Così vicini,
così lontani. Imbarazzante il paragone con l'Italia. 8 mila casi contro 15
mila, 71 morti contro oltre mille. Nel paese asiatico meno posti in
rianimazione e più tecnologia. Tamponi (a pagamento) senza scendere dall’auto.
E per risalire ai contatti avuti da un paziente non si esita a utilizzare
tracciati gps dei telefoni, dati sull’uso delle carte di credito e telecamere a
circuito chiuso
Il mantra
degli ultimi giorni in Italia è «facciamo come la Cina», riferendosi al
lockdown che ancora blocca gran parte delle attività anche fuori dalla zona
rossa. In effetti, in Cina i contagi sono diminuiti nettamente: erano quasi 4
mila i nuovi casi giornalieri all’inizio di febbraio e ora la media giornaliera
è scesa sotto il centinaio di casi.
MA LA CINA
NON È L’UNICO modello che
si può prendere a riferimento nella lotta contro il coronavirus. La Corea del
sud, ad esempio, ancora all’inizio di marzo era il malato del mondo, con un
numero di casi giornalieri doppio anche rispetto a quello italiano. Ora il
rapporto si è più che ribaltato: ieri i casi italiani sono stati venti volte
superiori a quelli sudcoreani, che registrano solo un centinaio di casi al
giorno. In Corea del sud i casi censiti finora sono circa 8 mila, contro i 15
mila in Italia. Ciò che più colpisce è la differenza tra il numero di vittime
in Corea del sud e in Italia: più di mille da noi, solo 71 in Corea. Il tasso
di letalità, cioè il rapporto tra morti e casi censiti, in Italia supera il 6%
mentre in Corea è allo 0,9%.
LA COREA DEL
SUD È UN PAESE abbastanza
simile al nostro per popolazione e superficie: un po’ più di 50 milioni di
abitanti (noi siamo 60 milioni) distribuiti in 220 mila chilometri quadrati,
contro i 301 mila italiani, età media di 42 anni poco inferiore ai nostri 46.
Come si spiega che lo stesso virus abbia una così diversa letalità in due
contesti analoghi?
I fattori
sono diversi. Il sistema sanitario non è tra quelli. Anche in Corea del Sud gli
ospedali si sono trovati impreparati davanti al numero di malati, con un numero
inferiore di posti letto in terapia intensiva per abitante rispetto all’Italia.
Alcune vittime sono morte a casa aspettando che si liberasse un letto in
reparto.
UNA
DIFFERENZA riguarda la
strategia adottata per rallentare il contagio. Il principale focolaio
sudcoreano è scoppiato all’interno di una congregazione cristiana (la «Chiesa
di Gesù al Tempio del tabernacolo della testimonianza») e i casi si sono
concentrati all’80% nelle regioni di Daegu e del Gyeongsang del nord, in
un’area paragonabile per superficie e popolazione a quella della Lombardia. Ma
invece di creare una zona rossa delimitata, le autorità sanitarie di Seul hanno
puntato sulla rigida applicazione di quarantene, sul controllo capillare di
eventuali contatti dei pazienti positivi e sulla capacità diagnostica.
PER CAPIRE
CON QUALI PERSONE un paziente
è entrato in contatto, non si è risparmiato in tecnologia. Oltre alle
testimonianze dei pazienti, sono stati usati i tracciati gps dei telefoni, i
dati sull’utilizzo delle carte di credito, le telecamere a circuito chiuso. Per
ottenere queste informazioni sono state integrate le banche dati della polizia,
delle società telefoniche, delle assicurazioni sanitarie e delle autorità
finanziarie. Come altrove, il costo di un sistema sanitario impreparato davanti
alle emergenze si è scaricato sui cittadini in termini di salute, ma anche di
controllo sociale.
L’altro fattore decisivo è la
capacità diagnostica. Sulla carta, i criteri con cui le autorità sanitarie
sud-coreane scelgono quali persone devono sottoporsi al test per il coronavirus
non sono diversi da quelli usati da noi. Ma la disponibilità di test è più
elevata, si arriva a farne fino a 20 mila in un giorno, più ancora degli 11
mila tamponi effettuati in Italia.
ANCHE IN
COREA DEL SUD serve una
prescrizione medica per il test, ma pagando circa 130 euro lo si può fare anche
senza. Decine di centri diagnostici sono stati allestiti direttamente in strada
e il tampone si può fare senza scendere dalla macchina. Così diminuisce il
rischio di infezioni per medici e altri pazienti. I laboratori autorizzati per
il test sono 96, il doppio rispetto ai nostri.
Questo ha permesso di rintracciare
un numero molto più grande di contatti, rispetto alla sola testimonianza da
parte dei pazienti che può essere lacunosa.
Senza
contenimento, ogni individuo infetto ne contagia in media altri tre o quattro.
Per fermare la diffusione del coronavirus, gli epidemiologi ritengono
necessario isolare almeno il 70% dei contatti a rischio. Secondo una ricerca di
un’università olandese, il contagio da infetti asintomatici è più frequente del
previsto. Se il dato fosse confermato, poter rintracciare i contatti con
tempestività diventerebbe decisivo.
GRAZIE ALLA
STRATEGIA adottata in
Corea del sud, il profilo dei casi positivi è risultato piuttosto diverso da
quello italiano. Le persone positive al virus sono più giovani (meno di
cinquant’anni contro oltre sessanta da noi) e hanno meno sintomi. Le donne
(maggioritarie nelle chiese evangeliche) sono il 62% delle persone contagiate e
hanno fattori di rischio minori: solo il 6% delle coreane fuma, contro il 38%
dei maschi.
( Andrea Capocci -Il Manifesto 14 marzo 2020 )
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