come dovremmo sapere noi in
Italia senza possibilità di sbagliarci. Occorreranno coalizioni e compromessi?
È probabile. Ma le coalizioni e i compromessi non sono affatto cose negative,
sono anzi nell’essenza della democrazia pluralista: dipende da chi le e li fa,
in vista di quali obbiettivi e a quali condizioni. Non sono necessariamente
“inciuci”, per usare il nostro squallido linguaggio.
Del resto, ogni sistema
elettorale non proporzionale applicato in contesti non bipartitici o almeno
bipolari, mette in moto accordi e patteggiamenti tra interessi più o meno
limpidi prima delle elezioni, per di più ignoti agli elettori, necessari “per
vincere”. Se questi si dovessero fare dopo le elezioni “per governare”, la loro
sede potrebbe e dovrebbe essere quella pubblica, il Parlamento. Che cosa, delle
due, è meglio?
* da libertaegiustizia.it (pubblicato
su La Repubblica, 7 febbraio 2017)
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