16 marzo 2020

CoVid19: Alta diagnostica e controllo sociale, il modello Corea del sud ribalta i numeri


Così vicini, così lontani. Imbarazzante il paragone con l'Italia. 8 mila casi contro 15 mila, 71 morti contro oltre mille. Nel paese asiatico meno posti in rianimazione e più tecnologia. Tamponi (a pagamento) senza scendere dall’auto. E per risalire ai contatti avuti da un paziente non si esita a utilizzare tracciati gps dei telefoni, dati sull’uso delle carte di credito e telecamere a circuito chiuso



Il mantra degli ultimi giorni in Italia è «facciamo come la Cina», riferendosi al lockdown che ancora blocca gran parte delle attività anche fuori dalla zona rossa. In effetti, in Cina i contagi sono diminuiti nettamente: erano quasi 4 mila i nuovi casi giornalieri all’inizio di febbraio e ora la media giornaliera è scesa sotto il centinaio di casi.

MA LA CINA NON È L’UNICO modello che si può prendere a riferimento nella lotta contro il coronavirus. La Corea del sud, ad esempio, ancora all’inizio di marzo era il malato del mondo, con un numero di casi giornalieri doppio anche rispetto a quello italiano. Ora il rapporto si è più che ribaltato: ieri i casi italiani sono stati venti volte superiori a quelli sudcoreani, che registrano solo un centinaio di casi al giorno. In Corea del sud i casi censiti finora sono circa 8 mila, contro i 15 mila in Italia. Ciò che più colpisce è la differenza tra il numero di vittime in Corea del sud e in Italia: più di mille da noi, solo 71 in Corea. Il tasso di letalità, cioè il rapporto tra morti e casi censiti, in Italia supera il 6% mentre in Corea è allo 0,9%.

LA COREA DEL SUD È UN PAESE abbastanza simile al nostro per popolazione e superficie: un po’ più di 50 milioni di abitanti (noi siamo 60 milioni) distribuiti in 220 mila chilometri quadrati, contro i 301 mila italiani, età media di 42 anni poco inferiore ai nostri 46. Come si spiega che lo stesso virus abbia una così diversa letalità in due contesti analoghi?
I fattori sono diversi. Il sistema sanitario non è tra quelli. Anche in Corea del Sud gli ospedali si sono trovati impreparati davanti al numero di malati, con un numero inferiore di posti letto in terapia intensiva per abitante rispetto all’Italia. Alcune vittime sono morte a casa aspettando che si liberasse un letto in reparto.

UNA DIFFERENZA riguarda la strategia adottata per rallentare il contagio. Il principale focolaio sudcoreano è scoppiato all’interno di una congregazione cristiana (la «Chiesa di Gesù al Tempio del tabernacolo della testimonianza») e i casi si sono concentrati all’80% nelle regioni di Daegu e del Gyeongsang del nord, in un’area paragonabile per superficie e popolazione a quella della Lombardia. Ma invece di creare una zona rossa delimitata, le autorità sanitarie di Seul hanno puntato sulla rigida applicazione di quarantene, sul controllo capillare di eventuali contatti dei pazienti positivi e sulla capacità diagnostica.

PER CAPIRE CON QUALI PERSONE un paziente è entrato in contatto, non si è risparmiato in tecnologia. Oltre alle testimonianze dei pazienti, sono stati usati i tracciati gps dei telefoni, i dati sull’utilizzo delle carte di credito, le telecamere a circuito chiuso. Per ottenere queste informazioni sono state integrate le banche dati della polizia, delle società telefoniche, delle assicurazioni sanitarie e delle autorità finanziarie. Come altrove, il costo di un sistema sanitario impreparato davanti alle emergenze si è scaricato sui cittadini in termini di salute, ma anche di controllo sociale.
L’altro fattore decisivo è la capacità diagnostica. Sulla carta, i criteri con cui le autorità sanitarie sud-coreane scelgono quali persone devono sottoporsi al test per il coronavirus non sono diversi da quelli usati da noi. Ma la disponibilità di test è più elevata, si arriva a farne fino a 20 mila in un giorno, più ancora degli 11 mila tamponi effettuati in Italia.

ANCHE IN COREA DEL SUD serve una prescrizione medica per il test, ma pagando circa 130 euro lo si può fare anche senza. Decine di centri diagnostici sono stati allestiti direttamente in strada e il tampone si può fare senza scendere dalla macchina. Così diminuisce il rischio di infezioni per medici e altri pazienti. I laboratori autorizzati per il test sono 96, il doppio rispetto ai nostri.
Questo ha permesso di rintracciare un numero molto più grande di contatti, rispetto alla sola testimonianza da parte dei pazienti che può essere lacunosa.
Senza contenimento, ogni individuo infetto ne contagia in media altri tre o quattro. Per fermare la diffusione del coronavirus, gli epidemiologi ritengono necessario isolare almeno il 70% dei contatti a rischio. Secondo una ricerca di un’università olandese, il contagio da infetti asintomatici è più frequente del previsto. Se il dato fosse confermato, poter rintracciare i contatti con tempestività diventerebbe decisivo.

GRAZIE ALLA STRATEGIA adottata in Corea del sud, il profilo dei casi positivi è risultato piuttosto diverso da quello italiano. Le persone positive al virus sono più giovani (meno di cinquant’anni contro oltre sessanta da noi) e hanno meno sintomi. Le donne (maggioritarie nelle chiese evangeliche) sono il 62% delle persone contagiate e hanno fattori di rischio minori: solo il 6% delle coreane fuma, contro il 38% dei maschi.

( Andrea Capocci -Il Manifesto 14 marzo 2020 )

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