di Angelo Tartaglia
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In tema di
sostenibilità e di ambiente, si sa, la retorica ha ampio spazio. Dopo decenni
di negazionismo palese e oggi strisciante la questione climatica è assurta
all’onor delle cronache e se ne parla spesso sui giornali e in televisione.
Ultimamente poi, per chi sottovoce continua ad esser dubbioso sul fatto che la
nostra specie possa davvero provocare mutamenti globali, si è incaricato messer
Covid-19 di spiegare come stanno le cose: la pianura padana (e la città di
Torino), immersa in una coltre di polveri e di gas non precisamente salutari, a
seguito di una dozzina di settimane di blocco ha visto migliorare
macroscopicamente la qualità della sua aria; a scala globale il tasso di
immissione di CO2 in atmosfera si è ridotto, a oggi, di circa un
quarto (vedremo a fine anno); il giorno in cui l’umanità arriva ad aver
consumato tutte le risorse rinnovabili disponibili quell’anno sul pianeta (overshoot
day), che era arrivato a collocarsi tra fine luglio e inizio agosto, è ora
risalito al 22 agosto; e così via.
Su questo
sfondo politica e istituzioni non potevano continuare a ignorare il problema e
così “l’ambiente” è entrato nei programmi e nei proclami (non proprio di tutti,
ma quasi). Anche le organizzazioni imprenditoriali hanno sposato l’ambiente,
principalmente perché hanno verificato che il marchio “green” si vende bene.
Lungi dal modificare alcunché nell’approccio di sempre alla produzione e al
consumo i messaggi promozionali sono zeppi di “sostenibilità”, cura
dell’ambiente e quant’altro.
La realtà è
che (è il caso di ricordarlo) dal punto di vista climatico l’umanità è alla
vigilia di un possibile tracollo causato dall’impatto sui complessi equilibri
dell’ecosfera terrestre. Non è un modo di dire; è una ragionevole (dal punto di
vista scientifico) previsione così come quella riguardo alla probabile comparsa
di pandemie che circolava, sempre negli ambienti scientifici, già da qualche
anno. Possono sempre accadere eventi inattesi, ma di una infinità di fatti che
in passato sarebbero stati attribuiti al “caso” o al “destino” (se non a
qualche divinità irata o capricciosa) oggi si conoscono cause e origine.
Insomma, un buon numero di disastri oggi potrebbe essere prevenuto o quantomeno
attenuato negli effetti promuovendo un sufficiente livello di resilienza. Il
problema è che, per incrementare la resilienza e prevenire i disastri, non
bastano salvifiche (e magiche, quanto impossibili) novità tecnologiche: occorre
mettere mano al modo stesso in cui i rapporti economico-sociali tra di noi sono
organizzati. E qui vengono le complicazioni.
Il virus ha
di botto comportato un drastico ridimensionamento degli spostamenti aerei, il
che è positivo visto che il mezzo aereo è il più impattante sulla composizione
dell’atmosfera: ma ci sono migliaia di lavoratori, che, nel brusco cambiamento,
rischiano di perdere i titoli per accedere a ciò che tutti gli altri producono.
Ci sono in giro troppe automobili: la qualità dell’aria in ambito urbano e in
tutta la pianura padana è come minimo scadente; le nostre città sono intasate
di traffico e ipercongestionate. Ma migliaia e migliaia di lavoratori devono il
loro potere d’acquisto alla produzione di autovetture. Migliaia di famiglie,
anche in Italia, hanno un reddito legato alla produzione di armi che servono
per uccidere e distruggere: se smettiamo di produrle, come dovremmo, quelle
famiglie perdono il diritto di accedere ai beni prodotti da tutti gli altri. E
così via. Insomma, occorre cambiare la struttura di un sistema complesso ma
qualsiasi cosa si tocchi ha ripercussioni sull’intero sistema. Detto in altri
termini non bastano singoli provvedimenti ma ci vuole una politica, cioè
un progetto complessivo di medio/lungo termine.
E qui
torniamo alle istituzioni e alla “politica”, quella degli addetti ai lavori,
che si trova in mezzo. In mezzo a spinte e controspinte contraddittorie, che si
traducono in scelte in certa misura schizofreniche fatte guardando ad orizzonti
a corto o cortissimo termine.
Se prendiamo
la scala europea, troviamo intenzioni dichiarate e provvedimenti proposti molto
interessanti: il “Green Deal” e una “Climate Law”, oltre a una serie di
direttive indirizzate agli Stati membri e intese a promuovere una politica
energetica basata sulle fonti rinnovabili e il sostegno alle comunità
dell’energia. Tutto ciò è positivo, ma bisogna assicurarsi che tutte le
scelte che competono all’Unione Europea, nonché quelle degli Stati membri,
siano coerenti. Al momento il Green Deal è una dichiarazione di intenti che
individua un elenco di azioni da intraprendere al fine di conseguire una serie
di obiettivi ambiziosi e importanti che, tutti insieme, dovrebbero portare
entro il 2050 alla “neutralità climatica”, cioè ad azzerare le
immissioni nette di gas serra in atmosfera da parte dell’Unione. L’azzeramento
sarebbe il risultato di una combinazione di abbattimento di emissioni e di
attivazione di processi di rimozione della CO2 dall’atmosfera, che
compensi le emissioni residue. Il Green Deal poi indica una quantità di altri
obiettivi volti alla sostenibilità ambientale da ogni punto di vista.
Nella
tabella di marcia delle azioni del Green Deal è prevista la presentazione di
una legge europea sul clima. Legge che è stata effettivamente presentata ed è
ora al vaglio degli organismi dell’Unione nel complesso iter che dovrebbe
portare alla sua approvazione. Se si legge il testo si vede che, anche in
questo caso, la legge fissa una quantità di obiettivi volti alla mitigazione
del mutamento climatico globale. Oggi l’Europa si è impegnata, a seguito degli
accordi di Parigi del 2015, a ridurre, entro il 2030, le proprie emissioni di
gas serra (generalmente ci si esprime in termini di CO2 equivalente)
del 40% rispetto al livello del 1990.
La legge sul clima porta quel limite al
50% o 55% sempre entro il 2030, il che è coerente con l’urgenza del problema.
Il testo però in generale non dice come l’obiettivo dovrebbe essere
conseguito: il come è competenza dei singoli Stati che sono però comunque
tenuti ad agire. Verosimilmente questo approccio è quello consentito dagli
ordinamenti europei, che non intervengono direttamente, ma tutt’al più
sanciscono o sanzionano il raggiungimento degli obiettivi. Vi è però una leva
molto importante attraverso la quale l’Unione può intervenire nei confronti
degli Stati membri: quella dei finanziamenti.
L’Europa,
nel suo bilancio, stanzia dei fondi a sostegno degli obiettivi che ritiene
debbano essere perseguiti. Per accedere a tali fondi bisogna dimostrare che il
progetto presentato abbia determinati requisiti e che la sua realizzazione
segua determinate regole. Ora, venendo alla questione climatica, c’è un
requisito fondamentale da cui non si può prescindere: l’opera, l’intervento,
l’attività proposta alla fine deve produrre una riduzione delle
emissioni di CO2, certamente non un aumento; e la valutazione della
credibilità del risultato preannunciato deve essere fatta a priori. In pratica
è necessario effettuare preventivamente sul progetto una analisi del ciclo di
vita (LCA: Life Cicle Assessment) e, in specifico, dell’impronta del
carbonio e l’analisi deve riguardare, quando si tratta di un’opera, sia la fase
di realizzazione che, poi, quella di funzionamento. Naturalmente tale analisi preventiva
non può essere fatta da chi propone l’opera, ma deve essere effettuata da un soggetto
terzo qualificato (centri di ricerca pubblici) e deve essere pubblica e
discutibile in contraddittorio, sempre in forma pubblica. L’idea è semplice: se
l’esito dell’analisi dice che alla fine le emissioni di gas serra si
ridurranno, allora si passa a considerare altri parametri, come quelli della
convenienza economica (costi/benefici tradizionale); se risulta che le
emissioni non si ridurranno, il finanziamento non viene concesso. Anche
nel primo caso naturalmente l’ente finanziatore non potrà esimersi dal
monitorare che le cose siano poi fatte come preventivato e che il risultato sia
effettivamente conseguito.
Lo scorso 3
giugno un gruppetto di parlamentari europei[1]
ha depositato una proposta di emendamento alla legge sul clima ispirato a
quanto sopra. Il testo dell’emendamento è meno netto della formulazione che ho
illustrato, ma si va nella direzione giusta. Vedremo ora come si regolerà il
Parlamento europeo.
E l’Italia?
Anche qui da un lato le intenzioni espresse a livello governativo sono
positive, anche se non ci sono obiettivi e scadenze (potrebbero valere quelli
europei) e si richiama ampiamente la sostenibilità e l’economia circolare;
dall’altro la ricetta presentata per la “ripresa” ricalca gli schemi
tradizionali. In particolare sembra sempre essere ben presente la “magia del
cemento”: aprire cantieri comunque e dovunque, poco importa per cosa. Il fatto
è che il cemento ha due caratteristiche: a) la sua vita utile è
limitata; b) anche solo per produrlo porta a una emissione di CO2
in misura pari o leggermente superiore al peso del cemento prodotto. Non
insisto qui sulla schizofrenia tra la sostenibilità e la logica della crescita.
Posso limitarmi a osservare che sarebbe opportuno introdurre qualche
“misuratore di coerenza” tra opere e obiettivi. Nel nostro ordinamento sono già
previste le valutazioni d’impatto ambientale con aggettivazione varia. Sono, a
rigore, onnicomprensive, ma quanto risultino alla fine dirimenti in sede
decisionale non è ben definito. Recentemente è stato anche proposto di inserire
in Costituzione ambiente e sostenibilità. Ottima cosa, ma restiamo nell’ambito
dell’affermazione di principi; il quotidiano poi va in tutt’altra direzione.
Ci sarebbe,
anche qui, bisogno di una norma generale chiara e specifica per quanto riguarda
le emissioni di gas climalteranti, che preveda un’analisi indipendente di qualsiasi
opera o intervento il cui esito risultasse vincolante. Ci sarà qualcuno che
si farà carico di proporla?
[1] I parlamentari sono: Eleonora Evi, Ignazio Corrao,
Daniela Rondinelli, Piernicola Pedicini, Rosa D’Amato, Mario Furore (Movimento
5 Stelle); Marie Toussaint, Tilly Metz (Verdi europei); Manuel Bompard, Leila
Chaibi, Anne-Sophie Pelletier (Sinistra Unitaria Europea).
* da volerelaluna.it
– 10 giugno 2020
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