di Nicoletta Dentico *
Il primo
problema di cui la nuova direzione dell’OMS dovrà occuparsi è il disimpegno dei
governi e la crescente penetrazione del settore privato nelIa definizione delle
priorità dell’organizzazione
Il 2017
continua a profilarsi anno di novità per le Nazioni Unite. Dopo
l’avvicendamento del Segretario Generale a New York all’inizio di gennaio,
tocca alla direttrice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) Margaret
Chan passare la mano, entro il prossimo maggio, a una nuova direzione che si
insedierà formalmente il 1 luglio. In questi giorni, i 34 paesi membri del
Consiglio Esecutivo dell’Oms hanno concluso la prima fase della selezione dei
sei candidati in pista, per la votazione finale prevista durante l’Assemblea
Generale (22-31 maggio). L’italiana Flavia Bustreo, assistente della direzione
generale e candidata interna, non ha passato il primo turno elettorale. Adesso
la campagna si gioca tra l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus (che ha avuto 30
voti), la pakistana Sania Nishtar (la vera sorpresa di questa elezione, con 28
voti), e l’inglese David Nabarro (18 voti).
Il percorso
elettorale risente positivamente di alcuni cambiamenti dovuti alla riforma
dell’Oms, in termini di trasparenza e di processo democratico. Un voto segreto
a maggio potrebbe riservare inedite sorprese sull’esito finale, dopo la
riconferma della Chan nel 2012 senza alcuna competizione elettorale. Il ruolo è
di complessità inaudita, non c’è dubbio, e richiede criteri di leadership
manageriali e diplomatici imponenti. Purtroppo, la dinamica dell’elezione
interpreta, ancora una volta, il great game politico-sanitario mondiale.
Così, fino a maggio, questo sarà il primo test dell’effetto Trump sulle Nazioni
Unite. Sarà da misurare la possibile preferenza della Cina per il candidato
africano. Brexit a parte, i governi europei potrebbero decidere di convergere
sull’inglese David Nabarro, noto per la sua vicinanza al mondo dell’industria.
Guidare oggi
un’istituzione pubblica come l’Oms, decisamente indebolita e in ricerca di una
nuova credibilità dopo la sequenza di fallimenti nella gestione della influenza
pandemica H1N1 (2009) e della epidemia di Ebola (2014-2015), richiede una
visione politica coraggiosa. Le sfide planetarie che si abbattono oggi sullo
stato di salute delle persone – conflitti armati, inquinamento, cambiamenti
climatici, disoccupazione, migrazioni, politiche nazionali di privatizzazione,
misure di austerità e disuguaglianze diffuse – rimandano sempre di più ai
determinanti sociali della salute e alle necessità di considerare questi
diritto in un’ottica di protezione sociale universale e di politiche pubbliche.
Almeno 135 paesi membri dell’Oms hanno incorporato il diritto costituzionale
della salute, nel nord e nel sud del mondo. E’ francamente difficile
intravedere questo tipo di narrazione nelle stanze dell’Oms questa settimana:
prevale il discorso della health security (ovvero il contenimento delle
malattie con tentazioni neo-colonialiste), dell’intervento di emergenza
sanitaria, insomma un approccio umanitario che – dopo Ebola – potrebbe
riorientare l’Oms e distrarla dalla funzione normativa, non sempre gradita ai
governi che contano. Se prevalesse questo approccio, Nabarro potrebbe vantare
un vantaggio competitivo sugli altri candidati.
L’Oms
potrebbe essere compromessa “oltre ogni possibilità di recupero”, scrive senza
fronzoli l’ultimo editoriale della rivista Lancet. In effetti, molti
sono i nodi al pettine dopo sei dolenti anni di riforma capestro avviata nel
2010 dalla Chan per accattivarsi nuovi flussi finanziari e introdurre una
operatività più riconoscibile e coerente ai tre livelli della struttura
(Ginevra, gli uffici regionali e le sedi nei singoli paesi). La frammentazione della
struttura resta però tutt’altro che sanata, si continua a lavorare in silos,
anche grazie agli interventi di Mckinsey un decennio fa, che hanno puntato più
alla concorrenza che alla trasversalità, tra i vari dipartimenti dell’agenzia.
I numerosi tagli poi hanno prodotto un’emorragia dei funzionari più competenti,
rimpiazzati spesso da giovani alle prime armi e con contratti più leggeri, più
malleabili, e ricattabili. Un impoverimento istituzionale che non depone a
favore del futuro dell’Oms, a meno di una forte direzione capace di invertire
la rotta. Gli Stati Membri hanno una clamorosa responsabilità di questo
declino. A loro spetterebbe riguadagnare terreno per gestire la salute in
un’ottica pubblica, anche sul piano globale. Invece forniscono solo il 35,8%
dei fondi all’Oms, di cui solo il 21% sono utilizzabili con una certa
discrezionalità. Condurre un’organizzazione senza controllo sull’80% del
proprio budget è un mestiere estremo!
Il primo
problema riguarda dunque il disimpegno dei governi e la crescente penetrazione
del settore privato nelIa definizione delle priorità. Un fenomeno che non ha
risparmiato l’Oms, man mano che la globalizzazione dell’economia e le diverse
ondate di privatizzazione e deregolamentazione hanno accresciuto il potere
degli attori privati, in particolare delle grandi imprese, nella diplomazia
internazionale. La creazione del Global Compact, voluto da Kofi Anan per
aprire le porte delle Nazioni Unite al mondo del business in vista degli
Obiettivi di Sviluppo del Millennio, lo sviluppo del modello multistakeholder
e l’affermazione ideologica dei partenariati pubblico-privati come sola
modalità di lavoro, non sono che l’espressione più evidente di una strategia
volta a de-istituzionalizzare o ibridizzare l’ONU, per dare spazio e capacità
di influenza a questi potenti attori nei fora di politica internazionale. Lo
stesso paradigma, del resto, sottende acriticamente al nuovo impegno sugli
Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile (SDGs), malgrado ne sia provata dopo due
decenni la disfunzionalità.
La
definizione del rapporto dell’Oms con gli attori non statali – la “Framework of
Engagement with Non State Actors” (FENSA) – è stata al centro di quattro anni
di aspri dibattiti negoziali, e si è conclusa con un dispositivo assai
insoddisfacente per le organizzazioni della società civile impegnate su questo
fronte. FENSA permette alle entità del business, alle fondazioni filantropiche
e alle diverse partnership di entrare in relazione officiale con l’Oms.
Il problema è che la gestione del conflitto di interessi non viene trattata con
adeguatezza e realismo, e la promessa di trasparenza non illumina le ambiguità
che permangono, a vari livelli.
La richiesta
della Fondazione Bill e Melinda Gates (BMGF) di entrare in relazioni ufficiali
con l’Oms, al vaglio dell’Executive Board in questi giorni, riaccende la
discussione. Piuttosto improbabile che venga rigettata: la BMGF ha fornito
all’Oms un contributo di 629 milioni dei 4,5 miliardi di dollari dell’ultimo
budget, più del 13% di tutti i contributi volontari all’organizzazione. Le
criticità strutturali si addensano dunque, e non poco. Anche perché la
privatizzazione della salute nei paesi membri dell’Oms sembra essere
contagiosa, e non è epidemia di cui medico si stia prendendo cura.
Le favolose
scatole cinesi di Bill e Melinda
Fondata nel
1999 dalla fusione della William H. Gates Foundation e la Gates Learning
Foundation, la Bill and Melinda Gates Foundation (BMGF) è la più grande
fondazione filantropica del mondo, con una dotazione di 42,9 miliardi di
dollari (marzo 2015). Con l’entrata di Warren Buffet con una dote di 30
miliardi di dollari nel 2006, la Fondazione si è divisa in due entità separate:
la Bill and Melinda Gates Foundation, che distribuisce i fondi e la Bill and
Melinda Foundation Trust, che gestisce gli asset patrimoniali.
Secondo ai
dati della US Government’s Securities and Exchange Commission, il
patrimonio della Bill and Melinda Foundation Trust ha considerevoli
investimenti in diverse industrie alimentari e in altri settori di prodotti al
consumo che minacciano la salute, e possono causare malattie cardiovascolari,
cancro, e diabete. Questi investimenti includono:
- · 466 milioni di dollari nella industria della Coca-Cola che opera a sud degli USA ;
- · 837 milioni di dollari nella Walmart, la più grande catena di cibo, di farmaceutici e di alcolici negli USA;
- · 280 milioni di dollari nella Walgreen-Boots Alliance, una grande multinazionale per la vendita di farmaci al dettaglio;
- · 650 milioni di dollari in due giganti della produzione di schermi televisivi, GroupTelevisa ($433 ml) e Liberty Global PLC ($221 ml).
- In aggiunta, tramite Warren Buffet, un quarto del patrimonio della Fondazione detiene investimenti nella Berkshire Hathaway Inc., una holding con 17 miliardi di azioni nella Coca-Cola company degli Stati Uniti, e 29 miliardi di fondi investiti nella Kraft Heinz Inc., una delle prime dieci aziende nel comparto alimentare. Tutti questi investimenti fanno della Fondazione Bill e Melinda Gates una beneficiaria della vendita di diverse categorie di prodotti, soggetti agli standard e alle regolamentazioni dell’Oms, nonché alle politiche dei governi su questioni di nutrizione, cibo e salute. E’ una bizzarra coincidenza che, nel Registro dei Non State Actors, questa trama di conflitti di interesse non venga minimamente presa in considerazione.
Le
associazioni della società civile internazionale hanno sottoscritto una lettera
ai governi dell’Executive Board, con cui si chiede con urgenza di deferire ogni
apertura di credito alla BMGF e di evitare decisioni che potrebbero mutare
definitivamente la natura dell’agenzia ed erodere ogni mandato costituzionale a
favore dei diritto alla salute. Prima che sia troppo tardi!
* da sbilanciamoci.info
- 30 gennaio 2017
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