Il
presidente americano è ottimista rispetto ad un accordo con i Taliban. Accordo
però che rischia di far ripiombare il paese nel caos. E di fornire a Trump un
argomento per le elezioni di novembre.
di Beniamino Natale *
Anticipo
subito la conclusione di quest’articolo. Le probabilità che il piano di pace di
Donald Trump per l’Afghanistan funzioni sono di molto poco superiori allo zero.
Questo, se si ritiene che lo scopo sia quello di arrivare ad un Afghanistan
pacifico, nel quale tutte le minoranze abbiano garantiti i loro diritti e le
cui istituzioni, se non proprio democratiche, siano almeno improntate ad un
Islam moderato e di larghe vedute. Se invece, come sospetto sia per il
presidente americano e i suoi collaboratori, il successo è misurato
esclusivamente dal ritiro dei soldati americani – in modo che lo stesso Trump,
nella campagna elettorale, possa dire di aver mantenuto almeno una delle promesse
fatte ai suoi elettori – il discorso cambia.
Partiamo dai
Taliban: sono cambiati, sono moderati, sono pronti a fare concessioni,
eccetera, eccetera. Questo è quello che dicono loro stessi e i sostenitori
americani del processo di pace. Difficile crederlo. Lasciando da parte la
credibilità dei Taliban stessi – sulla quale, direi, i dubbi sono legittimi – i
Taliban non sono mai stati un gruppo indipendente. Sono nati e cresciuti per
volontà dell’esercito pakistano, che ancora li finanzia e li guida. Un esercito
che non ha mai rinnegato la teoria della cosiddetta “profondità strategica”.
Vale a dire che, per la sua “sicurezza”, il Pakistan deve controllare
l’Afghanistan. Questa sciagurata teoria, che a mio parere non ha fondamento
nella realtà – la sicurezza del Pakistan dipende prima di tutto dalla sua
capacità di avere buone relazioni con i vicini – è nata molti anni fa, ai tempi
della jihad contro gli invasori sovietici. Quella guerra, voluta e finanziata
da tutto il mondo – Stati Uniti, Cina, Europa, paesi arabi, ecc. – fu gestita
dall’esercito di Islamabad che usò i mujaheddin, buona parte dei quali si
convertirono poi in Taliban sotto la guida del torvo mullah Omar, amico e
alleato del leader terrorista responsabile del 9/11, lo sceicco Osama bin Laden
(che, ricordiamo, fu ucciso dai navy seals americani in un rifugio in
territorio pakistano, che con tutta probabilità era noto da anni ai militari
pakistani).
L’invenzione
dei Taliban si deve ai cervelli dell’esercito pakistano, come l’ex-capo dei
servizi segreti militari Hamid Gul e l’ex-generale ed ex-ministro degli interni
Nasirullah Babar. Il loro ragionamento fu semplice: nel mosaico etnico
dell’Afghanistan, i pashtun sono l’etnia più numerosa e storicamente dominante.
Per mettere fine al caos, alla sanguinosa guerra civile seguita al ritiro dei
sovietici era necessario creare una forza militare in grado di soverchiare
tutti gli altri gruppi di guerriglieri tribali, come i tajiki di Ahmad Shah
Massoud, gli uzbeki di Rashid Dostum, gli hazara di Karim Khalili. Ed ecco che
miracolosamente appaiono i Taliban. Pashtun – come i milioni di pashtun che
vivono in Pakistan -, bravi combattenti ma pessimi politici, che possono essere
con facilità “guidati” dal Pakistan. Il gioco è fatto fino a quando i Taliban
non scoprono lo “sheik” Osama e quest’ultimo non organizza gli attentati alle
Torri Gemelle con tutto quello che ne è seguito.
Alcuni dei
protagonisti della storia che ho sommariamente raccontato qui sopra – come
Hamid Gul, Nasirullah Babar, il mullah Omar e Osama bin Laden – sono morti. Ma
altri – come Rashid Dostum e Karim Khalili – sono vivi. E quelli scomparsi
hanno dei successori che non sembra si discostino dalle loro idee di fondo. Uno
degli attuali leader dei Taliban, Sirajuddin Haqqani, figlio di uno degli eroi
della jihad anti-sovietica, ha scritto in un articolo pubblicato dal New
York Times, che saranno “consultazioni tra gli afghani” a decidere che tipo
di governo si installerà a Kabul dopo il ritiro delle “truppe straniere” – cioè
americane e alleate – dal paese. Questo mentre il mondo, per così dire,
“istituzionale” dell’Afghanistan è diviso tra i sostenitori del presidente
rieletto Ashraf Ghani e quello del suo concorrente Abdullah Abdullah, che ha
affermato di non riconoscere i risultati delle elezioni presidenziali e che, di
conseguenza, ritiene di essere lui il “vero” presidente dell’Afghanistan.
Troppo
facile prevedere che la guerra civile riprenderà con forza. Il Pakistan non
intende rinunciare al diritto, che si è auto-attribuito molti anni fa, a
controllare l’Afghanistan garantendosi così la “profondità strategica”. I
sostenitori degli altri gruppi – l’Iran, l’India, le repubbliche ex-sovietiche,
la Russia – riprenderanno a finanziare e ad armare i gruppi a loro fedeli –
cioè quelli che possono impedire ai Taliban, ai pashtun e ai pakistani – di
assumere il controllo totale del paese. Riprenderanno a combattere. Ognuno usando
la sua milizia locale, perché i tentativi di creare un “esercito nazionale”
afghano, basato su una “coscienza nazionale” afghana sono miseramente falliti.
Non credo che siano molti gli afghani che si sentono rappresentanti dal governo
di Kabul e dai suoi protettori stranieri. L’identità e le fedeltà di ciascuno
sono determinate dall’appartenenza ad una famiglia, ad una tribù, ad un’etnia.
L’unica possibilità di ricreare uno Stato afghano unitario era affidata al
ritorno del popolare re Zahir Shah (morto nel 2007) e della sua famiglia.
Questo non è stato possibile perché i gruppi tagiki che hanno aiutato gli
americani nella guerra contro Osama bin Laden e i Taliban sono repubblicani.
Amen.
Il risultato
è comunque che non esiste un esercito afghano in grado di opporsi ai Taliban
sostenuti come sempre dai militari pakistani. Non c’è lotta. Solo le varie
milizie etniche, qualsiasi nome le venga dato, possono bloccare Islamabad nella
ricerca del dominio totale sul paese. E quelle milizie, guidate da vecchi o nuovi
“signori della guerra”, torneranno presto sulla scena. Un brillante ritorno
alla casella numero uno, all’Afghanistan abbandonato nel caos dalle “truppe
straniere”, allora sovietiche, oltre trent’anni fa. Ben fatto, Donald!
* da www.ytali.com , 23 febbraio 2020
Beniamino
Natale si occupa di Asia dalla fine degli anni Settanta Dal 1992 al 2002 è
stato corrispondente dell’ ANSA da New Delhi. In questo periodo ha stretto
un’amicizia con Tiziano Terzani, col quale ha condiviso una serie di importanti
esperienze professionali e umane, tra cui la copertura della guerra in
Afghanistan del 2001. Ha scritto tre libri: "L'Uomo che Parlava coi Corvi"
e "Apocalisse Pakistan" (con Francesca Marino), e "Cina, la
Grande Illusione", pubblicato online. Dall’inizio del 2016 vive a Hong
Kong.
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